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awrence Osborne è uno degli autori più noti e interessanti della narrativa contemporanea. Il suo romanzo The Forgiven (2012), recentemente tradotto per i tipi di Adelphi con il titolo Nella polvere, contiene già i temi principali delle opere successive: il viaggio e il turismo oggi, le speranze dei migranti e l’alienazione degli espatriati occidentali, il denaro come promessa e maledizione, il cibo come simbolo di una prosperità che si tramuta in dissoluzione. Nei libri di Osborne rivestono un’importanza fondamentale i luoghi come campi di incontro e scontro tra mondi: il lettore è introdotto in terre lontane come la Macao della Ballata di un piccolo giocatore, la Cambogia di Cacciatori nel buio, il Marocco di Nella polvere, la Thailandia di Bangkok e dell’ultimo romanzo The Glass Kingdom (2020).
Nel 2018, mentre facevo ricerche per un romanzo, ho attraversato i luoghi delle storie di Osborne in Asia con l’intenzione di intervistarlo a Bangkok, la città dove vive. Alla fine non sono riuscito a incontrarlo (il risultato di questo fallimento è raccontato in un reportage pubblicato sul Tascabile). La pubblicazione italiana di Nella polvere è stata l’opportunità di realizzare, finalmente, quella conversazione.
C’è un passaggio di Nella polvere in cui il padre viene dai bianchi a prendersi il cadavere del figlio. L’intera scena mi ha colpito come qualcosa che poteva uscire da una tragedia greca. Tommaso Pincio in una recensione del libro ha osservato che sei un maestro “nell’orchestrare scontri di civiltà sempre sul punto di esplodere”. Al tempo stesso, nel libro non costruisci un netto contrasto tra l’immoralità dei ricchi occidentali e la solida visione tradizionale dei personaggi marocchini. Ci sono molte differenze tra i membri dei due gruppi. Inoltre, tutti i personaggi esitano, mentre a volte sembrano costretti ad agire (o non agire) da potenti impulsi. In generale, mi sembri più interessato alla complessità psicologica degli individui umani che agli ampi contrasti culturali.
Esattamente. Come scrittore europeo sono ovviamente più preoccupato dalle patologie della mia “razza”. È normale. È questo il mio tema, dopotutto: l’esplorazione della personalità occidentale, che ha il suo lato duro, fascista. Ma naturalmente ciascun essere umano a modo suo è, per così dire, un’avventura psicologica. Non c’è niente di intrinsecamente esotico in ciascuno di noi. Nessuno è più o meno morale, o più o meno barbaro. Che cos’è l’agire libero, per esempio, per un essere umano? Che cos’è la scelta? Cos’è il fato? Si tratta in effetti di domande greche, ma ci si riflette ovunque. Secondo me non si può evadere dalla condizione umana politicizzando tutto, e sì, esiste quel che si dice “condizione umana”. Come potrebbe essere altrimenti?
I romanzi moderni sull’altrove sono stati spesso accompagnati da una critica morale delle società europee, da Montesquieu a Voltaire, da Melville a Conrad. Nei tuoi romanzi non sembri mai interessato a giudizi morali e politici di tipo didascalico. Apparentemente non ci sono né critica, né moralismo. L’agire umano appare soggetto al caso e a potenze naturali e forse sovrannaturali. Ma c’è anche un’attitudine critica nel modo in cui descrivi i personaggi. Come vedi il tuo lavoro in questa prospettiva?
Direi che trovo le critiche sociali largamente prevedibili e prive d’interesse. Ovviamente, tutte le società sono difettose. Pensi che gli scrittori di fiction abbiano soluzioni per ripararle? Pensaci su. Se gli scrittori di fiction o gli intellettuali del mondo letterario avessero il potere tutto sarebbe drammaticamente peggiore di adesso. Gran parte degli Stati che hanno perpetrato genocidi nell’ultimo secolo sono stati costruiti da intellettuali. Ma a parte questo punto piuttosto ovvio, bisogna chiedersi che cosa renda avvincente la fiction. Moralizzare può essere avvincente, non si può negare. Ma non per me, non nel mio lavoro, se non sottilmente e nell’ombra. Stranamente, gran parte della fiction moderna mi colpisce per la mancanza di morale o – diciamo così – perché non è interessata abbastanza al problema del male. Non è questa infatti la questione fondamentale? Se vivessimo nella Germania nazista il problema apparirebbe diverso. Ma – a dispetto di quanto sostengono alcuni attivisti col gusto dell’iperbole – non ci viviamo; viviamo in una società benestante, pigra e frivola che si lamenta continuamente di quanto sia benestante, pigra e frivola. Si tratta di un problema singolare per un moralista!
