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el suo secolo e mezzo di vita, Piccole Donne di Louisa May Alcott si è prestato a numerose letture, riletture, reinterpretazioni e adattamenti. È un classico della letteratura che parla a pubblici di epoche diverse e paesi diversi. Come può la traduzione conservare la freschezza senza tempo dell’originale? Ne ho parlato con Stella Sacchini, scrittrice e traduttrice di molti classici – per citarne alcuni: Jane Eyre, Martin Eden, Le avventure di Tom Sawyer e, appunto, Piccole Donne – in occasione dell’uscita della sua nuova traduzione di Piccole donne crescono (Gribaudo).
Nella nota alla traduzione in fondo al libro, sollevi la questione della doppia natura di Piccole Donne in quanto classico della letteratura per ragazzi e classico tout court. Quali scelte stilistiche e traduttive hai fatto per conservare entrambi gli aspetti?
La sorte toccata a
Piccole donne e alla sua autrice è una sorte che molti scrittori del suo tempo hanno condiviso, basti pensare a Mark Twain, diventato famoso soprattutto – o esclusivamente? – per i suoi libri per ragazzi, in primis
Le avventure di Tom Sawyer e
Le avventure di Huckleberry Finn, o a Jack London, che ha raggiunto la fama grazie a romanzi come
Zanna bianca o
Il richiamo della foresta. Queste opere non sempre sono nate, perlomeno non nelle intenzioni del loro autore, come opere per bambini o ragazzi. Per Louisa May Alcott si è trattata di una precisa richiesta del suo editore, Niles, che nel settembre del 1867 le propose di scrivere “un libro per ragazze”, condannandola a diventare non solo una scrittrice per ragazzi (e qui uso il maschile generico), ma un’autrice per il solo genere femminile, e di una precisa fascia di età. Partendo da queste premesse, c’è però, a mio parere, da superare una divisione che di fatto non esiste: quella tra la letteratura – e i classici –
tout court e la letteratura – e i classici – per bambini e ragazzi.
Quando mi proposero di tradurre Piccole donne per la UE Feltrinelli, l’idea editoriale che c’era dietro questa scelta andava proprio in questa direzione: il romanzo di Alcott non andava considerato “solo” alla stregua di un libro per ragazzi, ma come un grande classico, al pari di altri titoli della collana, come Jane Eyre o Ritratto di signora. Perciò, in linea con questa idea, ho deciso di mantenere i riferimenti alla cultura di partenza e, se necessario, di spiegarli con delle note in fondo al testo, cosa che non sempre è stata fatta per un libro come Piccole Donne (in alcuni casi i riferimenti culturali del testo di partenza sono stati del tutto eliminati, in altri lasciati senza però fornire spiegazioni al lettore). In linea generale, poi, non sono d’accordo con chi ritiene che un libro per ragazzi debba essere “semplificato” – razionalizzato e impoverito a livello qualitativo e quantitativo, per usare le categorie di Antoine Berman – allo scopo di renderlo più “accessibile”, più “vicino” al lettore di oggi. Piccole donne è un romanzo complesso, che va inquadrato nel contesto sociale che l’ha prodotto, per preservarne la lontananza e l’alterità. Per questo non si possono eliminare riferimenti storici e culturali, né ridurre la profonda stratificazione linguistica dell’originale a una lingua monocorde e piana. Certo, per il lettore di oggi alcuni riferimenti risulterebbero completamente oscuri e inaccessibili, per questo è fondamentale corredare il testo di un apparato di note. Ad esempio, è probabile che molti lettori non sappiano che cosa sia un Hansom cab o una “raganella”(prendo questi esempi dalla seconda parte di Little Women, in Italia noto come Piccole donne crescono, pubblicato da Gribaudo), per cui quando incapperà in queste espressioni potrà fare due cose: passare oltre per non dovere interrompere la lettura o fermarsi, “inciampare”, e andare a leggere la nota, imparando così qualcosa che non sapeva e acquisendo conoscenze che lo aiuteranno a calarsi meglio nel testo, a comprenderlo più in profondità.
La scrittura per Louisa May Alcott non è un passatempo, è un lavoro molto serio che le consentirà di riscattarsi da una precarietà economica che caratterizzò la sua vita fin dai primi giorni.
La prosa di Alcott è varia, ricca di espressioni vivaci, e il registro si alza e si abbassa a seconda di chi parla o che si tratti di pezzi narrati o discorsi diretti. Come hai affrontato questo aspetto in traduzione? Per alcune espressioni idiomatiche del testo originale esiste il corrispettivo italiano, per altre invece è necessario creare da zero un’espressione idiomatica. Come sei arrivata, per esempio, alla traduzione calzetta e salamelecchi per prunes and prisms dell’originale?
