Parla, Musa, tu dell’eroe scaltro a me:
L’uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa
Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme
Era un grand’uomo, straordinario giramondo
Musa, quell’uom di multiforme ingegno
Queste sono alcune traduzioni dell’inizio dell’Odissea. Ce ne sono molte altre. Collettivamente, indicano con una certa chiarezza il contenuto dell’originale di Omero, come un sistema di satelliti, collettivamente, indica la posizione del pianeta oscuro attorno a cui orbitano: il “narrare”, la “musa”, e un uomo “multiforme”, “scaltro”, “straordinario”.
Ma ciò che queste traduzioni hanno in comune non è solo il contenuto: c’è anche una forma specifica di stranezza, una punta di goffaggine. Nessuno scrittore di oggi, o del passato, aprirebbe la propria opera definendo il protagonista come un uomo “dal multiforme ingegno”. Non è un’espressione accattivante. L’immagine che evoca non è molto precisa – o meglio, sembra l’approssimazione di qualcosa che è ben preciso nella mente di chi scrive eppure, sulla pagina, risulta vago ed impreciso.
Nel 2017 Emily Wilson – studiosa di letteratura greca – ha pubblicato per Norton una nuova traduzione in inglese dell’Odissea. Ecco l’inizio (che lascio in inglese: metto in parallelo una traduzione mia – una ritraduzione, in ogni aspetto inferiore sia all’originale che a quella di Wilson, tesa solo a offrire a chi non sa l’inglese un pallido riflesso del lavoro di Wilson):
Tell me about a complicated man, “Parlami di un uomo complicato”.
Omero non aveva mai parlato così. Ecco come va avanti:
Muse, tell me how he wandered and was lost
when he had wrecked the holy town of Troy,
and where he went, and who he met, the pain
he suffered in the storms at sea, and how
he worked to save his life and bring his men
back home. He failed to keep them safe; poor fools,
they ate the Sun God’s cattle, and the god
kept them from home. Now goddess, child of Zeus,
tell the old story for our modern times.
Find the beginning.
All the other Greeks
who had survived the brutal sack of Troy
sailed safely home to their own wives—except
this man alone. Calypso, a great goddess,
had trapped him in her cave; she wanted him
to be her husband. When the year rolled round
in which the gods decreed he should go home
to Ithaca, his troubles still went on. |
Musa, dimmi come vagò e si perse
dopo aver arso la città di Troia,
e dove andò, e chi incontrò, e il dolore
che sopportò per mare, e dimmi come
riuscì a salvarsi e a ritornare infine
a casa. Ma non protesse i suoi; sciocchi,
mangiarono le vacche del dio Sole, e il dio
non li fece tornare. Dea, figlia di Zeus,
dì questa storia antica a noi moderni.
Trova l’inizio.
Tutti gli altri greci,
scampati all’atroce sacco di Troia
erano già a casa dalle mogli, sani:
tutti meno lui. La dea Calipso
lo aveva in trappola in una caverna,
sperava di sposarlo. E così l’anno
in cui gli dei avevano deciso che tornasse
a Itaca, passò, e lui era ancora lì. |
In seguito all’uscita di questa versione dell’Odissea, si è discusso molto della strabiliante precisione del primo verso: che riesce a sottolineare l’eccezionalità di Odisseo pur alludendo a un lato più oscuro che la nozione moderna di “eroe” tende a mascherare; che trova un’analogia immediata per un concetto come “multiforme ingegno”, che un lettore contemporaneo non può non trovare opaco, benché in origine non fosse certo così. Il fatto che Emily Wilson sia stata la prima donna a tradurre in inglese l’Odissea (non così in Italia, dove la versione canonica è di Rosa Calzecchi Onesti) ha offerto una lente attraverso cui analizzare la sua resa di Penelope, che appare molto più consapevole e forte che in altre versioni.
Eppure, l’interesse suscitato da questi aspetti aneddotici, immediatamente evidenti, rischia di offuscare il significato più profondo dell’opera di Wilson. L’aspetto più stupefacente della sua traduzione è quanto risulta agile e godibile alla lettura. Ci si immagina senza fatica di ascoltarla recitata durante un banchetto. Parla di un mondo strano e lontano, ma ne parla a noi. Usa una lingua aliena e familiare, per descrivere un mondo al contempo misterioso e immediatamente simile al nostro. Non nasconde il fatto di essere una traduzione, ma non lo usa neanche per nascondersi. Non tratta la distanza dall’originale come qualcosa da superare o da sopportare come male necessario, ma come qualcosa da sposare.
