U n giorno un uomo si sveglia e trova tracciata sulla porta d’ingresso della propria abitazione una croce. Più tardi per strada incontra un tizio strano, bieco, tale Asfragisto, che gli ingiunge misteriosamente di andarsene da casa lasciandoci dentro tutti i suoi possessi ed effetti personali. Non solo: l’uomo dovrà andare a vivere nella casa di uno sconosciuto: “Subentrate, in tutto, diventate la persona che abbiamo fatto sloggiare”. Asfragisto, che ha esposto il suo piano sorseggiando sambuca al tavolino di un orrendo bar di quartiere, intende a sua volta diventare la persona che sta sfrattando – il nostro protagonista – e impossessarsi delle cose sue tutte: “Tutte le vostre cose belle, le vostre collezioni, i vostri quadri, la vostra tana-museo, come potrei godermeli se non fossi voi? Dunque lo vedete anche voi, che dovete andarvene”.
L’ultimo libro di Michele Mari, Locus desperatus, pubblicato per Einaudi ad aprile di quest’anno, è un’ininterrotta, a tratti frenetica danza macabra in onore alla perdita: degli oggetti e dei cimeli del passato, della memoria come dispositivo di identificazione e, in definitiva, dell’io e dei suoi feticci. Strano fatto per Mari scrivere per celebrare non le cose ma la loro perdita. Eppure, qui è così: crolla la fiducia negli altari, si fa strada un’onda famelica che tutto travolge in un convulso non so.
In questo labirinto disperato, l’unico filo d’Arianna possibile sembra sia l’estro della lingua.
Tra le pagine un personaggio narrante tremendamente indeterminato parla di sé in prima persona facendosi largo, a forza di parole, nel magma di un universo privato in sfacelo. In questo labirinto disperato, dove più nessun oggetto fisico o psichico vale a trovare una strada per ritornare a ciò che era (non più le cose, tantomeno la memoria), l’unico filo d’Arianna possibile sembra sia l’estro della lingua, come accade nella vertiginosa sequenza di etimologie all’inizio del romanzo, dove a suon di associazioni foniche la voce narrante ripercorre i destini dell’umanità in una mirabolante parabola che, grottescamente, prende avvio da una pisciata.
A casa, mi disposi alla minzione: minsi. La parola glande, una ghianda. La raccolta delle ghiande, una
lectio. Lego legere, mettere insieme le lettere e dunque leggere, mettere insieme le norme e dunque stabilire la legge, che poi lex viene anche da ilex, che è la quercia, che sono le ghiande. Ma lego fa anche legare, che è avvincere come si avvince col vinco o vincastro il fascio di spighe, e però anche imprigionare e punire allontanando dal consesso dei giusti, che fe’ Zeus coi Titani relegandoli nel Tartaro buio, e relegare è legare più forte, come son le pagine di un libro e com’è religione, ch’è timore del potere di Zeus che è Ious cioè jus che ancora è legge e norma tremenda del giusto. Ma da jus anche jugum, ch’affratella le bestie all’aratro, e coniugium, ch’unisce gli umani ed è la famiglia: che mangiava le ghiande e mangerà il frutto dell’aratura, il raccolto, la lectio… E dunque, se la storia dell’umanità sta in una ghianda (di glande in glande), perché la mia non poteva stare in quel certo oggettino in fondo al quarto cassetto dall’alto di quel dato mobile in quella data stanzuccia?
