

O spitiamo qui una conversazione tra l’editor Simone Re e il critico Gianluigi Simonetti. Simonetti sta portando avanti, sulla rivista Snaporaz e sul volume pubblicato per Nottetempo, una coraggiosa ricerca molto novecentesca, lucida e sobria sulla forza con cui il mercato condiziona l’arte letteraria. Se Gianluigi Simonetti amasse meno la letteratura, la sua rimarrebbe comunque un’indagine utile a capire chi siamo oggi come lettori e come scrittori. Il suo amore per i libri e per quel tipo di conversioni e passioni che i libri ci suscitavano fino a poco fa, prima che l’algoritmo imparasse a capire quanto volevamo consolazione, intrattenimento, soldi e riconoscimento, e prendesse decisioni per noi, è una grande risorsa – e una tortura deliziosa. (fp)
Simone Re: Da circa due mesi è uscito il tuo libro, Caccia allo Strega (Nottetempo), e mi sembra abbia generato attorno a sé una buona quantità di discorso. Proprio la cinquina di questa edizione sembra rispecchiare il tuo ritratto della “letteratura da premio”.
Gianluigi Simonetti: Come scrivevo in un piccolo bilancio che ho pubblicato su Snaporaz, i primi tre romanzi in classifica (nell’ordine, Mi limitavo ad amare te di Rossella Postorino, Come d’aria di Ada d’Adamo e Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone) sono tutti “discorsi sulla vittima” – di diverso tipo e valore, naturalmente. E fa pensare che tutti i libri in cinquina siano in connessione con una o più “storie vere”. Non stupisce allora che siano rimasti fuori dalla cinquina i romanzi di ispirazione più schiettamente letteraria del gruppo – Il continente bianco di Andrea Tarabbia (che riscrive L’odore del sangue di Goffredo Parise) e Ferrovie del Messico di Griffi (che deve molto a Bolaño); Rubare la notte, di Petri, parla di Saint-Exupéry, è vero, ma ne rilegge la vita più che l’opera. Non a caso, direi.
In effetti lo schema biografico e autobiografico è protagonista di questa e di altre edizioni recenti del premio, quest’anno riempito in particolare con traumi famigliari (e traumi in generale: morte, separazione, abbandono, depressione). Magari sbaglio, ma ci leggo – al di là di una concessione più o meno tendenziosa alle mode del momento, e anzi quasi al suo contrario – un procedimento tipico della letteratura, il suo tendere naturalmente a contraddire alcuni “punti di pressione” della società. E quindi, come scrivevo, servono emozioni forti, anche se dolorose, perché evidentemente nella società prevale un senso di anestesia; si ricostruiscono legami familiari e strategie identitarie proprio mentre la famiglia tradizionale va in pezzi e l’individualità si sfrangia; si elaborano e mitizzano personaggi di figli proprio perché nella realtà non si fanno quasi più. Soprattutto, s’insegue l’autenticità perché ci si sente, sotto sotto, intrisi d’inautentico.
Quanto al ritratto di una ideale narrativa “da premio” che ho stilato – un po’ ironicamente e un po’ no – alla fine del mio saggio, beh, eccolo sintetizzato in uno svelto decalogo. Decida il lettore se è pertinente o no alla cinquina di quest’anno, posso solo aggiungere che quando l’ho scritto non avevo letto nessuno dei libri finalisti:
SR: Ci sono dei libri che invece, presenti nella dozzina e ora esclusi, avrebbero potuto rappresentare una evidente contraddizione al quadro che hai presentato? Sarei curioso di sapere se hai osservazioni in particolare su un testo di cui si è parlato tantissimo, anche (ma non solo) come fenomeno editoriale, Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, (pubblicato tra l’altro da un editore-autore, come Giulio Mozzi, da te catalogato fra quegli “esclusi” “meno plasmabili e disponibili al compromesso”). Si tratta di un “fortunato” caso isolato, di un avvicinamento dello Strega a questo tipo di narrativa, o al contrario di una forma di compromesso giocata più dal versante dell’editoria indipendente e fortemente autoriale come quella di marca mozziana?
