C i hanno abituati (molto male) a fuorvianti distinzioni tra scienze e lettere, quasi che il sapere non fosse, come invece è, un continuum continuo. Ecco cosa scrisse Italo Svevo per tentare, a mio avviso, di abbattere simili steccati posticci: “la teoria della relatività per il momento non può essere intesa che da chi sa navigare attraverso le formule della matematica più alta. L’artista, voglio dire l’artista letterato e l’illetterato, dopo qualche vano tentativo di avvicinarlesi, la mette in un cantuccio da dove essa lo turba e lo inquieta, un nuovo fondamento di scetticismo, una parte misteriosa del mondo, senza della quale non si può più pensare”. E aggiungeva:
È là, non dimenticata ma velata e ad ogni istante accarezzata attraverso la biologia, va da Einstein e gli dice: Io ho trovato il modo di spiegare al volgo la relatività senza imporgli lo studio della matematica. E, incoraggiato dall’Einstein, dice la sua idea: Ammettendo che si possa costruire un uomo il cui cuore pulsi anziché 72 volte al minuto, solo una volta ogni dieci minuti, è certo che quest’uomo tanto lento vedrà passare il sole da un orizzonte all’altro con la rapidità di un fuoco d’artificio. L’Einstein dice: L’idea è bellissima, ma non ha niente a che fare con la mia relatività. Intanto l’ha trovata bella e questo è già qualcosa. Io che non conosco la matematica e perciò la vera relatività, non sono sicuro che non ci sia in quell’idea più relatività di quanto l’Einstein non supponga. Il destino vuole che l’artista venga ispirato dal filosofo ch’egli non perfettamente intende, e che il filosofo non intenda lo stesso artista ch’egli ispirò.
Questo strano sogno o visione è importante perché ci parla della naturale metempsicosi dei saperi. E anche perché ci dice che una teoria, quando si muove dal suo recinto, può divenire qualcosa d’altro, persino di irriconoscibile al suo autore. Ma ciò non vuol dire che non possa comunque funzionare in questa sua nuova forma reincarnata. Seguendo tale ragionamento, la relatività ha condotto senza troppe distorsioni, o meglio, con felici curvature, alla consapevolezza di essere esseri relativi, e anche al relativismo.
Mi trovo in questi mesi a tentare di applicare alcuni concetti propri della teoria dei quanti alla ricezione dei testi letterari, partendo dal presupposto che la meccanica quantistica è anche, se non soprattutto, una teoria che riguarda i modi in cui le cose si influenzano a vicenda. Nella quantistica ha particolare importanza l’interazione: solo quando gli oggetti interagiscono se ne vedono le proprietà, che non sono da considerarsi, per così dire, intrinseche alle cose, ma appunto relative, relazionali. Emergono dal loro modo di interagire.
Partendo da questi due concetti, e provando ad applicarli alla lettura e all’interpretazione, possiamo senza troppa difficoltà constatare come un testo, qualunque esso sia, funzioni, ovvero, si accenda, solo nella sua interazione con il lettore, e a prescindere dalle intuizioni del suo creatore, dalla sua volontà, e persino dalle condizioni di partenza. Funziona perché interagisce, se c’è interazione. Se non interagisce non esiste, e possiamo dire che non ha proprietà. Le sue proprietà si manifestano, sempre in questa cornice relazionale, soltanto durante l’interazione.
Il che non significa non dare importanza ai fattori che invece sono relativi alla produzione dei testi, alla loro genesi, alla loro storia, ai vari contesti, e così via. Conoscere tutte queste cose è importante quanto conoscere la tavola periodica degli elementi per la chimica, o anche le condizioni in cui un esperimento nasce e viene condotto, e persino i fondamentali, se si vuole diventare calciatori perlomeno affidabili. Eppure, anche senza quelle conoscenze, il libro diviene quel che è solo nel momento dell’interazione con la testa, solo quando ha un effetto, le reazioni chimiche esistono, e un genio del calcio rimane inspiegato e inspiegabile, ma sa comunque farci piangere di gioia. Sono effetti, e questi effetti può essere indipendente dal sapere pregresso. Vivono quando le cose interagiscono tra di loro, e con noi.
Quando una teoria si muove dal suo recinto, può divenire qualcosa d’altro, persino di irriconoscibile al suo autore.
