I l Sanscrito, una delle lingue di antichi testi vedici ma anche buddisti, nel libro dei cambiamenti del Novecento da “sanskrit” diviene “sanscreed”. Letteralmente perde (sans, “senza” in francese) il credo (creed in inglese). Diviene quasi il suo opposto, se è vero che il sanscrito è anche una lingua sacra. Sembra un gioco di parole da Dan Brown, e invece lo propone James Joyce nel suo Finnegans Wake. È un esempio di quella che chiamo “simultaneità” in letteratura. Ma andiamo per gradi.
Un importante commentatore biblico e prelato anglicano che, verso la fine della vita, nel 1827, salì sullo scranno vescovile di Bristol, scrisse forse i due volumi di un libro dimenticato, che avrebbe però fatto segretamente storia: The Theory of Dreams. Dico forse perché fu pubblicato anonimamente, e gli viene soltanto attribuito. L’opera reca, come sottotitolo, “in cui si indaga sui poteri e le facoltà della mente umana, illustrati nei sogni più rilevanti della storia sacra e profana”. Questo libro forse di Gray sarebbe stato forse letto da Bram Stoker, il creatore del Conte Dracula. Vi si sarebbe forse ispirato per le scene di telepatia tra il vampiro e la giovane Mina, ad esempio. Ma tralasciamo le ipotesi. Il libro si apre con una storia formidabile.
Un tale Mr. Morrison, a Praga, dopo essersi dato a generose libagioni durante una festa andata per le lunghe, all’alba, nel suo letto, viene lambito da un raggio di sole e sogna di un’ombra passatagli accanto per dirgli che il padre è morto. Si sveglia tutto sudato e annota in un taccuino giorno, ora e tutte le circostanze rilevanti. Mette poi l’appunto in un cilindro di legno e lo invia in Inghilterra. In seguito, a Norimberga, incontra un mercante amico di famiglia, il quale lo informa che il padre davvero non c’è più. Tornato in Inghilterra quattro anni dopo, non apre il cilindro né dà un’occhiata al taccuino, perché vuole che le sorelle e altri amici gli siano testimoni: tutti si stupirono, lui compreso, nell’apprendere che il sogno coincideva con la data di morte del padre.
Di storie di questo tipo ne esistono a bizzeffe, e non c’è ragione di credere che questa riportata da Gray non sia inventata. Prendiamola per vera, però, come in un esperimento mentale. In questo caso, rappresenterebbe un caso strano di simultaneità, in cui qualcosa che accade al di fuori della mente di qualcuno, in un luogo distante e distinto, simultaneamente occorre anche dentro la mente di quel qualcuno.
Non è importante soffermarsi sulla veridicità del resoconto, perché il fatto che le coincidenze esistano è indisputabile. Quello che si può discutere è semmai se abbiano un valore. Nella vita, c’è chi glielo assegna, chi no. In letteratura, non possono non averlo perché sono appunto create ad arte.
La simultaneità è la firma delle grandi opere d’arte. È la loro capacità non solo di dire tante cose al contempo, ma di farlo in maniera che quelle cose restino poi intricate, affratellate.
In quel libro dei cambiamenti citato – un vero e proprio I Ching moderno – il concetto di simultaneità viene immortalato in alcuni passaggi strabilianti. Vorrei portare ad esempio quello che scoviamo a pagina 161 riga 13 (il Finnegans va citato di norma con questa consuetudine, tipica dei testi sacri), quando si parla di due fratelli, chiamati Burrus e Caseous. (In un altro caso, altri gemelli sono detti siamesi, ma la parola che Joyce usa per loro è soamheis, ossia qualcosa che condensa l’espressione “as I am so he is” > “come sono io è lui”). I due fratelli non sono riusciti a districarsi – ma quello che scrive Joyce è: “not have seemaultaneously sysentangled themselves”. In quest’espressione abbiamo tanto: il verbo inglese per “sembrare” (to seem), il prefisso greco per “con, insieme” (sy-), un termine tedesco per “bocca” (maul), e molte altre cose più riconoscibili come l’inglese disentangled (“districati”), ad esempio, e così via.
Questa è la simultaneità: far coincidere, senza possibilità di districarli, significati che presi in isolamento significherebbero tutt’altro; e invece, nella fusione nucleare (tra i vari nuclei) operata, assumono valore rispecchiandosi a vicenda, producendo ossia fenomeni di interazione capaci di generare nuove grammatiche, nuove sintassi, nuovi lessici. La simultaneità è la firma delle grandi opere d’arte. È la loro capacità non solo di dire tante cose al contempo, ma di farlo in maniera che quelle cose dette, restino poi intricate, affratellate: nessuno potrà più sciogliere quel che l’artista ha unito.