GS: Ferrovie del Messico aveva in teoria carte da giocare sul fronte dei premi: romanzo ben scritto, affabulatorio e divertente, pubblicato da una casa editrice piccola ma dall’identità precisa, e per giunta con un inatteso, ragguardevole successo commerciale alle spalle (sia pure in un circuito di nicchia), dovuto soprattutto alla sapiente regia di Giulio Mozzi. Allo Strega credo abbia pagato la lunghezza, la letterarietà e la presenza del libro di Ada d’Adamo (a sua volta pubblicato da una piccola casa editrice, ma di impatto più immediato e con potenzialità commerciali indubbiamente maggiori). Semmai è più strano che Ferrovie del Messico non sia passato al Campiello; ma adesso nei premi (e nell’accademia) va forte la non fiction, nel romanzo di Griffi forse c’è troppa invenzione.
S’insegue l’autenticità perché ci si sente sotto sotto intrisi d’inautentico.
SR: Credi che nelle edizioni degli ultimi anni ci siano altri casi rilevanti di “occasioni mancate” per contraddire il ritratto da te delineato, almeno per il novero dei finalisti ed eventualmente anche per il vincitore? Penso, magari, a Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci (minimum fax, 2016) o La straniera di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019) e, in ultimo, per un discorso relativo all’esclusione fin dalla dozzina, a Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio (Giulio Perrone, 2023), presentato da Nadia Terranova.
GS: L’esclusione di Pincio mi ha colpito: magari Diario di un’estate marziana non è il suo libro migliore, ma si tratta di uno scrittore sicuro, e di un’opera che avrebbe potuto arrivare in fondo. In questo caso gli Amici della domenica non c’entrano, perché ha deciso il Comitato direttivo; evidentemente si è preferito non portare questo libro in zone “pericolose”della competizione, aspettando magari altre occasioni future. In un certo senso possiamo considerarlo un paradossale attestato di stima…
Il cinghiale che uccise Liberty Valance e La straniera sono casi diversi: a me pare che lo Strega li abbia valorizzati, entro certi limiti. Non mi stupirei se Meacci e Durastanti vincessero il premio, in futuro. Per motivi differenti credo abbiano il profilo di autori eventualmente cooptabili nel circuito dello Strega.
SR: Un’ultima domanda sullo Strega 2023: Feltrinelli, Einaudi, Mondadori, La nave di Teseo ed Elliot in cinquina. L’anno scorso si è dovuto appositamente ripescare, in seguito alle votazioni, il romanzo rappresentante la piccola editoria (Veronica Galletta, Nina sull’argine, minimum fax, 2022). Quest’anno non ce n’è stato bisogno, ma figurano comunque tre major su cinque, con La nave di Teseo che, potremmo dire, solo da un punto di vista formale non è conteggiata come grande marchio. Cosa pensi delle dinamiche interne, spesso sottese, di supporto (o contrasto) reciproco e maggiore influenza che le case dei grandi gruppi possono avere a partire dalla selezione della cinquina e poi fino alla proclamazione del vincitore? Potrebbe anche questo essere un elemento da tenere in considerazione all’interno della formula che hai individuato per l’ideale libro da “premio Strega”?
GS: I rapporti interni al mondo editoriale e in particolare quelli fra grandi gruppi e Strega hanno sempre avuto com’è noto un grande rilievo nell’attribuzione del premio. Certamente lo conservano, non saprei dire in che misura rispetto al passato: mi occupo di testi letterari, non di storia dell’editoria, so poco (purtroppo) di pubbliche relazioni nel mondo della narrativa italiana e nulla del cosiddetto “sottobosco” degli Amici della domenica. Dall’esterno ho la sensazione che oggi le logiche dei grandi gruppi siano un po’ meno endogene di ieri: che guardino meno alla singola scuderia e più agli interessi generali del mercato (e dello spettacolo in generale).
SR: Quanto, secondo te, la ricerca di uno stile piano, à la page, soprattutto da un punto di vista sintattico, è legato all’influenza della transmedialità sul versante cinematografico e seriale degli ultimi anni? E, di conseguenza, quanto ciò avrebbe influito anche sul livellamento della lingua e dello stile a favore di una trama dall’intreccio facile e “concluso”, in cui il finale deve risultare chiaro o, come nei casi di Mario Desiati e Veronica Raimo, quasi mancante?