Un libro è una bara che contiene un morto vivente. Se aperta, il suo ospite potrà tornare a vagare, a solcare il palcoscenico del mondo. Tornerà a essere quel che era, perché le condizioni glielo consentono. L’effetto, indipendente da fattori precedenti, che hanno innegabilmente i libri quando letti, per alcuni può non essere importante, ma io credo che valga la pena indagarlo. Non per spiegare le presunte proprietà – com’è stato fatto abbondantemente – dei testi fruiti, ma per vedere come essi funzionino, cosa producano quando vengono messi al reagente di contesti di ricezione “strani”, estranei e lontani da quelli di produzione o dalla loro consapevolezza.
La critica letteraria, la filologia, l’analisi archeologica delle fonti e dei contesti di origine, partono tutte dal presupposto che per capirli, i testi, bisogna conoscerne la genesi, la storia, le condizioni in cui hanno preso forma, avere nozioni circa l’autore, la sua filosofia, i suoi obiettivi e così via. Tutto vero e validissimo. Se voglio interpretare criticamente Dante, ovvero interpretarlo con coscienza critica, non posso prescindere da un approfondimento della sua visione religiosa e politica, ad esempio. Detto ciò, la domanda che io mi pongo è la seguente: posso leggere Dante e, per così dire, farne qualcosa, anche prescindendo da quelle conoscenze pregresse?
Fermiamoci sul modale “posso”. Poter far qualcosa significa esser capaci di farla, possedere l’abilità per farla, ma anche averne la possibilità, ovvero, materialmente poterla fare. Come in queste frasi interrogative: “posso diventare vegetariano di punto in bianco?” oppure, “posso penetrare la storia contemporanea anche se sono esclusivamente uno storico dei babilonesi?” La risposta a entrambe le domande è: sì, posso, perché ne ho la possibilità. Magari non ne ho la capacità o l’abilità: ma posso perché ne ho la possibilità. Allora, può una persona che non sa nulla di Dante, della Firenze a cavallo del Trecento, dei Guelfi e dei Ghibellini, e così via, leggere la Divina Commedia e farne comunque qualcosa? La risposta è: sì, perché ne ha la possibilità (se ce l’ha): ovvero, se in qualche modo viene esposto a questa interazione tra testa e testo.
La domanda successiva è: “a me interessa che cosa può farne, della Commedia, qualcuno che non sa niente di Dante, di Firenze etc…?” Qui la risposta può naturalmente essere “no, non mi interessa, perché l’unico modo per capire la Commedia è partire da una conoscenza delle fonti, dell’autore, della sua storia, del suo credo, e via dicendo”, oppure “sì, mi interessa, perché la letteratura serve a qualcosa, e questo qualcosa non è soltanto ampliare la nostra conoscenza dell’oggetto a cui veniamo esposti, ma quella, in generale, del mondo in cui viviamo”. Non solo, quindi, imparare il passato, ma anche, e direi soprattutto, provare a predire, a calcolare i possibili futuri.
La storia dimostra che l’interpretazione quantistica dei testi letterari non solo può funzionare, ma ha anche la capacità di avere un valore performativo, nel senso che può rendere la letteratura viva.
Da tempo oramai cito spesso questa storia che mi è capitata. Ho visitato di recente l’Etiopia per tenere delle lezioni – io non dantista, come ben si evince – proprio su Dante. Mi fu consigliato, da chi ne sapeva di più, di iniziare le mie lezioni dalle basi, dai fondamentali, perché gli studenti potevano non saperne molto di Dante, di Firenze, degli attriti fra fazioni etc… Il consiglio, che avrebbe dovuto tranquillizzarmi, mi ha lasciato invece un senso di vuoto, di inutilità. “Tutte queste cose possono essere recuperate da Wikipedia, e in Etiopia c’è internet”, mi sono detto, quindi perché chiedere a me di fare un viaggio tanto lungo per poi doverle soltanto riassumere?
Mi sono reso conto di aver bisogno d’un modo per rendere Dante rilevante per un pubblico che poteva non conoscerne l’importanza (ma quanti la conoscono, anche da noi?). Poi, nel percorso dall’hotel alla sala dove avrei dovuto tenere la prima conferenza, ho avuto una triste illuminazione. Sono rimasto scioccato da una scena vista tante volte a distanza, nei film ad esempio, ma mai di persona. Una scena con cui non avevo mai interagito in maniera diretta, diciamo. Ho visto per strada tanti bambini piccolissimi senza scarpe e vestiti di stracci, che annusavano la colla da bottiglie di plastica tagliate a metà. Mi è stato detto che lo facevano per non sentire i morsi della fame, e i loro occhi erano spenti e di vetro.