Il turismo di massa è l’emblema di un bisogno di cercare mondi diversi e, allo stesso tempo, di una trasformazione di questo bisogno in un prodotto di massa. Ne Il turista nudo (2006) – che è insieme un racconto di viaggio e un saggio critico sul viaggiare – mescoli storie di esplorazioni antropologiche del passato con quelle del turista di oggi che vaga senza scopo, come se quest’ultimo fosse la caricatura del precedente. Nella prima pagina introduci con ironia la tua pulsione per il viaggio e la crisi di una precisa idea dell’andarsene:
Nel mio caso si è manifestata in modo repentino, come un disturbo mentale ignoto alla psichiatria. Che cosa? Ma la voglia di fermarsi, mollare tutto, e partire, cos’altro. Certo, quel bisogno di uscire dal mondo e raggiungere un altrove può essere interpretato in molti modi diversi, ad esempio come un sintomo pregeriatrico, un anticipo di senilità. Sta di fatto che da un giorno all’altro ti rassegni e cominci a riempire la valigia, manco avessi capito che, ti piaccia o no, è giunto il momento di rimettersi in marcia, di regredire alla fase nomadica. Già, fai le valigie, solo che non sai dove andare. È come se ti impennacchiassi per un ballo di gala, pur sapendo che è appena stato cancellato.
Avrò visitato qualche centinaio di siti web – portali per viaggi organizzati, brochure governative, semplici schermate piene di informazioni o di resoconti messi in rete da altri escursionisti. Ma il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare. Ormai l’intero pianeta è diventato un’installazione turistica, e ovunque tu vada resta in bocca il saporaccio del simulacro. Ho cercato in lungo e in largo, ma uscire dal mondo sembrava impossibile.
È una sensazione familiare, e diversi etnologi del Novecento, come Claude Lévi-Strauss e Michel Leiris, hanno già sottolineato come l’immagine affascinante dei paesi esotici (con la sua idea di rigenerazione morale e fisica) era un miraggio. E poi, come negare che l’industria del turismo ha seppellito la vecchia scappatoia del viaggiare e complicato l’atto di esplorare diversi modi di vivere? A volte hai sostenuto che il turismo di massa andrebbe in qualche modo limitato. Che ne pensi del turismo, oggi?
Credo che in qualche modo stia morendo, tutto qui. In Thailandia, è sparito a causa del Covid ma non sono sicuro che tornerà. Grazie a Dio! Tuttavia, è stato un disastro per milioni di persone che ci hanno guadagnato da vivere in passato. Al tempo stesso il degrado ambientale prodotto da certe specie di turismo è spaventoso. Forse viaggiare diventerà di nuovo costoso, e forse non è un male. Se costasse di più lo si prenderebbe più sul serio. In questo senso, è un po’ come il cibo. Ma appena si dicono certe cose si viene accusati di essere elitari. Ed eccoci qua.
Anche se l’immagine romantica del viaggio è passata, il bisogno di rompere e andarsene c’è ancora: ai personaggi del tuo libro succedono cose interessanti soltanto quando tagliano la corda, anche se la destinazione – come scrivi nel Turista nudo – è un “mondo irreale”. “Il mondo com’è oggi” – come chiami la società urbana europea e americana – ha davvero perso interesse dal punto di vista narrativo?
Per me sì. Non vedo nessuna attrattiva nel vivere, diciamo, a New York o a Parigi. A meno che tu non gestisca un fondo speculativo o abbia milioni di eredità. Ma anche in quel caso è tutta una recita. Una volta che il lato romantico è stato decostruito – come dici tu – non c’è più niente che ispiri la tenacia che ci vuole per sopportare la vita miserabile che si fa in questi posti. È notevole che qualche decennio fa anche i poveri immigrati nutrissero aspettative romantiche per posti come New York. Era un mito potente, che si distrugge a proprio rischio e pericolo. Oggi è quasi del tutto sparito. Le città si fondano su miti come questi, e probabilmente anche i Paesi. Ma dobbiamo decostruirli per sentirci morali, così alla fine abbiamo creato dei posti senza anima e bellezza. Ben fatto!
