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na sagoma di donna nella luce soffusa della notte è ferma sul ciglio della porta di una camera da letto. La paura le congela ogni gesto, come se non volesse farsi vedere dall’uomo che dall’altro capo della stanza la attende (ancora) pieno di desiderio. A poco a poco questa sagoma si avvicina, il suo corpo è nudo e mutilato, privato di un seno e di un braccio, attraversato da cicatrici e cuciture disegnate sulle sue forme e sinuosità. L’uomo non voleva altro che quel corpo: “Anche se mutilata, tu mi desideri ancora…” dice la donna con la voce strozzata dal pianto, gettandosi tra le braccia del marito; “possiamo ancora fare sesso”, continua lei, lui si stringe delicatamente sul suo fianco che inevitabilmente si spezza, sentiamo il rumore delle ossa frantumate: l’amore sopravvive a ciò che non può più il corpo.
Forse uno dei momenti più alti del cinema di David Cronenberg e sicuramente tra i più strazianti visti durante questo Festival di Cannes. The Shrouds, presentato in Concorso e interpretato da Vincent Cassel e Diane Kruger, ricomincia da dove il cineasta americano sembrava aver firmato una dipartita, cioè dal cortometraggio di appena cinquantasei secondi The Death of David Cronenberg (2021). Lì, Cronenberg si avvicinava ansimando e quasi eccitato al proprio doppio, un corpo morto e violaceo deposto nello stesso letto dov’era morta sua moglie un anno prima. Il Cronenberg vivente cosparge il “proprio” volto di baci e gli si stende accanto trepidante, come se quel manichino di sé stesso conservasse tanto il ricordo quanto la fisicità del corpo della donna che aveva amato per tutta la vita.
Da qui è come se Cronenberg si risvegliasse da un incubo. Ora vediamo un corpo di donna in putrefazione spiato tramite un obiettivo a trecentosessanta gradi da un uomo che si risveglia urlando dal suo dentista. In The Shrouds, Vincent Cassel è Karsch, chiaro alter ego del regista con le sue membra scarnificate e i capelli argentei, e una delle più note personalità del mondo hi-tech per aver contribuito a ripensare il culto dei morti nella postmodernità. Nei cimiteri di Karsch è possibile, con un’applicazione collegata allo smartphone, osservare il cadavere della persona morta in putrefazione, in ogni momento, da ogni angolazione e prospettiva, penetrando in ogni angolo e cavità muscolare e ossea.
La tecnologia è uno strumento pensato non tanto per esorcizzare la morte quanto per immaginare con essa un continuum esistenziale, emotivo, intellettuale. L’etica da post-umana diventa quasi del tutto trans-umana, nel senso di una piena liberazione dal determinismo biologico.
Un desiderio necrofilo che, però, non si nutre della feticizzazione del corpo femminile cadaverizzato e torturato come in gran parte del cinema “estremo”. In Sextualities. Morfologie del corpo tra visione e narrazione, ad esempio, Mirko Lino notava che film come Buio Omega di Joe D’Amato (1979) o Snuff di Alan Shackleton (1976), che potrebbero riportarci a Cronenberg anche solo per l’estetica funerea, mettevano a nudo le disuguaglianze di genere iscritte nell’hard-core e nello slasher, rappresentando “un desiderio maschile organizzato proprio sulla distruzione biologica del corpo femminile”. Il protagonista di The Shrouds, invece, non intende possedere il corpo morto della moglie né esercitare su di esso delle strategie di controllo ossessivo post-morte: il suo desiderio è di annullarsi romanticamente in quel corpo, vivere accanto e dentro di esso.
Cassel/Cronenberg non si rassegnano alla perdita della moglie e la tecnologia è uno strumento pensato non tanto per esorcizzare la morte quanto per immaginare con essa un continuum esistenziale, emotivo, intellettuale. L’etica di Cronenberg da post-umana diventa quasi del tutto trans-umana, nel senso di una piena liberazione dal determinismo biologico, “evocando, con una certa nostalgia”, come scrive Mark O’Connel in Essere una Macchina, “un passato in cui un ottimismo radicale poteva darsi come un approccio ancora plausibile al futuro” in un mondo sul punto di scomparire. La forza alternativa del pensiero transumanista di Cronenberg sta proprio in questo: la sua non è la necessità egoistica d’immortalità degli imprenditori della Silicon Valley. Facendo convergere carne e tecnologia per estendersi, ancora una volta, verso il futuro, il regista riconosce la fine del corpo e della soggettività, costruendo attorno ad essa la fine la sua storia d’amore, che vive e s’infiamma alla vista del corpo della moglie in decomposizione, sia in vita, a causa del tumore alle ossa, che nella tomba.
