“U
n luddista, che tenero” dice Carla a Savoy, poco dopo averlo conosciuto. Savoy è un cinquantenne che vive di rendita a Buenos Aires. Passa le giornate assecondando la sua ossessione per le vite altrui: è appassionato di annunci immobiliari e case in affitto, con i loro scorci preziosi sull’intimità di chi le abita, acquista compulsivamente oggetti di seconda mano – rigorosamente ritirati dalle mani dei proprietari, che vi lasciano impressa l’impronta del proprio utilizzo – e si avventura persino su Chatroulette. Il protagonista di La metà fantasma, l’ultimo romanzo di Alan Pauls (Sur, traduzione di Maria Nicola) è analogico, territoriale, novecentesco.
Carla invece ha trent’anni e fa la house sitter, si prende cura cioè delle case per qualche settimana, in assenza dei loro proprietari. Schizza come una biglia da una parte all’altra del globo, è digitale, ubiqua, è il futuro. La metà fantasma racconta l’innamoramento improbabile tra Carla e Savoy. L’aspetto più interessante del romanzo – e così vale per gli altri libri di Pauls, a partire dalla sua trilogia della perdita: Storia del pianto, Storia dei capelli e Storia del denaro – è il modo in cui procede. I periodi di Pauls si sviluppano attorno a un’impressione o un dettaglio e poi si diramano in molti rivoli secondari, che nel loro incedere prendono forza fino a diventare il corso principale della narrazione, oppure si prosciugano del tutto.
Per rendere un’idea, ecco la descrizione che Pauls fa di Carla:
Suoi unici possedimenti erano un telefono e un computer, che rinnovava con regolarità. Tutto ciò a cui teneva trovava posto in una valigia formato cabina, il solo bagaglio che accettasse di portare ovunque andasse, indipendentemente dalla stagione dell’anno in cui doveva viaggiare e dalla durata del viaggio, un trolley di un turchese spento e sporco, sorprendentemente capiente nonostante le sue misure, che soddisfacevano i requisiti delle compagnie aeree più puntigliose, anche quelle a basso costo che, avide di recuperare il denaro perso con le tariffe, si facevano pagare senza pietà tutto il resto, dal privilegio di guardare dal finestrino fino alla possibilità di usare il bagno, passando per il diritto di camminare nel corridoio per evitare trombi alle gambe e perfino il dovere di allacciare la cintura di sicurezza, e scaricavano i passeggeri in aeroporti di provincia in rovina o ancora in costruzione, sperduti in località lontane dalla destinazione finale del viaggio quasi più del punto da cui il passeggero era partito, dai quali un taxi per il centro città finiva per costare di più, contando il pedaggio autostradale, del volo aereo acquistato a tarda notte per pochi spiccioli in un raptus di esaltata avarizia.
Sono frasi che procedono per accumulo e poi scartano, con accostamenti e analogie imprevedibili, accompagnando la progressione del romanzo con un moto ondivago: una lingua letteraria stratificata, resistente, resa con straordinaria duttilità dalla traduttrice Maria Nicola. Prima di passare alla conversazione che ho avuto con Pauls, cito un altro brano del libro. Savoy prova per la prima volta un autolavaggio a rulli e inebriato dall’esperienza abbraccia con il pensiero passato e presente, godimento e sofferenza:
Le forme citoplasmatiche, il moto ipnotico dei rulli, perfino la barra metallica della prima asciugatura, quella meccanica – che scendeva a scosse, come un automa rudimentale, e posava il suo alito asciutto e caldo sull’auto, a un pelo dal colpire la lamiera o mandare in frantumi il parabrezza: tutto era bello e inquietante ma anche torbido e lontano, versione virtuale, per adulti, delle attrazioni da luna park che nella sua infanzia lo avevano tormentato con le loro truculenze elementari, pipistrelli finti, scheletri danzanti, binari disseminati di trabocchetti, bare animate e la mira sempre mancata delle asce, che finiva invariabilmente per conficcarsi a pochi centimetri dal vagoncino su cui lui viaggiava, tribolazioni dalle quali emergeva tremante, con lo stomaco in subbuglio, e alle quali mezz’ora dopo, con il sale del pianto ancora in bocca, non vedeva l’ora di tornare. Credeva senza credere, soffriva senza soffrire, godeva senza godere. Se c’era un altro modo di farlo, a Savoy, almeno, non era toccato.
Vorrei parlare con te soprattutto di come scrivi i tuoi romanzi. La tua è una lingua letteraria, pura, che si dirama in un’infinità di digressioni, lampi di scene che prendono corpo in frasi robustissime. È come se la gerarchia tra dettagli e trama nei tuoi romanzi fosse completamente invertita. Da che cosa parti per sviluppare un libro?