L’unicità della prosa di Mari si regge su tre assi portanti: erraticità fabulatoria, preziosismo linguistico e umorismo grottesco. Com’è facile notare dalla citazione, questi elementi si mantengono anche in Locus desperatus. Eppure, quest’ultimo segna nella produzione dell’autore uno scarto decisivo, chiudendo l’epoca del Mari proustiano. I suoi libri precedenti erano inni ai simulacri di un io euforico che si stemperava nella sprezzatura dell’ironia postmoderna. La produzione del soggetto avveniva con la celebrazione umoristica delle cose del tempo perduto, rievocate a distanza nel museo privato della malinconia del ricordo. Ora invece si avvera ciò che in Tu, sanguinosa infanzia (1997) veniva scongiurato come il male peggiore di tutti dalle parole del padre di Michele:
Infatti è così,
scompaiono. Tutto il segreto sta nel non distrarsi mai, mai abbassare la guardia… sapere sempre cosa si ha, dove lo si ha… E ciò che hai amato anche solo un mattino, tenertelo stretto fino alla morte. Tenere, tenere, tenere…
Il procedimento psichico che ha alimentato il fervore creativo di Mari è quella particolare forma di nevrosi che, in Il tempo vissuto (1933), lo psichiatra francese Eugène Minkowski chiama “topicizzazione” del ricordo, cioè la reificazione del passato in un luogo visitabile e ripercorribile all’infinito, che soddisfa e frustra a un tempo, in una dialettica tra rievocazione e perdita sfociante nell’angoscia. In Locus desperatus questo congegno si inceppa: gli oggetti del ricordo e la casa-museo che li conteneva si ribellano al loro possessore e lo espropriano, lo estromettono, costringendolo a un vacillamento identitario che lo porta a non avere più consistenza.
Locus desperatus segna uno scarto decisivo, chiudendo l’epoca del Mari proustiano.
Non solo il protagonista e gli oggetti: pure tutti gli pseudo personaggi che compaiono nel libro – da Asfragisto a Procopio, da S*** a Sileno, fino all’urna stessa che contiene le presunte ceneri della madre – non sono altro che entità incerte, in parte provenienti dal passato ma sempre indeterminate e precarie, il cui statuto non giunge mai a una consistenza che sia meno rarefatta di quella degli incubi. Non sono fantasmi ma “ultracorpi”, dice il narratore: hanno “un corpo, ulteriore ma corpo, e se lo vedi c’è, […] e mette in discussione te, che hai pochissimi secondi per decidere se fidarti o non fidarti, scioglierti nell’abbandono o catafrangerti”. L’intero romanzo è popolato da queste entità dallo statuto indecidibile, sopra le quali non è possibile far altro che apporre una crux desperationis, come quella che un mattino compare senza spiegazioni sulla porta d’ingresso dell’appartamento del protagonista.
Poteva darsi che… sì… che la croce sulla mia porta volesse segnalare me, la mia abitazione, le mie cose, come
locus desperatus: ma proprio per questo – in quanto incurabile – non sostituibile, perché qualsiasi sostituzione, come nella prassi disinvolta di filologi fantasiosi, avrebbe ulteriormente peggiorato le cose.
L’angoscia della perdita, che in ogni romanzo di Mari aveva animato il trionfo degli oggetti, si traduce qui in un terrore ontologico dovuto all’indecidibilità sullo statuto di personaggi, cose e apparizioni. Se in precedenza, in Mari, il manierismo linguistico era funzionale alla celebrazione dei ricordi reificati nelle cose e nei luoghi, qui la lingua è fondamento perturbante di un soprannaturale grottesco e minaccioso, dove le atmosfere orrorifiche sono l’esito del collasso dell’architrave che aveva sorretto fino a prima la scrittura: la consistenza del significante, cioè dell’oggetto-significante come pista simbolica di recupero del passato (dell’infanzia) a garanzia della propria identità. Siamo davvero lontani, estremamente lontani, da Tu, sanguinosa infanzia.
Locus desperatus è un’opera intrisa di soprannaturale. Per definire la forma assunta dal fantastico nelle pagine del romanzo, è possibile riprendere le teorie di Francesco Orlando contenute in Il soprannaturale letterario (2017) e gli appunti di Orazio Labbate raccolti in L’orrore letterario (2022) su un precedente libro di Mari, Fantasmagonia (2012).
A partire da Per una teoria freudiana della letteratura (1973), l’assunto cardine dell’insegnamento di Orlando si fonda su Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905). La sua idea è che, come nella battuta scherzosa vigono deroghe alla morale condivisa e hanno cittadinanza istanze rimosse altrimenti impronunciabili in un discorso serio, così il testo letterario è un luogo immaginario dove prende voce la parola dell’Altro che è in noi e fuori di noi, vale a dire contenuti repressi dalla società nel dato momento storico della creazione dell’opera. Gli autori, in particolare i grandi autori, infrangono le cornici ideologiche del periodo storico dentro cui operano. Come il motto di spirito, la letteratura è una formazione di compromesso dove sono mobilitate istanze ideologicamente non ammesse dalla società.