In una Nota del traduttore acutissima e a tratti commovente, Wilson definisce il suo approccio come un rifiuto della metafora della fedeltà, che – sottolinea – è una metafora di genere. Il lavoro del traduttore non è parlare al posto di un originale assente, cercando (invano) di ricalcare la sua voce attraverso il tempo e lo spazio. Il lavoro del traduttore è creare uno spazio (una voce, un ritmo, una lingua) in cui l’originale possa parlare per sé, in uno di molti modi possibili.
Questa metafora risulta particolarmente adatta all’Odissea, “un poema” – scrive Wilson al termine della Nota, “che si interessa innanzitutto ai doveri e ai rischi che accetta chi accoglie uno sconosciuto in casa propria. Spero che la mia traduzione permetta ai lettori contemporanei di accogliere questo poema straniero, con tutto il calore, la curiosità, l’apertura e la sospettosità del caso. C’è uno straniero alla porta. È vecchio, sudicio, vestito di stracci. È stanco. Vaga da molto tempo senza una casa, forse da anni. Invitalo a entrare. Non sai come si chiama. Potrebbe essere un ladro. Potrebbe essere un assassino. Potrebbe essere un dio. Potrebbe ricordarti tuo marito, tuo padre, te stessa. Non fare domande. Aspetta. Lascia che si sieda comodo, che si scaldi al tuo fuoco. Offrigli il cibo migliore che hai e un bicchiere di vino. Lascia che mangi e beva a sazietà. Sii paziente. Quando ha finito, ti racconterà la sua storia. Ascolta con attenzione. Forse non è come te la aspetti”.
La sola idea di mettersi a tradurre l’Odissea ha qualcosa di terrificante.
È un lavoro colossale, ed è già stato fatto così tante volte. Mi sono dovuta chiedere se valesse la pena di rifarlo: se la mia traduzione sarebbe riuscita a essere abbastanza diversa senza risultare idiosincratica, diversa in un modo più vero. Non sono certa di esserci riuscita [ride] ma mentre ci lavoravo non ero terrorizzata, perché ogni verso poneva sfide talmente difficili e interessanti da non lasciarmi spazio per pensare, be’, al terrore.
Come è nato il progetto? Quanto ci hai messo?
Ci ho lavorato per cinque anni. Il progetto è nato lavorando alle Norton Anthologies of World Literature and Western Literature. Uno degli editor, Pete Simon, stava cercando una nuova traduzione dell’Odissea, e l’ha chiesta a me. Sulle prime ho esitato, perché volevo assicurarmi di essere in grado di fare qualcosa di valido.
Così mi sono messa a rileggere alcuni brani delle traduzioni inglesi più diffuse, per capire cosa c’era in giro e decidere se ci fosse realmente bisogno di un’altra traduzione. Volevo capire se ci fosse spazio per un lavoro sincero, che facesse emergere dall’originale qualcosa di diverso.
E mi sono detta che sì, c’era bisogno di una nuova traduzione e forse sarei stata in grado di fare qualcosa di diverso. Una delle impressioni più forti che mi hanno guidata, all’inizio, era che non mi piaceva che i traduttori anglofoni della poesia classica tendessero a usare il verso libero, benché l’originale fosse molto regolare, molto musicale. Ho compreso da subito che volevo fare qualcosa di diverso. Volevo usare il pentametro giambico [il verso narrativo più comune della tradizione anglofona, analogo al nostro endecasillabo NdT]. Le traduzioni più diffuse sono spesso farraginose e arcaiche, o magniloquenti, e anche questo non mi piaceva. Mi sembra un tentativo di sottolineare una dimensione eroica della storia, dello stile – e questa in ultima analisi è una falsificazione, rispetto all’originale. Sin dal primo momento avevo un programma letterario e poetico molto chiaro.