GS: La ricerca di uno stile piano, o semplice, è fenomeno di lungo, medio e breve periodo, ha radici nel cuore del Novecento e cause molteplici. Non è neppure negativo in sé (lo diventa solo quando la semplicità coincide con la sciatteria). Credo che l’influenza del linguaggio audiovisivo sia più netta in scrittori per così dire under 50, come in fondo è inevitabile che sia: sono nati e cresciuti in una fase di declino della cultura umanistica, in cui la tradizione letteraria cominciava a contare meno e a perdere una marcata identità linguistica nazionale (per cui i modelli che s’impongono non sono più solo letterari, e se letterari non più prevalentemente italiani). Poi sono venuti su con la televisione (specie privata), e con il cinema in televisione, con l’italiano dei doppiatori e dei traduttori – cercando più dei loro padri o nonni di inseguire e riprodurre l’energia delle immagini in movimento soprattutto perché nel goderne non soffrivano più di nessun senso di colpa, o di complesso di inferiorità culturale. E infine sono maturati o stanno maturando in un’epoca in cui un libro è come se valesse di più quando diventa un film o una serie: il loro immaginario non si limita a venire da cinema e televisione, ma ormai chiaramente va verso cinema e televisione.
Transmedialità diventa quindi – oltre che una parola alla moda – un altro nome per “filiera”. Ricordo il caso di un romanzo noir di qualche anno fa, concepito inizialmente come semplice soggetto di una serie tv; la produzione a cui venne sottoposto invitò gli autori a farne prima un romanzo, pubblicato da una grande casa editrice, che sarebbe poi potuto diventare un film, che sarebbe poi potuto diventare una serie – e così fu. Un caso limite, certo, ma interessante: tanta narrativa letteraria si pone forse solo come momento iniziale di una filiera che trae senso commerciale soprattutto da altri comparti, narrativi anch’essi, ma non letterari.
Infine: nel suo Contro l’impegno Walter Siti riflette su quel fenomeno che chiama “sparizione dei finali”, e osserva che chi insegna nelle scuole di scrittura creativa testimonia che i giovani aspiranti autori hanno sempre più difficoltà a trovare gli epiloghi. Chissà se c’entra il fatto che “le serie televisive spesso finiscono quando finiscono i soldi del produttore, e che (se ci sono) i finali sembrano deludenti agli stessi fan”.
Tanta narrativa letteraria si pone solo come momento iniziale di una filiera che trae senso commerciale soprattutto da altri comparti, narrativi anch’essi, ma non letterari.
SR: Alla luce delle tue osservazioni in merito a cosa è stato e a cosa è diventato in questi ultimi vent’anni lo Strega, e di conseguenza anche ciò che potremmo definire la “letteratura ufficiale”, ci sono dei titoli (o autori, se preferisci) che secondo te potrebbero assurgere al ruolo di classici, da far leggere alle prossime generazioni, fra quelli che lo Strega ha promosso e premiato?
GS: A me piace leggere le opere contemporanee riservando loro l’attenzione critica che di solito riserviamo ai classici; però eviterei di gravare i romanzi di oggi delle responsabilità di senso e soprattutto di valore che siamo abituati ad attribuire ai capolavori del passato (e forse ai classici stessi gioverebbe liberarsi di un po’ di questa zavorra, per poter essere riletti veramente). Detto questo, tra le opere di grande valore arrivate in cinquina o sul podio dal 2008 a oggi vorrei ricordare almeno Qualcosa di scritto di Trevi, Canale Mussolini di Pennacchi, Resistere non serve a niente di Siti, La vita in tempo di pace di Pecoraro, La scuola cattolica di Albinati. Ed è lunghissimo l’elenco di grandi romanzi che negli stessi anni sono semplicemente sfuggiti ai radar dei premi letterari.
SR: Vorrei farti una domanda a livello più generale sulla tua attività di critico, anche pensando al tuo libro precedente, La letteratura circostante. Non sono forse l’unico a chiedersi il motivo di servirsi di strumenti critici raffinati come i tuoi per realizzare un’analisi su testi di per sé facilmente catalogabili come “nobile intrattenimento”. Fuori dai denti: qualcuno potrebbe dire che non è necessario essere un critico per capire che autori come Margaret Mazzantini o Rosella Postorino non sono da annoverare come letteratura, al netto del successo che possono riscuotere. Quindi qual è la funzione, l’obiettivo e il motore primo che ti stimola a dedicarti tanto su libri che durano una stagione o poco più? Cosa è in particolare che ti spinge verso questo tipo di attività critica, poco navigata da altri tuoi colleghi?