Dipende moltissimo, ogni libro è diverso. Ci sono libri che nascono da una singola scena, altri che nascono da una frase o altri ancora che nascono già come progetti un po’ più strutturati nella storia. Quello che sicuramente è uguale per tutti è che il lavoro di scrivere effettivamente la scena, la frase, la storia è per me importante quanto trovarle. Non scrivo mai sapendo al cento per cento cosa scriverò, lo cerco e lo trovo lavorandoci. Per esempio Il passato, che è un libro molto lungo e strutturato, l’ho scritto seguendo una sorta di scaletta. Sapevo che volevo succedesse questo, questo e quest’altro, però la cosa che mi è piaciuta di più è stata scrivere la parte che avveniva tra un evento e l’altro, è lì che avveniva la vera scrittura. In questo senso credo che il mio modo di scrivere inverta un po’ la gerarchia, perché per esempio, in quel caso, tutte le transizioni, tutto ciò che avveniva tra un avvenimento e l’altro, per me è diventato il nocciolo duro del libro, mentre gli eventi in sé sono passati completamente in secondo piano.
Nel caso di La metà fantasma com’è andata?
In questo caso il punto di partenza è stata la scena di due amanti che parlano su Skype. Una persona è a casa sua mentre l’altra è nel mondo, non sappiamo bene dove. C’era questo personaggio, Savoy, che parlava con la sua amata, ma continuava a guardare lo schermo del computer come se fosse un quadro e lui uno storico dell’arte: si concentrava sui dettagli del contesto.
Savoy è ossessionato dalle vite degli altri, affamato dei dettagli più piccoli e trascurati. Però anche nella trilogia della perdita ci sono protagonisti simili con un’ossessione su cui continuano a rimuginare. È questo genere di personaggio che influenza l’andamento del libro, la struttura ricorsiva dei dettagli, delle ossessioni? Oppure è il contrario: tu scrivi così e quindi ti servono dei protagonisti ossessionati?
Difficile a dirsi. Come scrittore ho una sensibilità particolare per questo genere di funzionamento mentale, percettivo, immaginativo e quindi ho bisogno di figure che possano incarnare quel funzionamento, quella debolezza se vogliamo. Io funziono così e mi piace scrivere romanzi perché credo di poter sfogare questa immaginazione a volte un po’ estrema, un po’ radicale, dentro le possibilità della narrativa. Però ho bisogno che questa immaginazione passi attraverso qualcun altro e che questo personaggio entri in relazione con mondi che in prima battuta gli sono estranei, gli oppongono resistenza. Credo che di questo siano fatti tutti i miei romanzi.
In La metà fantasma c’è Savoy, con il suo “sempiterno Novecento a fior di pelle” e Carla che è “il futuro”. I due personaggi si incontrano, si amano, emergono gli attriti tra queste epoche ma spesso finiscono anche per smussarsi. Mi affascina come riesci a racchiudere, spesso in una sola frase, passato, presente, futuro. Quando ti metti concretamente a scrivere quelle frasi, come fai a tenerle insieme?
Dunque, prima di tutto scrivo delle frasi lunghe; mi viene molto naturale, le prime frasi che scrivo sono sempre più lunghe del normale. Dopodiché scopro che nella frase c’è ancora spazio per qualcos’altro, quindi vado a inserire delle cose; poi mi sembra che ci sia
ancora spazio per qualcos’altro, quindi inserisco nuovi spezzoni. La frase piano piano si gonfia ed è come se io costruissi dei piccoli spazi al suo interno dove può succedere altro, può entrare un personaggio secondario, e così via. Penso alla frase come a uno spazio che può essere abitato e poi riabitato e poi riabitato all’infinito.
E poi in fondo mi sembra di avere il sogno di scrivere un intero romanzo in una sola frase. Ovviamente credo sia impossibile e forse anche un po’ stupido, però questa chimera continua ad affascinarmi e a spingermi a lavorare così. Credo che non lo farò mai, anche perché non sarei in grado di leggere un libro scritto in una sola frase, però ho quell’orizzonte, mi guida, mi fa un po’ da Nord.