E per i lettori risulta estremamente sorprendente. La cosa che più mi ha colpito – da lettore con una qualche dimestichezza con l’originale – è che il metro che hai adottato sembrava permetterti di sbarazzarti di tutta la pomposità. La distanza da un registro neutro era già assorbita dal fatto che, per un lettore contemporaneo, un componimento così lungo in metrica è già qualcosa di insolito.
Sì, mi sembrava un modo di creare un equilibro. Il testo deve risultare artificioso – deve essere spiccatamente poetico, distinto dal linguaggio ordinario – e la metrica mi è servita a questo. La metrica segnala che si tratta di poesia. Questo mi ha permesso di rendere il testo molto chiaro e scorrevole dal punto di vista lessicale. Ho potuto creare una sorta di tensione: un testo al contempo artificioso e naturale, alto e scorrevole, che risultava completamente diverso dalle altre traduzioni in inglese dell’ultimo secolo.
Scrivi nell’introduzione che “la sorpresa di incontrare un autore antico che parla in una lingua in larga misura riconoscibile può rendere [il suo testo] persino più strano, strano in maniera nuova”. Che reazione c’è stata a questa novità? Quando ho letto la tua traduzione l’ho condivisa con molti amici, e quasi tutti sono stati un filo shockati – non sempre in senso positivo. Percepivano qualcosa di sacrilego. Come è stato per i lettori anglofoni?
Molti classicisti hanno accolto bene la mia traduzione, per via dell’aderenza al testo greco, e perché riesce a fare emergere dall’originale alcuni aspetti che risultavano meno chiari in altre traduzioni. Se c’è qualcosa che ho voluto mettere alla prova non era il testo di Omero, ma le ricezioni contemporanee, e le traduzioni, di “Omero”. Non è un sacrilegio: è un attacco al Vitello d’Oro.
Si è discusso molto del mio primo verso, in parte perché è facile leggere solo quello, e della mia scelta di usare il termine “complicato”. È troppo contemporaneo? Sottolinea troppo l’interiorità di Odisseo a scapito dei suoi vagabondaggi? Penso che quest’ultima sia una buona domanda, anche io me lo sono chiesta. Ma “È troppo contemporaneo?” mi sembra una domanda assurda, anche se è quella che mi viene posta più spesso. È come se una traduzione dell’Odissea non possa suonare contemporanea. Ma è assurdo che un testo scritto in inglese contemporaneo risulti più autentico meno la lingua sembra contemporanea. Diventa molto meno autentico, così: si tratta di una profonda menzogna stilistica. Un inglese arcaizzante, farraginoso, non è più vicino al greco antico rispetto a un inglese leggibile – anzi, per molti versi ne è persino più distante, perché il greco omerico non è farraginoso, né illeggibile, né sgraziato.
Hai appena parlato della tua scelta di tradurre πολύτροπος [polýtropos; in italiano “dal multiforme ingegno”] come “complicated”, ma mi ha colpito molto di più la tua traduzione di πολύμητις [polýmetis; “dalle molte astuzie”]. All’inizio del libro 9, ad esempio, lo traduci come “king of lies”, “re delle menzogne”. Alcuni recensori hanno sostenuto che la tua traduzione cerca di fare di Penelope un’eroina femminista, ma mi pare che ti interessasse molto di più far emergere la complessità, il lato oscuro di Odisseo.
Esatto! Sono felice che tu l’abbia notato. Nella cultura della Grecia antica la métis è un concetto profondamente ambiguo. Non è detto che averne tanta sia necessariamente una cosa positiva. Volevo che questo emergesse appieno. In quel caso ho usato “re delle menzogne” per segnalare che in questo momento Odisseo inizia a raccontare la propria storia in prima persona. Sono convinta che il termine, qui, sia usato per invitare a considerarlo un narratore inattendibile. Non volevo certo presentarlo come un personaggio negativo. Ma volevo incoraggiare il lettore a sentirsi a proprio agio all’idea che Odisseo lo faccia sentire a disagio.
Nelle traduzioni che conosco viene spesso definito “eroe”. Ma verificando sul greco ho visto che spesso l’originale diceva solo ᾰ̓νήρ [hanér, che significa “uomo”].