Ho pensato, allora, che se c’era qualcosa di cruciale da dire su Dante, e di cui qualcuno nell’audience potesse magari farne qualcosa, questo era il fatto che una delle condizioni originarie di un testo capace di parlarci attraverso i secoli come la Commedia, si sarebbe data quando il suo autore era anche lui un ragazzino, allorché avrebbe incontrato Beatrice a nove anni. Grazie a questa “interazione”, vera o presunta che sia, sarebbe nato quel cammino di visione verso il Paradiso. E allora, perché non leggerla, la Commedia, anche come monito rivolto a chi abbia in mano le sorti dei più piccoli, affinché possa davvero prendersene cura? In questo caso, si vede bene che il sapere pregresso serve, ma solo a scatenare un’interazione slegata da una comprensione del passato, e tutta proiettata a cambiare il futuro.
La storia dimostra che l’interpretazione quantistica dei testi letterari non solo può funzionare, ma ha anche la capacità di avere un valore performativo, nel senso che può rendere la letteratura viva: può farla rivivere, rivivere tra di noi, e può anche indicarci il futuro a partire da un passato oscuro.
Tornando, allora, alla domanda di cui sopra, io di questa possibilità mi voglio interessare, poiché la ritengo essenziale. E per di più, non la vedo affatto in contrasto con gli approcci filologici, archeologici etc…, che ripeto sono utilissimi, e anzi, possono complementare e corroborare l’interpretazione quantistica. Possono renderla più complessa, e quindi portarci alla comprensione profonda di quelle che io chiamo, da qualche tempo, “onde interpretazionali”: un fluire caotico ma ordinato di interpretazioni possibili, scatenate non solo dalle condizioni di origine di un testo (autore, intenzioni, storia, contesti, etc…) ma dall’interazione con i fruitori in vari archi temporali, con i loro orizzonti di attesa, con la capacità, insomma, di entrare in un testo con la loro testa, e farlo proprio per poi rilasciarlo affinché altri ancora possano appropriarsene.
La memoria è una sorta di scrittura interna, e in questa luce, oscuramente, siamo tutti scrittori silenziosi.
Ho detto che queste “onde interpretazionali” si muovono nel tempo, ma per esser precisi si muovono contemporaneamente anche nello spazio, come dimostra l’esempio di Dante in Etiopia. La condizione che le ospita, e che da loro viene attraversata, sarei tentato di chiamarla spazio-tempo scomodando ancora Einstein, ma forse in questo caso il parallelo sarebbe fuorviante. Io credo che possiamo ricorrere, invece, a qualcosa di più facilmente intuibile e noto a tutti, ma spesso assai sfuggente: il silenzio.
Le onde interpretazionali si muovono nel silenzio perché è lì che avviene il passaggio da testo a testa: nella riflessione, a volte nel sogno, nel pensiero sicuramente. Il silenzio non è un luogo, non è uno spazio, non è un tempo: è tutte queste cose messe insieme. E in aggiunta, è la condizione più importante della nostra vita, quella in cui passiamo la maggior parte della nostra esistenza. Sommiamo sonno e sogno, riflessione e pensiero, attese, esitazioni e via dicendo, e avremo gran parte delle nostre giornate. Inoltre, è nel silenzio che funziona la mente.
Vorrei allora brevemente sondare questa seconda funzione (dopo aver già parlato della prima, la “simultaneità”), chiedendo aiuto a uno dei più grandi, forse il più grande mago della parola di sempre, i cui testi, attraverso onde interpretazionali che battono il tempo in tutti i sensi, arrivano fino a noi, e c’è da credere che ci supereranno: William Shakespeare.
Se c’è infatti una parola che unisce segretamente quasi tutti i drammi di Shakespeare (la ritroviamo in quasi tre quarti dei plays e persino nelle poesie) questa è “silenzio”. Con quella si chiude la vita di Amleto, e la ritroviamo in moltissimi luoghi e in tante forme. In Otello Iago dopo il misfatto si rifugia sinistramente nel silenzio. In Misura per misura il silenzio è in compagnia di due lemmi chiave per Shakespeare, time e shadow, tempo e ombra, in una strana battuta di Vincenzo. Nel Racconto d’Inverno incontriamo il silenzio della “pura innocenza”. Nel Riccardo III il Duca di Buckingham si chiede quale “significato” abbia un certo “ostinato silenzio”. In Cimbelino il silenzio rischia di divenire, nell’atto terzo, “una condanna a morte”; ma poi, nel quinto, leggiamo di una fantomatica capacità di parlare “in silenzio”. Potremmo andare avanti per molto, anche aggiungendo alla disquisizione gli usi aggettivali. Nell’Antonio e Cleopatra a dover essere silent è nientemeno che la verità. In Re Lear la buona Cordelia si auto-raccomanda di amare e di “restare in silenzio”, e così via.