Da dove trae, Joyce, questa intuizione tanto semplice, eppure così complessa in apparenza, un’intuizione che riassume l’anima segreta di ogni grande opera configurandola sempre come un’opera del futuro, da riscoprire in nuovi modi? Sin da giovane era stato affascinato da un tipo di pensiero capace di scardinare la preminenza della logica raziocinante della tradizione occidentale, che annovera tra le proprie radici quel principio di non contraddizione grazie al quale la sequenza di causa ed effetto viene spesso letta attraverso una sorta di linearità cronologica. Era appassionato di Bruno, ad esempio, e applicava alla lettera il principio dell’unione dei contrari che il Nolano aveva sviluppato a partire dal Cusano. Questo principio – che trova consonanze anche nel pensiero cinese secondo il quale tutto nell’universo, comprese le idee, è strutturato in coppie di opposte polarità ognuna dei quali è essenziale per la comprensione di una cosa o di un’idea – spiega tantissimo della poetica di Joyce, ma non tutto.
Spiega ad esempio perché nell’Ulisse Bloom rappresenta una sorta di essere androgino, maschio e femmina al contempo. Spiega la coesistenza di tutti i vivi e i morti nel finale di quello che è sicuramente tra i racconti più belli mai scritti, The Dead. Spiega la coincidenza di sacro e blasfemo in Stephen Dedalus, e molte altre cose.
Ma la cosa più importante, da cui deriva la simultaneità, è l’aspetto circolare del tempo: Joyce ha strutturato la sua opera secondo i corsi e ricorsi vichiani.
Non spiega invece gli esiti successivi di quella poetica, soprattutto se riferiti alle grandi intuizioni del Finnegans Wake. Non spiega ad esempio perché sia considerato un testo frattalico, o perché abbia inizio prima che la Storia abbia inizio. Per questioni tanto sottili c’è bisogno anche di altro.
Ho iniziato a ragionare su tutto ciò durante un viaggio in Estremo Oriente per tenere un corso universitario proprio su Joyce. Una delle lezioni riguardava un episodio chiave del Finnegans, l’incontro-scontro tra San Patrizio e l’Arcidruido. Lo troviamo tra pagina 611 riga 4 e pagina 613 riga 14. È uno dei primi composti da Joyce, ma nel libro si trova a 15 pagine dalla fine. Come mai? Perché vi è tornato dopo tanti anni, e l’ha rivisitato completamente. Quando decise di rimettervi mano, Joyce si era convinto di qualcosa di importante: che le radici della religione irlandese fossero orientali e non occidentali. Ma come? Non era stato San Patrizio, secondo la leggenda, a convertire l’Irlanda intera spiegando a quei celti pagani il mistero della Trinità tramite un trifoglio? E ora, di quel padre del cristianesimo irlandese, Joyce ne parla come di un mistico orientale?
La realtà è che, nel periodo delle famose revisioni, l’irlandese aveva ripreso in mano una vecchia passione, quella per le filosofie e le religioni orientali a cui era stato esposto da giovane quando era in contatto con persone legate a circoli occultistici. Ora però faceva sul serio. Si procurò una copia di Maya der indische Mythos di Heinrich Zimmer e la annotò fittamente. Contiene, quel libro, molti riferimenti puntuali al Buddismo. Fu poi a contatto, Joyce, con uno studente che gli spiegò il valore figurativo di certi ideogrammi da lui considerati rivelatori per la storia che stava scrivendo.
Lavorò molto e sodo, e i risultati si vedono: secondo i miei calcoli nel libro abbiamo 229 occorrenze di parole o concetti cinesi, 119 riferibili alla lingua e alla tradizione giapponese, e 117 al sanscrito e ai testi originariamente composti in quell’idioma. Figurano poi due riferimenti a Lao Tse o Lao Tzu, il grande pensatore cinese e fondatore del Taoismo secondo cui l’intero universo è all’interno di ogni cosa o persona che lo compone: un’idea compatibile con l’ipotesi che il Finnegans sia un libro frattalico, in cui il tutto è in ogni parte.
Ma la cosa più importante, da cui deriva la simultaneità, è l’aspetto circolare del tempo, nel libro. Joyce ne aveva contezza in altri termini, avendo strutturato la sua opera secondo i corsi e ricorsi vichiani. Ma deve essersi poi convinto di una prospettiva più radicale: quella relativa al continuum temporale delle filosofie orientali, all’idea di un flusso continuo, ovvero una circolarità che nega rappresentazioni lineari.
La simultaneità esiste, ma non può essere misurata con esattezza. Di conseguenza, è possibile in teoria, ma una volta misurata nella pratica diventa impossibile: come nel rapporto tra vita e letteratura.
Tutte idee che già allora iniziavano a influenzare anche il dibattito psicologico e psicoanalitico. Molti degli addetti ai lavori erano fortemente attratti dalla filosofia e dalla religione orientale, che metteva in discussione in particolare il ruolo dominante di un intelletto organizzatore. La tradizione buddista vedeva la mente come la somma di tutte le percezioni sensoriali. Nel buddismo si distingue poi tra realtà assoluta e realtà relativa. Dal punto di vista della realtà assoluta, non c’è divisione tra soggetto e oggetto, come invece accade nella prospettiva della realtà relativa che tiene separati soggetto e oggetto.