Sì! E bisogna anche ricordare che ἥρως [héros] si riferisce più a un “guerriero” che a un “personaggio positivo”; quest’ultima accezione arriva solo con l’uso del termine moderno “eroe”. Anche il termine δῖος [díos], che significa “luminoso, divino, vicino a Zeus” a volte viene tradotto come “eroe”, in altre versioni. Ma anche in questo caso il significato è diverso. È un epiteto che suggerisce qualcosa di speciale, di importante nel personaggio a cui si riferisce. Non significa che è “un buono”. Non volevo importare nel testo il desiderio moderno di avere un protagonista “eroico”. Nell’originale non c’è.
Nell’introduzione scrivi che Odisseo è “difficile, schivo, aggressivo: un bugiardo, un pirata, un colonizzatore, un ladro”. Certo, è tutto questo, eppure nelle altre traduzioni che ho letto questi aspetti mi parevano un filo smorzati. Come era smorzato un altro aspetto che invece leggendo la tua versione mi è apparso molto chiaro: Odisseo risulta cupo, quasi traumatizzato.
Tutti i suoi epiteti – non solo polýmetis, polýtropos, ma anche πολυμήχανος [polýmechanos; “dalle molte risorse”] – indicano una molteplicità, ed è una cosa che ho cercato di far emergere più spiccatamente che nelle altre traduzioni che ho letto. È molteplice. Ed è anche un veterano di guerra. Il fatto che risulti cupo non vuol dire che cerco di far sì che il lettore lo detesti: quello che vorrei suscitare, in chi mi legge, è una comprensione profonda di tutto il ventaglio della sua personalità. E questo sarebbe impossibile se sin dall’inizio fosse implicito che Odisseo è al di sopra di ogni critica, perché è un “eroe”. L’originale non fa nulla del genere.
La tua traduzione rende più comprensibile una scena che di norma è molto misteriosa: come mai, nell’ultimo libro, Odisseo mente a suo padre? Ha già ottenuto tutto ciò che voleva: perché metterlo alla prova?
Forse è perché ho fatto di tutto per non semplificare la sua personalità. Considerando tutti i comportamenti che ha adottato sino ad allora, quella scelta appare più plausibile. Nel libro 13, quando incontra Atena, viene presentato – nella mia traduzione – come “addicted to lying” [letteralmente “dipendente dalle bugie”, un mentitore compulsivo]. Ha senso che voglia mettere tutti alla prova anche quando è completamente inutile. È difficile spiegarlo in termini che non risultino più negativi di quanto vorrei. Ma diciamo che si vede la sua sete di potere, il suo desiderio di controllo. È un impulso umano comprensibile, non è necessariamente un difetto: tutti vogliamo un po’ di potere. Ma questi aspetti sono centrali nella raffigurazione di Odisseo: vuole controllare ogni situazione, ogni rapporto, risultando più forte o più astuto di chiunque altro. E in questo c’è un lato oscuro.
Sembra quasi che abbia un disturbo post-traumatico da stress.
Sì, speravo che questo emergesse. Ovvio, c’è chi si agita quando la terminologia della psicologia moderna viene proiettata su un testo antico, perché all’epoca quel concetto non esisteva; ma questo non vuol dire che non sapessero cosa significa, per un uomo, combattere per dieci anni lontano da casa.
A Penelope accade il contrario. In altre traduzioni viene caratterizzata in modi molto più vicini a uno stereotipo della “brava moglie”, per come la immaginiamo oggi. Ad esempio nel libro 24, quando Agamennone dice che gli dèi canteranno le lodi di Penelope, la definisce ἐχέφρονι [exéphroni; “saggia, prudente”]: nella tua traduzione il termine viene riferito all’ambito dell’intelligenza, in linea con tutti i dizionari che ho consultato; nella versione più diffusa in Italia – di Rosa Calzecchi Onesti, una donna! – viene tradotto con “fedele”.
Oooh. [ride] Questa, ovviamente, è una proiezione contemporanea. Nell’originale non c’è nulla che corrisponda al concetto moderno di “fedele”, che invece è una parte essenziale della rappresentazione post-omerica di Penelope. Ma nessuno degli epiteti omerici implicavano la sua fedeltà. Si riferivano tutti alle sue capacità cognitive.