Nei suoi studi sul fantastico Orlando definisce il soprannaturale letterario come “una supposizione di entità, di rapporti o di eventi in contrasto con quelle leggi della realtà che sono sentite come normali o naturali in una situazione storica data”. E propone una classificazione in diacronia, basata sul rapporto tra il credito e la critica che la voce narrante concede all’istanza fantastica. Il momento di svolta si situa, come in tutta la storia del pensiero occidentale, all’altezza dell’Illuminismo, nel Settecento. La logica della critica razionale vede come superati e inaccettabili i contenuti e le spiegazioni che sfuggono alla ragione: “il grande problema diventa se sia ancora possibile un soprannaturale dopo l’Illuminismo”. Curiosamente, è proprio questa l’epoca che dà i natali al romanzo gotico: Il castello di Otranto di Horace Walpole è del 1764 e I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe è del 1794.
L’angoscia della perdita si traduce qui in un terrore ontologico dovuto all’indecidibilità sullo statuto di personaggi, cose e apparizioni.
Di gotico nel romanzo contemporaneo negli ultimi anni si parla molto. Il misterioso e il fantastico – soprattutto se tinteggiati di atmosfere orrorifiche – sono i protagonisti di una nuova vogue che interessa tanto l’editoria quanto gli studi accademici. È sotto gli occhi di tutti la riscoperta di alcuni maestri del genere e autori emblematici come Howard Phillips Lovecraft e Mervyn Peake. Ma diversi sono anche i libri usciti in Italia nei quali il terrore ontologico e l’orrore teologico-esistenziale sono i motori primari della creazione romanzesca: Uno in diviso (2006) di Alcide Pierantozzi, Italia De Profundis (2008) di Giuseppe Genna, L’impero familiare delle tenebre future (2012) di Andrea Gentile, Il nemico (2022) di Emanuele Tonon – dei quali l’apripista può essere ritenuto Antonio Moresco con Gli esordi (1998). Tra le ricerche sul tema del gotico in ambito accademico basti ricordare gli studi di Fabio Camilletti (Guida alla letteratura gotica, 2018) e Italian Gothic (2023), a cura di Marco Malvestio e Stefano Serafini.
La domanda ora è: quali forme assume il soprannaturale in Locus desperatus e che rapporto hanno con il gotico? Per il carico spettrale di visioni tetre, popolate di incubi e trasalimenti che danno vita a una macabra sequenza di storie inquietanti, Fantasmagonia può essere considerato, nella produzione di Mari, il principale antecedente di Locus desperatus. Labbate afferma che il campo d’azione in cui trovano spazio i racconti del libro è la “normalizzazione e risoluzione del soprannaturale”. Il narratore è sì portavoce di un’istanza fantastica che appare come normale; tuttavia, al contempo, l’ultraterreno, pur pervadendo il nerbo dei racconti, viene disinnescato in un continuo cabaret arguto e luciferino. La razionalità colta e scaltrita della coscienza di chi parla limita con piglio illuminista la credibilità ontologica del soprannaturale, in un gioco ironico e capriccioso di narrazioni che risolvono il terrore nella caricatura ludica dell’inquietante.
Per Labbate, in Fantasmagonia “si registra l’enigma dell’orrore sul che cosa”. In altri termini, propone per Mari una classificazione del soprannaturale affine a quella che Orlando indicava in riferimento al gotico inglese ottocentesco rappresentato da Il giro di vite di Henry James. Secondo il teorico freudiano, ciò che dà vita al gotico inglese è la tematizzazione del dubbio sulla consistenza ontologica del soprannaturale. Riprendendo il saggio sul sublime di Edmund Burke – che dice “è la nostra ignoranza delle cose che genera la nostra ammirazione e suscita le nostre passioni” –, il teorico freudiano definisce il gotico sette e ottocentesco come un soprannaturale di ignoranza. Dopo l’Illuminismo, dunque, il gotico è la forma letteraria che segnala l’indecisione della razionalità di fronte a quanto con la ragione non si può spiegare, e il terribile orrore che caratterizza i racconti gotici è una conseguenza dell’incertezza su ciò che ha generato la presenza del fantastico.
Il soprannaturale incombe a minacciare la tenuta psichica del protagonista e a compromettere con lacune inspiegabili i ricordi e le collezioni di oggetti.