GS: Mi sembra un po’ difficile sostenere che i libri di Mazzantini o Postorino “non sono letteratura”: lo sono oggettivamente, perché appartengono a pieno titolo allo spazio dell’editoria di narrativa, alla comunicazione libraria, al discorso del romanzo, insomma alla “letteratura percepita”; ma lo sono anche simbolicamente, come dimostra il fatto che possono aggiudicarsi i premi più prestigiosi, assegnati da giurie composte anche da letterati (e da accademici). Semmai, non sono solo letteratura – sono anche investimento, pubblicità, insomma merce: ma questa nel mondo dell’arte è storia vecchia. Dubito poi che questi o altri libri di cui parlo in Caccia allo Strega non possano durare che “una stagione o poco più”: può essere vero per l’arte riconosciuta come di consumo, di cui pure mi sono occupato a volte, ma non è affatto detto che lo sia per opere intese come pienamente e a volte nobilmente letterarie dal grosso del pubblico, dalle istituzioni letterarie e anche – non dimentichiamolo – da buona parte della critica (in effetti non ricordo di aver letto stroncature di Mi limitavo ad amare te: chi se ne è occupato sui giornali – di solito altri scrittori – ne ha parlato in modo elogiativo, anche se evasivo al tempo stesso). Tutto questo per dire che esiste la concreta possibilità che quello che per te adesso “non è letteratura” finisca domani o dopodomani nelle storie letterarie (fine ultimo degli scrittori più insicuri). E anzi ti segnalo che già oggi i libri di D’Avenia sono – tanto per fare un esempio – tra i più letti nei licei italiani.
Ma a parte questo, la domanda che vorrei farti io è: di queste cose, perché non occuparsene? Siamo sicuri che valga la pena studiare solo quello che ci piace? Non interpreto la critica come difesa o autodifesa o delibazione del bello, non mi riconosco in nessuna poetica, non credo di potere e comunque non mi interessa particolarmente orientare chicchessia, non vedo nel lettore un bambino da educare. E non darei neppure tutto questo valore alla critica in sé: alla fine sono metadiscorsi, e come tutti i metadiscorsi contano fino a un certo punto (e forse servirebbero più agli scrittori che ai lettori comuni; se non fosse che nessuno come gli scrittori è oggi annoiato o spaventato dai metadiscorsi…). Per me, la critica trova un senso solamente se serve a capire; a capire, attraverso l’arte, la nostra identità più vera e più profonda, al di là di tutte le apparenze e di tutte le bugie che siamo disposti a raccontare su noi stessi.
Ma se le cose stanno così, credo si debba ammettere che non sono solo i capolavori che aiutano la critica a capire; anche la mediocrità e la bruttezza – una volta analizzate e comprese dalla critica – possono dare un importante contributo, perché è anche di mediocrità e bruttezza che siamo fatti, noi e le nostre idee sull’arte. Da lettore, amo solo la grande letteratura (e proprio perché la amo so che non sempre si trova dove la si cerca): la banalità mi irrita e la spazzatura mi annoia (semmai è nel cinema e nella musica che conservo qualche guilty pleasure). Da critico, e da storico, mi piace leggere e studiare tutto. Credo che ogni oggetto estetico, se smontato in modo serio, sia utile a capire chi siamo veramente. E a capirlo per intero.
Il “nobile intrattenimento” mi pare in aumento in tutto il campo letterario, non solo nei premi: nel territorio dei grandi premi trova il suo habitat ideale.
SR: In un passo del tuo saggio parli di “nobile intrattenimento”, (formula già presente nel tuo precedente La letteratura circostante), come successore del “romanzo ben fatto” del secondo Novecento. Puoi spiegare perché hai scelto questa formula per riferirti ai titoli selezionati negli ultimi anni dal premio? Vedendo a quali libri ti riferisci con questa definizione, percepisco l’aggettivo “nobile” con un’accezione esclusivamente sarcastica, ma forse esagero io in malizia?