Se le relazioni di genere sociali e culturali condizionano il modo in cui i film sono costruiti, producendo esperienze visivamente gratificanti basate sull’idea del desiderio maschile, The Substance intende fare un discorso non dissimile sulle dinamiche di oppressione mediatica del corpo femminile.
Il discorso sul corpo ibrido è stato senz’altro dominante nei film in Concorso di questa settantasettesima edizione del Festival di Cannes, come se una linea tematica si fosse messa in piedi da sé nelle modalità più svariate, anche non riuscite, come nel caso di The Substance di Coralie Fargeat. La sua opera prima, Revenge, rappresentava una sfida notevole rispetto ai codici di messinscena del Rape&Revenge, ridefinendo la performance del corpo femminile violato nello spazio scenico con modalità che guardavano ai capisaldi del genere a partire da una sensibilità molto personale. The Substance, invece, sembra aver abbandonato l’impostazione politica e quasi artigianale, autentica e pure imperfetta, del primo film della cineasta per adeguarsi alle esigenze produttive e narrative di un cinema che vuole smantellare i binarismi, di genere, cinematografici, sociali, ma alla fine ci resta imbrigliato. Una ex attrice e icona della televisione – interpretata programmaticamente da Demi Moore – scopre una misteriosa tecnologia che permette di sdoppiarsi e ringiovanire, dovendo però fare attenzione a rispettare gli equilibri imposti dal bioritmo chimico del dispositivo. In poco tempo la giovane Demi Moore finisce con il fagocitare il corpo sempre più tumefatto e consunto dell’ormai anziana ex attrice. L’insistenza ossessiva e morbosa è verso i caratteri di un corpo anziano e non abile, e per questo, secondo le logiche sia del mercato televisivo che di Fargeat, che intende proprio schernire quel mondo, impossibilitato a esporsi. Gli unici momenti in cui è dato spazio a questo corpo sono le battute finali in cui si assiste a una mescolanza asettica di rimandi a David Lynch o Brian De Palma e in generale a tutto un cinema di cui si svuota tutta la forza divellente, per l’urgenza di magnetizzare lo spettatore con i close-up, il sonoro urticante, i primissimi piani rivoltanti, tutti stratagemmi che hanno vita solo nel millesimo di secondo in cui appaiono sullo schermo.
Se, com’è noto dai primissimi passaggi della Feminist Film Theory, le relazioni di genere sociali e culturali condizionano il modo in cui i film sono costruiti, producendo esperienze visivamente gratificanti e piacevoli basate sull’idea del desiderio erotico maschile, The Substance intende fare un discorso “rivoluzionario” non dissimile sulle dinamiche di oppressione mediatica del corpo femminile ma, alla fine, proprio a partire dai linguaggi stessi che vuole demolire, fa il gioco dei suoi nemici.
Sia The Shrouds che The Substance sono, comunque, storie di corpi che intendono evolvere, o cambiare, quindi, alla stregua del corpo trans di Emilia Perez di Jacques Audiard. Sullo sfondo di un Messico dilaniato dai femminicidi e dai desaparecidos, il narcotrafficante Juan Del Monte ingaggia un’avvocata alle primissime armi per aiutarlo a realizzare il desiderio di tutta una vita: diventare donna. Emilia Perez è l’esatto contrario di The Shrouds: Cronenberg cerca di portare lo spettatore al limite, questa volta non con le pose plastiche delle immagini o con gli orrori della carne messi in primissimo piano, ma con l’eccessiva verbosità di conversazioni trascinate; per Jacques Audiard, invece, sono il dinamismo e il cambio costante di registro l’unica cifra di stile possibile per parlare di transizione di genere e di gender-affirming surgery, raccontando, con ironia malinconica in un film insolito nella sua filmografia, anche il trattamento chirurgico del percorso di affermazione di genere di Emilia Perez.