In Locus desperatus avviene qualcosa di diverso. Il soprannaturale incombe dalle prime pagine a minacciare la tenuta psichica del soggetto protagonista e a compromettere con lacune inspiegabili i ricordi e le collezioni di oggetti che adornano la sua memoria e la sua abitazione. Dalle croci che compaiono sulla porta d’ingresso a quell’indeterminato e sinistro Asfragisto che gli ingiunge di andarsene di casa, il soprannaturale piomba fin dall’inizio imponendo ex abrupto la sua logica impossibile da comprendere: a nulla valgono i capricciosi escamotage umoristici per mettere in scacco il fantastico. Quando, infatti, il protagonista tenta di darsi una spiegazione razionale all’apparizione delle croci, negando il prodigio attribuisce la comparsa dei segni a un dispetto dei condomini. Tuttavia, i falli, che per vendetta lui stesso disegna sulle porte degli altri appartamenti, oltre a non far cessare le croci, finiscono per gettare su di lui una patina di meschina ridicolaggine.
Il soprannaturale di Locus desperatus, dunque, direbbe Orlando, si impone sul racconto come “un pugno sul tavolo” ed è più forte dell’ironia e dell’umorismo: viene gettato sulla pagina senza che narratore e lettore possano farci nulla. Questo avviene, ad esempio, anche quando Sileno, il grottesco e maldestro nume tutelare che dovrebbe presidiare l’altra casa del protagonista (quella di campagna), appare sulla pagina. L’entità fantastica compare senza che la voce del racconto si interroghi sul credito da dare o negare a questa apparizione. Il narratore sembra essersi arreso al soprannaturale.
Più tardi, a sera, davanti al camino acceso, ipnotizzato dal guizzo delle fiamme e dal crepitìo della legna… un po’ bevuto, anche… cercando di indurmi un po’ di bella malinconia, ottocentesca, a molcer l’arsura di tanta indagine, a spargere stille di balsamico rore sul circuito arroventato dei nervi, ecco… mi imbambolavo così, antichizzandomi nello spirito della magione… quando, alla mia destra, dal basso,
poc… poc poc… bolle che scoppiavano… s’ciòf, questa piuttosto una pustola gonfia di siero, e infatti, Sileno… nero come il carbone, ma decorato dai riflessi ramati del fuoco, come fosse in livrea, però accucciato di fianco alla poltrona del signore, da vero molosso…
Questo procedimento di imposizione del soprannaturale come un qualcosa di cui non si sa nulla ma c’è – e condizionando l’intera narrazione è percepito come normale – è affine a quanto avviene, stando a Orlando, in La metamorfosi di Kafka. Gregor “è il soprannaturale egli stesso”. Come dice Orlando per Kafka, anche in Mari, dalla comparsa della prima croce in poi, “tutto – e questa è la cosa più terribile – [diventa] di colpo estraneo e ignoto”.
Più che al gotico ottocentesco, quindi, Locus desperatus è assimilabile forse a un certo modernismo angoscioso e claustrofobico il cui principale rappresentante è Kafka. In entrambi la narrazione è sorretta da un soprannaturale in un certo senso violento (che irrompe “come un punto sul tavolo”), accolto dalla voce narrante senza lo sconcerto che ci si aspetterebbe. Infatti, non è tanto l’impossibilità di dare una spiegazione razionale alle apparizioni di Asfragisto, Procopio, Sileno ecc. ad affliggere il protagonista: la loro natura fantastica non lo preoccupa; piuttosto, il precipitare in un gorgo di disperazione avviene solo quando si accorge delle lacune, inspiegabili anch’esse, che intaccano i feticci della sua identità (i libri, le targhette metalliche ecc.). La voce narrante, dunque, dà credito al soprannaturale e lo avverte come normale, al contempo tuttavia, lo critica e si arrovella in funambolici tentativi di spiegazione, ma solo quando sente che questo stesso soprannaturale è di minaccia ai feticci della sua identità.
È indicativo che a scongiurare le apparizioni fantastiche e le sparizioni inspiegabili siano non tanto la logica, l’ironia o l’umorismo, quanto una macumba che, per eliminare i nemici, il protagonista inscena a partire da un ulteriore feticcio di provenienza esotica: Nkonde, il quale viene affiancato, in qualità di nume tutelare e protettivo, a uno dei totem del ricordo più iconici nella produzione di Mari, la statuetta dell’omino Michelin già presente in Tutto il ferro della torre Eiffel (2002).