GS: Naturalmente non mi riferisco, quando parlo di “nobile intrattenimento”, a tutti i titoli selezionati dal premio, ma solo a un buon numero, e anzi a un numero crescente di essi. Ma il “nobile intrattenimento” mi pare in aumento in tutto il campo letterario, non solo nei premi; diciamo che nel territorio dei grandi premi trova il suo habitat ideale, perché possiede insieme attenzione al successo e ricerca di rispettabilità culturale, due poli che animano i premi stessi. In comune col romanzo “ben fatto” del Novecento ha la tendenza ad avere buona fortuna commerciale e a risolversi in una formula rassicurante, che nel suo caso consiste un mix di tecniche di intrattenimento (e di evasione) e di aspirazioni culturalistiche e moralistiche, di innalzamenti arty e sussulti pedagogici. Ammetto quindi che c’è un po’ di ironia in quel “nobile”: credo che il grande romanzo abbia più a che fare con la demistificazione che con la sublimazione, che sia abituato a trafficare con le nostre miserie molto più che a cercare, o peggio a fingere, la poesia. Al romanzo la volontà di darsi un’aria artistica fa male, anzi fa male la volontà in generale; di solito va molto meglio quando sbatte il muso contro la propria impotenza, o quando trova per forza di umiltà qualcosa di importante e di rimosso che non sapeva o non voleva cercare.
SR: Spettacolarizzazione dello Strega. Nel tuo saggio non mancano le stilettate sulla costruzione della figura dell’autore intorno al libro stesso, come se il personaggio costruito intorno a chi scrive, con tutto ciò che rappresenta anche attraverso forme mediatiche altre (social, televisione, ecc.) fosse un vero e proprio elemento paratestuale nella direzione di un premio letterario. Mi viene da pensare alla dimensione autobiografica di Cognetti rispetto a Le otto montagne, ma non solo. Ritieni che questa tendenza abbia giocato un ruolo anche negli scorsi decenni, in linea con l’intrinseca mondanità del premio, o che, andando ancora oltre, l’autore possa avere scavalcato in certi casi il libro, così che ad essere premiato sia più lo scrittore che il testo, più la figura “pubblica” dell’uomo che l’opera?
GS: Anche in questo caso, lo Strega riflette un fenomeno che appartiene al campo letterario nel suo complesso: la tendenza ad accompagnare da subito un’opera scritta con qualche integrazione non scritta; o, se preferisci, a rafforzare il testo col contesto – soprattutto se il testo è sentito come insufficiente, se rischia di non saper dire da solo quel che vorrebbe. In questo quadro, il contesto può fornire al libro tante e diverse forme di “accompagnamento” (oltre a tutte quelle “in presenza”, legate al portare di persona i propri romanzi in televisione, nei saloni, nei festival, eccetera). L’attualità italiana ci insegna che accompagnamento può essere il supporto di una specie di factory (penso a Michela Murgia e alla sua queer family); può essere un impegno politico assiduo che diventa anche manifesto di poetica (ancora Murgia, o naturalmente Saviano); può essere un secondo mestiere (la fisica per Paolo Giordano, la matematica per Chiara Valerio); può essere un volto fotogenico o un’aria da bravo ragazzo (Erri De Luca, Alessandro d’Avenia); può essere una biografia diversa e interessante (Jonathan Bazzi, Claudia Durastanti) o addirittura, al contrario, un “vuoto” biografico, un “chissà chi sei” (Elena Ferrante).
Non è una novità assoluta, si capisce; mescolanze pericolose e a volte seducenti tra vita e opera le troviamo per esempio, amplificate dai media, in d’Annunzio, o in Pasolini. Ma è nuova la sistematicità, e anche la gerarchia: nella maggior parte dei casi non è più la vita al servizio dell’opera, che deve restare, ma l’opera al servizio della vita – e della comunicazione: che non resteranno. Paolo Cognetti, che tu citi, ha cominciato come autore di racconti, senza ulteriori specificazioni, e all’epoca di lui non si sapeva nulla; da quando ha vinto lo Strega con Le otto montagne, è diventato – ed è comunicato come – uno scrittore di montagna, con un’immagine e una biografia coerenti allo scopo. Questo certamente rafforza (anche commercialmente) la sua identità di scrittore, perché la brandizza; ma forse indebolisce l’identità della sua opera, perché rischia di parcellizzarla, e magari di svenderla.
SR: Nei mesi del Premio, puntualmente ogni anno, lo Strega dirige le sorti del mercato. Credi possa valere anche l’opposto? Con riferimento a dei generi tornati “di moda” negli ultimi anni, come il romanzo storico, la saga famigliare, la commistione fra fiction e non-fiction, alla luce di quanto scrivi su Scurati, vincente nel 2018 con M. Il figlio del secolo, e su altri autori che hanno intercettato nelle loro opere queste categorie narratologiche dentro e fuori lo Strega, quale pensi possa essere un titolo o un autore che ricorra alla convalida documentaria e all’elemento romanzesco senza fare apertamente l’occhiolino al manicheismo ideologico della società di oggi (diversamente, dunque, dallo stesso Scurati)?