Nell’Estate dei fantasmi, una ricca ragazza vuole aiutare un rifugiato che trova su un’isola greca, approdato là come un novello Ulisse. C’è un legame tra i due, ma la disuguaglianza economica conduce a conseguenze tragiche. Il denaro, nei tuoi romanzi, sembra accompagnato da una maledizione o da un cattivo karma. Non funziona mai come mezzo per risolvere le controversie e avvicinare le persone. Al contrario, appena i personaggi hanno fortuna e s’impadroniscono di grandi somme di denaro – come in Cacciatori nel buio (un capitolo è intitolato proprio “Karma”) e nella Ballata di un piccolo giocatore – sembrano fatalmente condannati. Mi viene in mente un film, L’Argent di Robert Bresson, che a sua volta era ispirato dalla novella di Tolstoj Denaro falso.
Beh, a dire il vero Bresson è stata la mia principale fonte di ispirazione per questi libri, per quell’idea che il denaro abbia una forza sovrannaturale che opera al di fuori delle intenzioni umane. L’Argent ne è una magistrale rappresentazione. In effetti il denaro è un po’ come il Fato. Senz’altro è così che i Cinesi sembrano pensarla, che è il motivo per cui ho voluto scrivere dei casinò di Macao. Il denaro è una forza misteriosa. Ma diciamo pure che non averlo è di solito peggio che averlo!
Uno degli elementi più vistosi e unici dei tuoi romanzi è il cibo. Il cibo abbonda in sontuose descrizioni di pasti e sterminate abbuffate. In uno dei miei passaggi preferiti della Ballata di un piccolo giocatore il protagonista Doyle, dopo una notte insonne, senza più soldi e con la tentazione di un’ultima puntata al gioco, ordina una colazione infinita in un costoso ristorante di Hong Kong. Qui, come mi capita spesso con le tue descrizioni di pasti, ho una sensazione di tensione che monta, a tratti di sfrenata esagerazione, per cui il piacere finisce col diventare funebre. Come vedi questo elemento del tuo lavoro?
Penso che ci sia un lato orribile e irresistibilmente nichilistico nell’ossessione per il cibo. Ho conosciuto diversi famosi critici culinari a suo tempo e – con l’eccezione di Bruce Palling a Londra – si tratta spesso di figure uscite da un incubo di Goya. Io stesso sono diventato più austero e semplice nella mia relazione col cibo. Mi disgusta il sadismo verso gli animali che ci viene ordinariamente sbattuto in faccia come qualcosa di avventuroso e fico. I ristoranti stellati mi esasperano. Bisogna chiedersi che cosa succede veramente in quei posti. Poi certo non c’è sensazione più deliziosa che interrompere la fame – dev’essere una delle emozioni umane più elementari, perfino più del sesso e dell’aggressività. Del resto è quel che facciamo tutti i giorni, che ci piaccia o no. Si potrebbe scrivere un libro intero sulla sensualità del pomodoro.
Denaro, cibo e karma si possono collegare a un altro tuo tema: il buddhismo. Vivi in un moderno Paese buddhista e ti sei occupato di buddhismo tibetano in Shangri-la. In questo racconto di viaggio (pubblicato in Italia come un libro nel 2008) osservi che il buddhismo è stato frainteso come una religione della pace e della serenità e che, quando non sia temperato dalla prosperità, per esempio in Tibet, si rivela “disperato e tragico”. D’altra parte, nella Ballata di un piccolo giocatore, l’assistenza di una donna buddista, Dao-Ming, si presenta come una sorta di salvezza per Doyle, turbato e sull’orlo del suicidio, e per un certo tempo riesce a fermare la sua incapacità di controllare la compulsione per il gioco. Puoi dirci del tuo interesse per il buddhismo?
Sono piuttosto ignorante in materia di buddhismo in generale, ma come dici sono attratto dai luoghi buddhisti, dalla loro arte e dalla loro immaginazione. Vado in Mongolia ogni anno e una volta visitavo compulsivamente il Tibet. Ho tenuto qualche lezione sull’arte himalayana al Rubin Museum di New York, dove ho incontrato l’artista tailandese Jakkai Suributr. Mi attraggono molto luoghi come il Ladakh, come la città di Leh, o le aree tibetane della Cina come il Kham, il Sezuan e lo Yunnan. E ho a cuore il Giappone. In tutti questi posti trovo l’espressione di un’attitudine alla sofferenza. È molto simile a quel che ci trasmettono l’arte Bizantina e l’arte cristiana in Europa. L’arte dei templi del Tibet, per esempio, fa venire in mente Giotto e Cimabue. Almeno a me. Si accorda con la mia visione del mondo, credo, o col mio modo di sentire. Non si tratta di un processo razionale, perciò non è facile esprimerlo adeguatamente. Ma diciamo che nel buddismo c’è un riconoscimento della realtà, della vita umana così com’è effettivamente. Il grande regista giapponese Ozu è seppellito a Kamakura e sulla sua tomba c’è una perfetta espressione di questa visione. C’è scritto un solo carattere: mu. “Nulla”.
