L a sua era una famiglia pacifista; i Vonnegut erano sempre stati liberi pensatori. Kurt rimase fedele alla sua posizione contraria alla guerra molto dopo che quasi tutti gli altri avevano ceduto al bellicismo patriottico. In un articolo per il “Sun”, difese l’impopolare isolazionismo di Charles Lindbergh. In un altro criticò l’estremo pregiudizio antitedesco dei media statunitensi. In seguito si scagliò contro Wendell Willkie, «yo-yo politico dello Stato dell’Indiana», perché aveva caldeggiato l’apertura di un secondo fronte. Non era a favore dei tedeschi. Era contro la guerra. Sì, discendeva da una lunga schiatta di tedeschi; suo nonno aveva progettato lo splendido circolo ricreativo di Indianapolis, che in passato si chiamava Das Deutsche Haus. Sull’onda del sentimento anti-tedesco suscitato dalla prima guerra mondiale, tuttavia, il circolo era stato ribattezzato The Athenæum. Nella sua famiglia, però, l’appartenenza etnica contava meno dell’etica, dell’intelletto e dell’arguzia.
Kurt aveva imparato presto che per un terzogenito il modo migliore di farsi sentire a tavola era una battuta. Divertire i familiari era l’unica maniera per costringerli ad ascoltarlo senza interromperlo. Inoltre, il fratello era geniale e la sorella bella e dotata di un’indole artistica. Non poteva competere né per intelligenza né per talento né per fascino. Perciò aveva coltivato la propria tendenza all’umorismo, e questo gli fece gioco al “Sun”. Anche se non sempre condividevano i suoi pensieri isolazionisti, i compagni della Cornell apprezzavano il suo stile brioso. Nel marzo del 1942 fu nominato vicecaporedattore del giornale.
Se ne vantò con Jane Cox. Stava sempre cercando di fare colpo su di lei. Si conoscevano dalla più tenera infanzia. In un certo senso era la sua migliore amica. In lei ritrovava aspetti – immaginazione, ambizione, idealismo – che vedeva in sé stesso. Si sarebbero sposati e avrebbero avuto una vita idilliaca, piena di libri, musica, conversazioni intelligenti e prima o poi figli: sette, per la precisione. Lui ne era sicuro, in cuor suo lo sentiva, anche se Jane, occupata a brillare negli studi a Swarthmore, a calcare il palcoscenico e a uscire con una sfilza di giovani papabili, non ne era ancora convinta. Lui glielo scriveva in continuazione nelle lettere che le spediva. Lei era di volta in volta incoraggiante e lontana. Era un incubo andare d’accordo con Jane, ma lui l’amava e l’avrebbe sempre amata. Aveva deciso che si sarebbero sposati nel 1945. Lo scrisse in uno dei suoi articoli.
Prima che partisse per l’Europa, divennero amanti.
Kurt Vonnegut non era a favore dei tedeschi. Era contro la guerra.
Alla Cornell Kurt passava il suo tempo a lavorare al giornale, a scapito di tutto il resto. I voti nella sua materia principale – la chimica – ne risentirono. Si sarebbe dovuto guadagnare un incarico da ufficiale nel Reserve Officers’ Training Corps (ROTC), ma lo sbatterono fuori dopo che aveva scritto un articolo irriverente: Facciamo colpo sulla rivista “Life” con il nostro efficiente contributo alla difesa nazionale. Nell’articolo sosteneva che, benché lui e gli altri ragazzi del Rotc non avessero idea di cosa stessero facendo, durante la visita di un fotografo di “Life” avevano corso valorosamente di qua e di là e smontato un fucile urlando parole a vanvera come «Appiattitore! Bloccabiglio!» per sembrare soldati di prim’ordine. Il ROTC non lo trovò divertente. Non era la prima volta che Kurt irrideva gli sforzi bellici degli studenti universitari. In precedenza aveva scritto un articolo sotto forma di lettera indirizzata al dipartimento militare da parte degli zoologi del college, che si dichiaravano pronti a prestare servizio al pari degli ingegneri chimici e dei reparti d’avanguardia.
«In prima linea l’ufficiale comandante dirà “Vontegal… che diavolo di farfalla è questa” e noi saremo gli unici della trincea in grado di rispondere. È così che si vincono le guerre!». In un certo senso questa era una frecciatina nei confronti del fratello Bernard, che partecipava allo sforzo bellico. Gli avevano chiesto di lasciare il suo impiego di prima della guerra e di tornare al MIT per lavorare nel laboratorio del Servizio chimico militare. Per questo era esonerato dalla leva. Non poteva dire ai familiari su cosa stesse lavorando, ma loro erano fieri di lui; erano sempre fieri di Bernard. Come poteva Kurt non farsi beffe dell’idea che gli scienziati avrebbero vinto la guerra? Del resto, prendersi gioco di Bernie era praticamente l’unico modo che aveva per ottenere un vantaggio su di lui. A maggio del secondo anno i voti di Kurt erano così bassi che lo misero in prova. Lui minimizzò le proprie disgrazie in un articolo intitolato Il battaglione perduto subisce un pesante bombardamento. Il battaglione perduto era lui.