GS: Davide Orecchio.
Nella maggior parte dei casi non è più la vita al servizio dell’opera, che deve restare, ma l’opera al servizio della vita e della comunicazione: che non resteranno.
SR: Per molti vincitori hai messo in luce come il romanzo con cui si sono aggiudicati lo Strega non sia, a volte con evidenza, la loro opera migliore. Pensi che abbiano agito delle precise logiche à la “premio alla carriera” in alcuni casi? Mi viene da pensare, in particolare, all’edizione 2021 con la vittoria di Trevi, il cui Due Vite risponde forse a pochi di quei filtri dei titoli vincitori, trattando un contenuto molto specifico e su figure conosciute da una nicchia, con un montaggio e un ritmo lontani dalla tipica narrativa d’intrattenimento. Ciò darebbe forza a quell’ipotesi di cui parlavamo prima secondo cui il premio a volte sarebbe conferito più all’autore che al libro.
GS: La dinamica del premio alla carriera mi pare più tipica (l’ha notato Gabriele Pedullà) dello Strega di fine Novecento, quello che coronava autori nel tempo molto accreditatisi ma ormai a fine carriera, come Primo Levi, o Landolfi, o Pomilio. Quello che sta succedendo in questi anni è che a volte lo Strega intercetta gli autori giusti – cioè peculiari, influenti e in forma – ma con un piccolo ritardo rispetto all’uscita di alcuni loro libri particolarmente riusciti; e così effettivamente può dare l’impressione di consacrare, più che il libro, l’autore (ma non la carriera, perché quella è ancora in pieno sviluppo). Per fare qualche esempio recente: Trevi avrebbe dovuto vincere con Qualcosa di scritto (o meglio ancora con Sogni e favole) piuttosto che con Due vite, Piccolo con La separazione del maschio piuttosto che con Il desiderio di essere come tutti, Janeczek con Lezioni di tenebra piuttosto che con La ragazza con la Leica. Eccetera eccetera.
SR: Per concludere, sulla scia di quanto finora detto: premio, editori e autori. Chi è che influisce maggiormente o definisce il primo input di composizione dei titoli finalisti o vincitori? Chi è in sostanza che sceglie di “creare” quel libro? Possiamo parlare di una sorta di deus ex machina? È l’autore che lo scrive, che pone prima dell’atto creativo (e dunque, contro lo stesso) l’intenzione di vittoria del premio? O è la casa editrice che commissiona, più o meno esplicitamente, la realizzazione di un’opera che possa rispondere alle esigenze di un premio letterario così definito, lavorando poi sul libro per editarlo e impostarlo ad hoc per il “genere Strega”? Oppure, ancora, è (anche) lo Strega stesso, che negli anni definisce un canone e si impone con delle norme e delle categorie proprie con cui richiedere sia agli scrittori sia agli editori il prodotto vincitore?
GS: Credo che tra autore e casa editrice viga una dialettica intensa in sede di programmazione – una dialettica di cui non è difficile riconoscere le tracce ex post, nelle campagne promozionali e nel lavoro degli uffici stampa – come in un campo di battaglia dopo la fine dei combattimenti. Autori che pianificano libri che immaginano commestibili per i premi e il mercato, e che lasciano case editrici medio-piccole per proporsi a marchi importanti, nella speranza di ottenere un appoggio risolutivo. Ma anche il contrario, ovvero case editrici che ingaggiano autori che considerano promettenti e adatti alle dinamiche dei premi, meglio ancora se malleabili e disponibili a un po’ di cucina editoriale. Di certo non credo in nessun deus ex machina o grande vecchio – credo semmai nell’esperienza, nel tatto e forse nel cinismo di un gruppo non troppo esteso di uomini e donne intelligenti, col giusto uso di mondo, che negoziano volta per volta una soluzione che rappresenti un buon compromesso tra esigenze commerciali, buon nome delle istituzioni e risarcimento narcisistico di un numero adeguato di competitors.
Chiaramente tutto questo negoziare solo a volte incontra l’autentica bellezza, solo a volte coincide con un servizio reso al sacro fuoco della letteratura. Ma che possiamo farci? C’est la vie.