Se la natura umana occidentale è il prodotto di una serie di dispositivi sociali che riproducono nei corpi, nelle architetture e nei discorsi l’equazione natura=eterosessualità o bianchezza, definire la propria identità come trans permette di ri-affermarsi come soggetto.
Nel film di Jacques Audiard si gioca una lotta tra diversi contesti socioculturali ma soprattutto tra generi e identità. Nell’universo disallineato e poroso costruito dal cineasta francese, in cui si alternano musical, gangster movie e meló, ognuno cerca qualcosa ma prima di tutto sé stesso in quella parte divenuta con il tempo illeggibile e silenziata. Juan Del Monte vuole diventare Emilia e non intende soltanto cambiare i propri connotati fisici ma provare a immaginare un’alternativa esistenziale rispetto alla realtà tossica e perversa in cui probabilmente l’avevano incastrato fin da bambino. Se la natura umana occidentale è il prodotto di una serie di dispositivi sociali che riproducono nei corpi, nelle architetture e nei discorsi l’equazione natura=eterosessualità o bianchezza, definire la propria identità come trans e definirla in clima di sopraffazione sia di genere che di razza e classe, ha permesso a Emilia di riacquisire la propria dimensione creativa e di ri-affermarsi come soggetto.
Il cinema di Jacques Audiard è da sempre stato vicino alle questioni dell’alterità e della migrazione. Emilia Perez è il tentativo di costruire una narrazione e un pensiero ancora più politici e incisivi rispetto al passato, attenti non più solo a inquadrare la bianchezza con tutti i suoi presupposti di privilegio e superiorità, l’operazione sottesa, d’altra parte, a The Substance. Demi Moore è l’archetipo della donna cisgender e benestante vittima delle costrizioni di genere di un’industria televisiva iperrealistica tirannica. Coralie Fargeat non fornisce un antidoto né una via d’uscita da questo mondo ma tiene ferma la sua burattina e il body horror così come le iperboli visive del finale sono una manifestazione estrema dell’impossibilità di affrancarsi da questa condizione d’oppressione, se non con la sofferenza, il dolore, il patimento psicofisico e la necessità di trasmigrare in un altro corpo. Tutti meccanismi introiettati dal femminismo bianco e occidentale che Rachele Borghi descrive così in un articolo uscito su DinamoPress: “Il femminismo occidentale, bianco, quello che Françoise Vergès chiama civilizzazionale, non è riuscito a integrare la propria bianchezza come forma di oppressione. Ha allora creato una narrazione talmente irreale da assomigliare più a una favola che alla storia. La favola del femminismo civilizzazionale ha come protagonista la donna cisgenere, un soggetto omogeneo e unitario” prigioniera nel castello del patriarcato; con le sue stanze segrete e scalinate involute la casa di Demi Moore in The Substance assomiglia più a un castello che a un’abitazione, nei cui spazi la donna era stata rinchiusa e da cui provava a liberarsi con modalità non diverse da quelle che l’avevano fatta prigioniera.
L’approccio al racconto dei tumulti e delle modificazioni corporee di Coralie Fargeat risulta obsoleto e standardizzato se confrontato al punto di vista plurale e assolutamente decoloniale di Emilia Perez di Jacques Audiard. Decoloniale perché nel descrivere quanto le nostre realtà sociali siano modellate dalle esperienze e dai contesti in un sistema di potere diseguale basato sul genere e altri assi di oppressione, tenta di creare – soprattutto da un punto di vista visivo e stilistico: i generi cinematografici che si sovrappongono e uniscono di continuo – un ulteriore ambiente in cui far rinascere sia la storia che i personaggi, in un percorso di co-costituzione reciproca di codici e leggi, come se la transizione di genere di Emilia fosse davvero il preludio a un altro mondo. Per Emilia Perez, la gender-affirming surgery non è solo la prassi chirurgica attraverso cui realizzare fisicamente la propria identità dopo anni di silenzio; diventare donna e farlo in un corpo di cui riusciamo ad avvertire il dolore, le ferite e cicatrici brucianti significa mettere in atto un cambiamento che sia anche e soprattutto esistenziale. Emilia Perez definisce sé stessa a partire da una posizione enunciativa nuova e innocente e un’altra origine di sé con cui provare a immaginare (anche) configurazioni familiari inedite.