Un feticcio Nkonde alto circa cm. 30 (appartengono, questi feticci, alla cultura dei Kongo o Bakongo, un’etnia Bantu diffusa fra Congo ed Angola), ritualmente trafitto da un centinaio di grossi chiodi annodati fra loro da una corda: a impedire il male (una volta ingoiato dalla bocca spalancata) di uscire. Anzi, chi me lo aveva venduto tanti anni prima mi aveva spiegato che, quando arriva il male grosso, quello cattivo, scruta nell’ambiente per allearsi alle particelle di male che già vi aleggiano: ma vedendo Nkonde, il più delle volte decide che è meglio cambiare aria, e rinuncia, esimendo l’idolo dall’agire.
A differenza di quanto avveniva in Fantasmagonia, nell’ultimo libro di Mari il soprannaturale non subisce il disinnesco della critica umoristica. In Locus desperatus, per screditare il fantastico che minaccia la tenuta psichica dell’io protagonista, il narratore fa appello a un soprannaturale ulteriore, esotico, esorcizzando nel rito voodoo le apparizioni e le sparizioni che lo assillano. Come in Kafka, il soprannaturale si impone come normale: stabilisce e garantisce dalla prima pagina all’ultima la tenuta stessa del patto narrativo.
In Kafka il soprannaturale prende la forma di quella che Walter Benjamin chiamò allegoria vuota, una nozione che si profila a partire da Il dramma barocco tedesco (1926). Il filosofo delinea una continuità fra i procedimenti allegorici dell’arte barocca e quelli delle avanguardie moderniste. Dal Barocco in avanti, infatti, si assiste alla frattura tra significati universali (mitici o religiosi) e significati particolari. Non essendo più possibile l’organicità di una visione mitico-simbolica che contenga l’universale nel particolare, il significato si fa inaccessibile e il senso delle allegorie si svuota.
Come in Kafka, il soprannaturale si impone come normale: stabilisce e garantisce la tenuta stessa del patto narrativo.
La tesi fondamentale di Dialettica dell’illuminismo (1944) di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer è che, a differenza di quanto si prefigga, l’Illuminismo non sia altro che una radicalizzazione dell’angoscia mitica: “i miti che cadono sotto i colpi dell’illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso. […] Il mito voleva raccontare, nominare, dire l’origine: e quindi anche esporre, fissare, spiegare”. Pertanto, “come i miti fanno già opera illuministica, così l’illuminismo, ad ogni passo, si impiglia più profondamente nella mitologia”. L’esito è che “il mito trapassa nell’illuminismo”. Nell’Illuminismo non è il racconto delle origini a spiegare le ragioni dei fenomeni, quanto la ragione critica, ma è per il suo carattere “totalitario” – per la sua pretesa di circoscrivere nella ragione la totalità del reale – che l’Illuminismo stesso diventa mito.
L’allegoria vuota, che nel primo Novecento si compie nei racconti angoscianti di Kafka, segnalava, già all’altezza del modernismo, il crollo di quel mito illuminista e positivista che, quantomeno in letteratura, da Zola in poi pretendeva di esaurire la realtà nel realismo. Se davvero di allegorie vuote si può parlare anche in riferimento a Mari è una questione troppo articolata per essere affrontata qui. Tuttavia, basti rilevare che l’ultimo suo libro, come si è visto, segna l’esaurimento dell’ironia e dell’arguzia umoristica quali dispositivi critici di contenimento del soprannaturale. E poiché, riprendendo Orlando, in Locus desperatus non si rintraccia il soprannaturale di ignoranza tipico del gotico classico, bensì un soprannaturale di imposizione come quello kafkiano-modernista, per Mari è bene tenersi al di qua dall’uso di etichette di moda come quella di gotico contemporaneo. Piuttosto, è opportuno riflettere su quali siano, più in generale, nel romanzo contemporaneo, i punti di continuità con le forme e gli stilemi del modernismo, chiedendoci, a partire proprio dalla nozione di allegoria vuota, se davvero siamo mai stati moderni (Lautor docet).