Oltre che far da sfondo ai racconti di Bangkok, la capitale tailandese fa da sfondo al tuo romanzo The Glass Kingdom. Perché hai deciso di vivere a Bangkok? Dici di aver deciso di trasferirti là per una serie di circostanze, a cominciare da un’operazione odontoiatrica. Credo ci siano molte ragioni per scegliere una città come luogo per vivere e guardare al mondo presente. Quando ho visitato Bangkok stavo leggendo il tuo libro ed ero molto in sintonia col modo in cui descrivi il calore della città con la sua miscela di kitsch e miseria, dolore e compassione, piacere e robaccia in vendita, dove la folla può dare uno strano senso di appartenenza a visitatori solitari.
È per molti versi una gran città, per altri versi frustrante e esasperante. Per me è una buona piattaforma, diciamo. È una città comoda per uno scrittore, gli appartamenti sono spaziosi e non troppo costosi. È un crocevia di gente che viene e va continuamente. Ho un bel giro di amici. Il cibo è spettacolare (vedi la mia risposta di prima!). Sono considerazioni prosaiche, lo so, ma non m’interessa vivere in modo pittoresco. A Bangkok la vita ti vortica intorno e al tempo stesso ti lascia solo. Non c’è politica identitaria occidentale, non c’è quel rumore bianco d’idiozie proveniente dalla nostra cultura. Con l’eccezione del pop, che è ovunque. Sono arrivato qui con bronchite ed enfisema cronici, e il clima mi ha guarito i polmoni, cosa non da poco. Quando chiesero ad Arthur C. Clarke perché avesse deciso di trasferirsi su una spiaggia in Sri Lanka, rispondeva giustamente: per come la vedo io, mi sono risparmiato quaranta inverni inglesi.
I tuoi romanzi sono stati collegati a diversi modelli, di genere e non. Scrivi anche racconti, narrazioni di viaggio e sceneggiature. Quali sono i vantaggi della forma romanzo? Lo vedi come un genere vitale oggi?
Non direi, penso che stia evidentemente morendo. Non vedo quanto a lungo l’editoria possa andare avanti così com’è. Tuttavia, detto questo, il romanzo è narrazione, e quella non morirà mai perché se lo facesse impazziremmo di noia. Perciò la speranza per il romanzo è la sua interazione con tutti gli altri modi di raccontare storie. Ed è un’interazione naturale: i film e alcune serie TV sono intrinsecamente romanzeschi per certi aspetti, e viceversa. Il viceversa m’interessa molto. Sono stato influenzato tanto dai film quanto dalla letteratura, forse di più.
Il tuo prossimo romanzo On Java Road, in uscita nel 2022, è ambientato a Hong Kong. Hong Kong è un luogo cruciale per l’incontro tra le civiltà europea e cinese, è un luogo a cui sono affezionato, e sono stato turbato e disorientato dagli eventi degli ultimi due anni. Quanto è importante Hong Kong per il nuovo libro?
Enormemente. Non è disorientante quel che sta succedendo là perché non si tratta più di incontro tra Europa e Cina, ma tra democrazia e totalitarismo. Si tratta della Cina di Xi Jinping con i suoi rapidi mutamenti, che è poco apprezzata in Occidente. La faglia tra i due blocchi attraversa Hong Kong. Ma la città è ormai essenzialmente finita. Decine di migliaia di persone se ne stanno andando. La vera storia di quello che è successo a Hong Kong non è ancora stata raccontata ed è molto più cupa di quanto si pensi. L’“incontro” comunque è finito, e nel frattempo credo che la Cina stessa stia entrando in un periodo di crisi che si svolgerà in modi imprevedibili.
Dopo questo libro, invece, sto cercando di mettere insieme una serie TV basata sul memoir di guerra del corrispondente Jon Swain, “River of Time”, sulle sue esperienze durante la guerra d’Indocina dal 1970 al 1975. Si svolgerà principalmente a Phnom Penh e Saigon durante quegli anni. Swain è un mio amico e mi ha ceduto i diritti, perciò vorrei sia produrre, sia scrivere la serie. Che Buddha mi aiuti.