Prima parlavi del termine “godlike”, “divino”, che nella tua versione è forse uno dei segnali più spiazzanti dell’origine così distante del testo. Forse è una delle uniche parole della tua traduzione che nessuno, oggi, utilizzerebbe.
Esatto, e volevo che rimanesse tale, perché è un elemento cruciale dell’immaginario del poema. Ha a che fare col rapporto fra mortali e dèi. La questione è questa: se sei una persona estremamente speciale, che tuttavia può morire, questo ti rende più simile a qualcuno che non può morire? Il termine “divino” sembra suggerire che in certi momenti della nostra vita, a vederci, sembriamo immortali.
Sono d’accordo con te, nessuno oggi lo direbbe mai. E mi rendo conto che in alcuni passaggi la mia traduzione può risultare spiazzante. Ad esempio nella prima scena del secondo libro, quando Telemaco si alza e indossa i sandali. È una normalissima scena in cui il protagonista esce dal letto; ma poi emerge dalla stanza e di colpo sembra un dio [ride]. È spiazzante. Spero che lo sia.
Questo ci riporta al problema di prima: se si evita di essere sempre artificiosamente alti, si ha la possibilità di impiegare un’enfasi particolare per rendere spiazzanti quelle cose che sono effettivamente diverse. Spero che questa emerga in modo particolarmente netto: uno degli interessi centrali del poema omerico è proprio la questione di cosa vuol dire assomigliare a un dio.
Ma in tutto questo ci sono anche termini che sorprendono per la loro vicinanza: picnic, kebab, “hobo” [“barbone”]…
Be’, dal punto di vista sintattico i poemi omerici sono molto chiari – molto più leggibili, ad esempio, di Tucidide. Ma il loro lessico – per via della lunga tradizione orale, attraverso tutta la Grecia – è un misto di dialetti e termini di epoche diverse. È una lingua che nessuna singola persona ha mai parlato. Ha qualcosa del pastiche. E non volevo renderla sconfinando nel cockney, nello slang afroamericano, nel lessico specifico dell’inglese britannico o canadese. Sarebbe risultato idiosincratico. Però volevo trasmettere questa variabilità della tessitura linguistica, e uno dei modi in cui l’ho fatto è stato impiegando termini più spiccatamente moderni del resto del testo. A volte hai la sensazione che si parli di un mondo identico al tuo, a volte sembrerà completamente alieno; a volte fanno i picnic, a volte sembrano dèi. C’è una molteplicità nello stile di Omero, è al contempo vicino e lontanissimo.
La tradizione orale dell’Odissea è evidente nell’abbondanza di epiteti fissi. Anche in questo caso hai deciso di gestirli in un modo estremamente innovativo. Nella tua versione, cambiano sempre.
Un problema cruciale che ho dovuto affrontare è stato come rendere chiaro che, in Omero, le cose si ripetono costantemente. C’è qualcosa di estremamente formulare. All’epoca il pubblico era abituato alle ripetizioni. Nelle culture analfabete, o semianalfabete, la ripetizione svolge una funzione molto precisa: se qualcosa viene ripetuto è perché è molto importante. Nella nostra cultura è il contrario: se qualcosa viene ripetuto è perché non ha importanza, è un cliché. Lo hai già letto, passi oltre.
Io cercavo di ricreare lo stesso effetto di Omero, quindi ho dovuto impiegare strumenti diversi. Visto che lo scopo dell’epiteto era di dare una caratterizzazione importante, ho dovuto cambiarne la formulazione ogni volta perché il lettore continuasse a farci caso. Non stavo cercando di eliminare la sensazione di ripetitività. L’alba avrà sempre qualcosa di rosa, o di rosato, e sarà una dea, e sarà ogni volta appena nata, o nata da poco, o nascente. Ma ho cercato di variare la formulazione perché la metafora restasse viva.
Lo stesso accade ai vari epiteti di Odisseo, tutti legati alla molteplicità. Li ho tradotti ogni volta in modo diverso, nella speranza di rendere chiaro ciò che Omero stava cercando di fare: voleva far emergere la variabilità, la molteplicità del suo carattere.