La prospettiva della realtà assoluta è importante, ad esempio, negli approcci junghiani legati all’idea di Inconscio Collettivo. Qualcosa di simile, nella letteratura irlandese, lo ritroviamo in Yeats e nella sua Anima Mundi: ma anche in Joyce, nei teosofici registri akashici in cui nessun pensiero mai si perde. Lo vediamo nella natura infinita di Bruno, e poi nel panteismo del suo seguace e traduttore John Toland. In Joyce la simultaneità prende molte forme, a partire dall’accettazione delle contraddizioni: la incontriamo nelle prime pagine di Ulisse in una famosa citazione da Whitman, tanti decenni dopo ripresa nientemeno che da Bob Dylan:
I am a man of contradictions, I am a man of many moodsI contain multitudes.
La simultaneità parla di coincidenze non casuali, o anche a-casuali, come Jung chiamava le sincronicità. Nel Finnegans abbiamo persino le “cocoincidenze” (pagina 597 riga 1) e poi le “coincidanze” (pagina 49 riga 36), altri esempi lampanti di simultaneità. Ma Joyce sfida persino la scienza, in questo. Il suo Einstein diviene una macchia di vino (Winestain, pag. 149 r. 28) ma anche un occhio che scruta in una stia, oppure un occhio con un orzaiolo (Eyeinstye, pag. 305 r. 6): entrambi rispecchiamenti di Joyce, del Joyce alcolista e della sua vista sempre sofferente. Eppure, secondo Einstein e la sua la relatività speciale di Einstein, la simultaneità è relativa, poiché dipende dal punto di riferimento dell’osservatore: non si può dire in senso assoluto che due eventi distanti e distinti avvengano nello stesso momento. Se da un certo punto di riferimento assegniamo lo stesso tempo a due eventi che si trovano in punti diversi dello spazio, un punto diverso e in movimento rispetto al primo assegnerà tempi diversi ai due eventi. Ad esempio, due pinte di Guinness bevute nello stesso momento a Taipei e a Dublino, sembreranno bevute in tempi leggermente diversi se a controllarne la presunta simultaneità sia un terzo bevitore su un aereo da Dublino a Taipei.
Il che sembra dirci che la simultaneità esiste, ma non può essere misurata con esattezza. Di conseguenza, è possibile in teoria, ma una volta misurata nella pratica diventa impossibile. Come nel rapporto tra vita e letteratura. È sempre possibile, la simultaneità, ma in letteratura la verifichiamo perché le grandi opere dicono tante cose al contempo, mentre nella realtà possiamo soltanto ipotizzarla e crederci.
Riguardo a queste idee Joyce trovò consonanze nelle sue fonti orientali, fonti che applicò con diligenza. Nell’Ulisse ad esempio abbiamo un capitolo, detto “Lotofagi”, che al contempo ci parla dell’episodio omerico e del fatto che nel buddismo il loto è associato alla purezza e al risveglio spirituale, essendo il fiore considerato capace di riemergere puro dalle acque torbide.
La simultaneità esiste, ma non può essere misurata con esattezza. Di conseguenza, è possibile in teoria, ma una volta misurata nella pratica diventa impossibile: come nel rapporto tra vita e letteratura.
Qualcosa di simile era avvenuto con un altro grande artista, Samuel Taylor Coleridge, la cui poesia suprema, Kubla Kahn, mostra molti esempi di simultaneità: ogni immagine centrale porta con sé tutto il suo contesto, rivelando un universalismo sincretico per cui tutte le immagini si compenetrano. È quel che accade nel Wake, un libro in cui ognuno è qualcun altro. Ed è il motivo per cui l’opera è stata definita frattalica dagli scienziati.
E per quel che riguarda il rapporto con la storia del cosmo, ovvero di quel “caosmo” proposto da Joyce nella sua essenza al contempo ordinatrice e disordinante? Anche qui gli venne in soccorso l’Oriente. Nel Taoismo abbiamo infatti il ritmo del flusso costante e la continua trasformazione dell’universo, perpetua e simultanea: la produzione simultanea e perenne di tutte le cose. Nel Buddismo avevamo la simultaneità di causa ed effetto. L’intero cosmo, in breve, viene plasmato e manipolato simultaneamente e sincronicamente. Le sue dinamiche sono al contempo lineari e circolari.
L’arte tutta, che vive di mistero – e il mistero è tale soltanto se resta tale – annichilisce una divisione netta tra linearità e circolarità. È linearmente circolare, precisamente imprecisa, finitamente infinita. Vive di simultaneità, vere o presunte, perché le induce nella nostra mente interpretante: nella nostra mente che sa mentire, ma che sa anche dire il vero.
Dirlo, non verificarlo: perché il vero si può solo dire, nell’arte, quando il suo contrario è altrettanto vero (Wilde docet). E nell’arte i contrari coincidono. Tuttavia, nell’avvicinarla, nel tentativo di spiegarla (dispiegarla?), la simultaneità di cui essa si nutre svanisce, e noi ci ritroviamo nel mondo grigio del “questo o quello”. L’arte vera può esser commentata soltanto dal Silenzio.