Faccio un altro esempio, dal libro:
Savoy ricordava bene l’espressione di Renée, una delle sue più vecchie amiche, da poco separata, e non nel migliore dei modi, dall’uomo con cui aveva convissuto per sette anni in stato di costante minaccia, la quale, sentendosi incapace di pensare a nient’altro che non fosse il tenersi il più lontano possibile dal mostro, così lo chiamava, ma al tempo stesso incapace di allontanarsi da lui, aveva delegato a Savoy, non tanto per fiducia quanto per sfinimento fisico e mentale, il compito assolutamente al di sopra delle sue forze di trovare un posto dove vivere, qualcosa che fosse insieme il rifugio di cui avevano bisogno il suo corpo e la sua anima devastati da sette anni di calvario e l’oasi dove la sua voglia di felicità e il suo entusiasmo, in fondo intatti, potessero intravedere un possibile futuro, al riparo da mostri come quello che le aveva reso la vita impossibile – Savoy ricordava ancora la sua espressione di stupore, di assoluta incredulità, il tipo di sgomento che può suscitare solo l’incomprensibile, quando aveva scoperto di persona, con i propri occhi, la soluzione che lui, che con tanta enfasi gliel’aveva venduta – per usare il gergo immobiliare che amava citare –, aveva giudicato ideale per lo stato letteralmente disastroso in cui si ritrovava dopo la separazione, e per di più in un’età in cui, con la dura erta dei cinquant’anni che si profilava all’orizzonte, l’ottimismo non è quel che si dice all’ordine del giorno.
In questa frase, in un solo respiro di una quindicina di righe, entra in scena un personaggio secondario, Renée, con il suo trascorso sentimentale, si manifestano le scelte idiosincratiche di Savoy in fatto di appartamenti, una riflessione sull’età getta una luce sinistra sul futuro – e aggiungi anche una frecciatina al gergo immobiliare. Ti capita mai invece di scrivere una frase in cui ti accorgi che c’è troppo?
Mi è successo in questo romanzo, dove ho corretto moltissimo dopo la prima stesura. Di solito non correggo quasi nulla, scrivo molto lentamente ma quello che scrivo poi rimane quasi intatto. Invece in questo caso ho lavorato molto di correzione. Le cose che ho tolto erano più che altro elementi retorici, non fondamentali all’interno delle singole frasi. Sono andato a sfoltire dove mi sono fatto tentare un po’ troppo dalla scrittura stessa, perché c’è sempre il pericolo che queste frasi così lunghe, espansive, virtuose diventino kitch. Lì sono intervenuto.
Con questo modo di scrivere potresti andare avanti all’infinito in un romanzo, sia ampliando la frase che i moti ricorsivi. Quando ti accorgi che è il momento di finire?
Di solito quando non mi interessa più quello che sto scrivendo, quando non sento più la curiosità di cosa verrà dopo e rischio di ripetere dei meccanismi. Mi fermo quando la scrittura, anche in senso musicale, diventa un automatismo.
Ti preoccupi di bilanciare la progressione della vicenda con le varie digressioni?
Odio l’idea del bilancio, odio la letteratura bilanciata. Preoccuparsi che una cosa sia bilanciata rispetto all’altra, compensare… per me la letteratura non funziona così. Credo che la letteratura lavori in modo molto radicale, se si sbilancia lo deve fare totalmente. Ovviamente in questo è super anti-economica. Sbilanciarsi è andare incontro a un pericolo, c’è il rischio di essere noioso, il rischio che tutto vada a rotoli, ma credo che senza questo pericolo non abbia senso scrivere. Se ci mettiamo a scrivere con l’idea di dover bilanciare ogni elemento si può arrivare a un bel esercizio di controllo sulla scrittura, ma non si produce buona letteratura. I progetti più assurdi, pazzeschi e sbilanciati mi sembra che siano sempre in bilico tra il disastro assoluto e la genialità. Quell’incrocio è la cosa che mi interessa di più in assoluto.
Spesso ti paragonano a Proust, e il motivo è evidente. In un’intervista ho letto che hai deciso di passare un anno intero a leggere soltanto Proust e che quando hai finito eri uno scrittore diverso. Che scrittore eri prima e perché hai scelto proprio Proust?
Avevo un principio importante: per scrivere romanzi bisognava troncare con la vita reale. Prendere la vita, metterla da parte e chiudersi a scrivere. Credevo che quel taglio netto con la vita fosse il romanzo stesso. Dopo Proust ho imparato appunto la lezione proustiana, cioè che la vita e l’arte si mescolano completamente, si invadono a vicenda, si contaminano, si sfigurarono, e che scrivere significa trovarsi in quella zona di confine, in quella porosità. Sono passato da un regime completamente impermeabile a un regime poroso. E non sono diventato solo uno scrittore diverso, ma anche una persona diversa.
Ti è ricapitato con altri scrittori?
No, in realtà no, perché credo che Proust sia unico da questo punto di vista. Proust non scrive né d’arte né di vita, ma della relazione tra arte e vita. Nessuno scrittore occidentale contemporaneo, almeno che io conosca, ha scelto come oggetto della propria letteratura questa relazione, né ci ha costruito un progetto tanto demenziale, assurdo, quanto la Recherche.