Questa capacità camaleontica del silenzio è forse collegata al fatto che, se parliamo o se scriviamo, altro non facciamo se non citare, citare sempre, citare inesorabilmente. Citare i vivi e i morti. Anche senza parlare, senza scrivere, li citiamo di continuo. Alla fine dei nostri giorni sarà il silenzio a condurci al riposo, e quel silenzio è la parola non detta più detta di sempre. E se “il resto è silenzio” come dice Amleto, questo accade, forse, perché ogni giorno viviamo un giorno in meno. Ma il silenzio non appartiene soltanto alla morte. Vive con noi quando dormiamo, ad esempio. E dormire è quasi come morire, insegna di nuovo Amleto; ma, aggiunge, nel silenzio della morte, i sogni, con la loro assenza, ci daranno pace.
Come alchimisti, gli scrittori utilizzano in origine nel silenzio le loro materie prime (le intuizioni, i pensieri, i ricordi, e così via) per creare nuova materia, perfetta o imperfetta che sia.
Dormiamo, sogniamo: sogniamo sogni che ci consentono di vedere al buio, come anche di parlare silenziosi. Di reagire, insomma, a stimoli che non sono esterni. Viviamo vite di morte nella notte, e nel giorno talvolta ci silenziamo per inazione. Quando, invece, siamo “in azione”, riusciamo solo a reprimere quel nostro prezioso esser muti: muti di fronte all’ombra e al tempo.
La memoria è una sorta di scrittura interna, e in questa luce, oscuramente, siamo tutti scrittori silenziosi. Lo è anche chi non ha lo straccio di una penna in mano. Celiamo sempre, non riveliamo mai, neanche quando crediamo d’esser sinceri. E se le nostre storie poi le riveliamo, in realtà – l’ho detto spesso – noi le ri-veliamo, ossia le dotiamo di nuovi veli per nuovi occhi. Ogni storia, ogni opera d’arte non è che la reincarnazione in forma differente di una narrazione passata, ed è per questo, probabilmente, che davvero non sappiamo non riprodurre forme sempre ri-velate di quel che un tempo fu prodotto da altre menti prima di divenire nostro.
Sono tutti ponti in disappunto, certo; sono cavalcavia solcati da significati in forma di segni e simboli, superfici e profondità, che poi sta a noi, a nostro rischio e pericolo, attraversare o non esplorare. Qualunque comunicazione è al contempo, nei suoi aspetti più intimi, un tunnel oscuro fatto di silenzio primordiale, ideato per farci raggiungere l’altro lato, l’altra sponda; ma il suo senso, e il suo assenso, risiedono nella direzione indicata, non nell’obiettivo da raggiungere. In realtà, il traguardo davanti a noi non è che la mutevole mente altrui, uno spazio che non possiamo definire, e men che meno controllare.
Come alchimisti, gli scrittori utilizzano in origine nel silenzio le loro materie prime (le intuizioni, i pensieri, i ricordi, e così via) per creare nuova materia, perfetta o imperfetta che sia. Lo fanno sempre a partire da quel silenzio attraverso cui, ad esempio, il conte Dracula parla con la sua amata vittima, Nina Harker (e non dimentichiamoci che to hark in inglese significa “ascoltare”). È un silenzio che le parole sanno solo intaccare, perché il loro senso tornerà a vivere, a comunicazione avvenuta, nella stessa dimensione originaria, solo all’apparenza statica: nel grande mare increspato del silenzio. Parlare in silenzio non significa, infatti, non comunicare. Tutt’altro. È forse una comunicazione ancor più perfezionata, impalpabile, inviolata. Pura, ma violabile, corruttibile. E se il silenzio non è che il veleno del linguaggio, come ricorda Edgar Lee Masters nel suo idiosincratico libro dei morti, non c’è da sperare che non se ne venga prima o poi infettati. Le quarantene non ci aiuteranno.
Il silenzio dirà la verità soltanto se gli consentiremo di legarsi al sogno – e aveva ragione Blake nel ricordarci che nulla esiste che prima non sia stato sognato. Così, se il silenzio è al contempo il virus e il suo stesso vaccino, gli scrittori, citatori seriali, scavano nella memoria del passato per rinvenirne, come revenant, entità di non-morte: perché il pensiero non solo non può esser confinato, ma neanche può morire. Può soltanto attendere il risveglio, per poi inverarsi, liberarsi e involarsi.