Perché non cambiava materia, passando a inglese o a giornalismo? Era un giornalista fino al midollo. Le ore più felici a Ithaca erano quelle passate a rivedere il “Sun”, così come a Indianapolis erano state quelle passate a rivedere lo “Shortridge Echo”, il primo quotidiano di una scuola superiore del paese. Quell’esperienza l’aveva convinto che non solo gli piaceva lavorare per un giornale, era pure bravo. Alla fine delle superiori era perfino riuscito a farsi offrire un lavoro all’“Indianapolis Times”. Voleva accettarlo. Tuttavia, una carriera da giornalista non era quello che il padre e Bernie avevano in mente per lui.
Ma perfino Kurt stentava a immaginare di potersi mantenere scrivendo. Avrebbe dovuto fare qualcos’altro per sfamare i loro sette figli. Bernie sapeva che cosa doveva fare Kurt: diventare uno scienziato, come lui.
Certo, Kurt senior e Bernie erano d’accordo, il giovane Kurt sapeva scrivere ed era divertente – il pagliaccio della famiglia, il pagliaccio della classe –, ma una volta concluse le superiori era arrivato il momento di fare sul serio. A un certo punto Kurt pensò che gli sarebbe piaciuto diventare architetto, come il padre e il nonno Bernard, che aveva progettato l’Athenæum. Il sontuoso palazzo era ancora il cuore della comunità tedesco-americana di Indianapolis e da bambino Kurt aveva trascorso molte serate ad ammirare le elaborate opere di carpenteria e le finestre con i vetri a piombo, mentre gli adulti parlavano, ballavano e ascoltavano musica. Doveva essere piacevole creare qualcosa di così bello. Ma questo era prima che la Grande depressione rovinasse suo padre. Dopodiché, Kurt senior, scoraggiato, non ne volle sapere che il figlio seguisse le sue orme. Fa’ quello che ti pare, disse risentito, eccetto l’architetto.
Da giovane, il sogno di Kurt – condiviso con Jane – era scrivere. Fantasticavano entrambi di fare i corrispondenti in Europa. A volte, quando Jane stava al gioco, immaginavano la casa in cui avrebbero vissuto: un cortile con una quercia al centro e uno studio sul retro dove, seduti vicini, avrebbero battuto a macchina capolavori. Ma perfino Kurt stentava a immaginare di potersi mantenere scrivendo. Avrebbe dovuto fare qualcos’altro per sfamare i loro sette figli. Bernie sapeva che cosa doveva fare Kurt: diventare uno scienziato, come lui. Perciò lui e il padre decisero che Kurt jr avrebbe studiato chimica. Era un campo di studi utile, pratico. Kurt non era necessariamente in disaccordo. Come loro, credeva nella scienza. Disse a Jane che forniva più risposte alle domande della vita di materie come la psicologia e la filosofia. La scienza avrebbe reso il mondo un posto migliore. Se voleva far parte di quel futuro utopico doveva seguire il consiglio fraterno.
Bernie e il padre pensavano che Kurt jr non avesse la stoffa per il MIT, perciò scelsero la Cornell. Quando sembrò che quell’università non l’avrebbe preso, Bernard accompagnò il fratello a Harvard, dove ottenne un’accettazione provvisoria. Poi però la Cornell offrì un posto a Kurt, e Bernard pensò che lì si sarebbe divertito di più. In seguito Kurt avrebbe detto che quella «era la sua idea di me, un po’ di terz’ordine».
Così, nell’autunno del 1940, Kurt andò a studiare chimica alla Cornell. Ma non era uno scienziato nato come Bernie. Il lavoro in aula non lo catturava. Non come la scrittura. Perciò ignorò le lezioni e fece quello che lo rendeva più felice: tirare tardi nell’ufficio del “Sun”. Non si rimise in carreggiata nemmeno dopo l’avvertimento della primavera del secondo anno. Per le vacanze di Natale del terzo rischiava la bocciatura. A casa si buscò una polmonite e decise di non tornare all’università. Ma era quasi il suo turno di essere chiamato alle armi. A marzo del 1943 si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti.
Ora quella serie di avvenimenti si riduceva a questo: il soldato Kurt Vonnegut jr era un prigioniero di guerra.
Un estratto da I Fratelli Vonnegut di Ginger Strand (Treccani, 2023 – l’editore di questa rivista).