Questa sarà l’unica volta che nominerò questo argomento. Gli epiteti ci sembrano qualcosa di estremamente alieno al linguaggio contemporaneo; eppure mi pare che Donald Trump li usi spesso. “Failing New York Times”, “Crooked Hillary”, “Little Marco”: sono epiteti.
Proprio così. Forse ha a che fare con ciò che dicevo sulle culture analfabete o semianalfabete – o col fatto che, nel nostro mondo, l’uso della ripetizione non incoraggia a riflettere.
Un altro termine che mi ha fatto provare il brivido dell’anacronismo è “migrant”. Nell’Odissea ricorre la figura del vagabondo vestito di stracci che sostiene di essere stato un re; la tua scelta di un termine così marcato sembra volerne sottolineare l’importanza.
In questo momento storico ci sono ragioni ben precise di pensare ai migranti. Nell’epoca in cui è nata l’Odissea i greci erano dei colonizzatori, dei guerrafondai; c’era una diaspora ellenofona di origini estremamente diverse. I greci, i parlanti del greco, causavano e incontravano la migrazione, o erano essi stessi migranti. Il poema si interessa moltissimo alle persone che sono state costrette a lasciare la propria terra, e in molti passi sembra domandarsi cosa fare di loro. Il sistema etico della ξενία [xenía] è, in parte, una soluzione al problema di come comportarsi con le persone – perlomeno le persone di sesso maschile, di ceto elevato – che sono state costrette a lasciare la propria terra, se e in che misura si sia in dovere di offrire loro cibo, ospitalità, sicurezza. Ovviamente si potrebbe dire che al giorno d’oggi la situazione è completamente diversa. Lo è. Ma non mi sembra fuori luogo l’idea che un migrante, oggi, soffra qualcosa di simile a ciò che soffriva chi era costretto a lasciare la propria terra nell’antichità. C’è una continuità in quella sofferenza. Nella mia traduzione ho cercato di farla emergere.
Ma in un certo senso, questo non rende la tua traduzione “infedele”? In fondo, si tratta di imporre un senso contemporaneo a qualcosa che in originale non lo aveva.
L’Odissea stessa mostra che usiamo due pesi e due misure, marcati a livello di genere, quando parliamo di lealtà – a una persona, o a una relazione, o a un’idea, o a un luogo. Nel caso di Odisseo, la lealtà alla moglie è compatibile col fatto che abbia delle relazioni con due dee immortali, o che passi vent’anni lontano da casa. Nel caso di Penelope usiamo uno standard diverso.
Il termine “fedeltà”, per un traduttore, sembra implicare che esista un solo modo di essere leali all’originale. Sembra implicare che chi traduce sia sempre in una posizione secondaria e passiva, proprio come – nel modello eteronormativo del matrimonio o dei rapporti eterosessuali – la donna dovrebbe essere sempre secondaria e passiva, ricettiva anziché attiva, in attesa anziché in azione. Ma i traduttori – anche io, certo, ma non solo – in realtà sono molto più simili a Odisseo. Ci camuffiamo sempre, raccontiamo storie altrui in parole che sono e non sono le nostre: e queste menzogne apparenti potrebbero essere il modo migliore, forse l’unico, di arrivare a una rivelazione o a una verità.
Mi hai chiesto di parlare del lato oscuro di Odisseo, ma vorrei anche sottolineare che – da scrittrice, da traduttrice – mi sono rispecchiata profondamente in lui. Tradurre un testo antico vuol dire cercare di andare indietro nel tempo, di portare il lettore in un mondo che è esistito molti anni fa – proprio come Odisseo cerca di tornare non solo a un luogo, ma a un tempo che ha lasciato vent’anni prima. Come la mia traduzione, Odisseo, “dalle molte svolte”, “dalle molte traduzioni”, esiste sia nel presente che nel passato. I traduttori scoprono e creano costantemente una nuova Itaca, una nuova casa e una nuova lingua per un ospite in viaggio. Non si tratta solo di me: tutti i traduttori, con le loro scelte, creano un nuovo testo. Penso che “responsabilità” sia un termine migliore di “fedeltà”, perché invita a riflettere un po’ di più su tutte le diverse responsabilità di un traduttore, sulle molte, molte svolte che dobbiamo compiere per rispettarle.