Alcott è una scrittrice molto dotata, la sua prosa raffinatissima. Non è una scrittrice “semplice” (ammesso che esistano scrittori semplici), come non è uno scrittore semplice Mark Twain. I loro romanzi sono molto piacevoli da leggere, ma molto difficili da tradurre. Chi non conosce la sua particolarissima vicenda familiare, le sue battaglie sociali, il femminismo, il contesto storico, potrebbe scambiarla per una tranquilla signora – anzi, signorina, perché, a differenza della sua Jo, lei non si è mai sposata – che si dilettava nella scrittura poco impegnata e impegnativa di romanzi per “ragazzine”. Niente di più lontano dalla realtà di una donna determinata a vivere del proprio lavoro, di una scrittrice ben conscia del fatto che la letteratura è un mestiere che richiede dedizione e perizia e ha regole tutte sue. La scrittura per lei non è un passatempo, è un lavoro molto serio che le consentirà di riscattarsi da una precarietà economica che caratterizzò la sua vita fin dai primi giorni. Senza conoscere questi aspetti della sua vicenda umana, è difficile comprendere appieno la sua vicenda letteraria. Questo non toglie che si possa comunque affrontare un romanzo come
Little Women per il semplice piacere di leggerlo: si resterà a un livello più superficiale di comprensione del testo, non si coglieranno alcuni riferimenti, ma sarà lo stesso un’esperienza godibilissima.
Tuttavia, il testo è stratificato, esistono diversi livelli di fruizione, rimandi intertestuali, isotopie, metafore estese che solo il lettore più consapevole riesce a cogliere. Ovviamente il traduttore può fare molto per restituire al lettore un testo che conservi il più possibile questa complessità, questa stratificazione. Lo può fare con le note, come dicevamo prima, ma è chiamato a farlo anche e soprattutto restituendo la grande varietà della prosa alcottiana, l’ironia che spesso permea la narrazione, i doppi sensi, i giochi di parole, la grande inventiva linguistica. In questo passaggio da una lingua all’altra ci sono cose più difficili da “salvare”, e di certo sono quelle più connaturate, più radicate, più proprie della lingua: i realia, i culturemi, gli idioms, gli errori. La difficoltà sta nel fatto che non c’è mai una vera corrispondenza fra le lingue, e il traduttore opera e si muove cercando di colmare continuamente questa sfasatura, questo slittamento. A volte si riesce a trovare qualcosa che funzioni bene anche nella nostra lingua, qualcosa che esiste già, a volte bisogna “inventarselo”, attraverso un gesto creativo ermeneutico: come a dire che è la lingua da cui traduciamo, con le sue strutture e le sue regole, ad autorizzarci a farlo. Venendo all’esempio, “prunes and prisms” è per l’appunto un idiom che indica un modo di parlare e comportarsi molto formale, cerimonioso e affettato ma anche bacchettone e moralista. L’espressione è stata usata per la prima volta da Charles Dickens nel romanzo La piccola Dorrit per indicare un modo di parlare consono e formale, adatto e consigliabile nel caso in cui il parlante sia una giovane donna.
If you want to become a proper lady, be sure to practice your prunes and prisms.
Mrs General, l’istitutrice di Dorrit, raccomanda alla piccola di non spalancare la bocca quando parla perché non sta bene in una donna. In italiano non esiste un “equivalente”, per cui ho dovuto crearlo a partire dalla nostra lingua: sono partita dal significato generale dell’espressione e ho provato ad applicarlo a Jo, visto che è lei a usarlo – qual è il destino di cui parla e a cui vorrebbe sottrarsi? Poco prima esprime il desiderio, come anche altrove nel romanzo, di essere un ragazzo, per poter godere di tutta la libertà riservata al genere maschile; così ho pensato quali fossero gli aspetti della vita di una donna che a lei vanno stretti, i modelli di femminilità da cui non si sente rappresentata e da cui prende le distanze: nella stessa pagina, Jo dice che è “stufa di badare alla casa e di starsene confinata lì dentro”, mentre in altri punti del romanzo rimprovera Amy di essere troppo “schizzinosa e rigidina” (in fondo un concetto non troppo lontano da quel prunes and prisms), di darsi troppe arie e di essere una mocciosa “tutti lezi e smancerie”. Insomma, Jo non vuole diventare né una casalinga senza aspirazioni né una donna che ama frequentare l’alta società e guarda più alla forma che alla sostanza. È a partire da questo ragionamento che ho scelto la traduzione “calzetta e salamelecchi”, che contiene, per l’appunto, due parole-mondo: la “calzetta” rappresenta il primo tipo di donna, i “salamelecchi” la seconda. Ed ecco che l’idiom diventa una specie di manifesto, per Jo.
Un discorso a sé meriterebbe la resa dei dialoghi: nella Nota alla traduzione di Piccole donne dedichi ampio spazio a questo aspetto. Come parlano le sorelle March e i personaggi creati dalla scrittrice? E come hai fatto per rendere la loro lingua?
È proprio nei dialoghi che Alcott dà il meglio di sé. Come ho scritto nella Nota, le sorelle March non parlano tutte allo stesso modo: ognuna ha il suo modo di parlare, dato dal carattere, dall’età, dal livello di istruzione. La scrittrice ci fornisce molti elementi in tal senso: Jo ricorre spesso allo
slang, e ama le parole che significano qualcosa, le parole corpose, che vanno dritto al punto, che hanno un certo peso specifico; Amy è l’esatto opposto, tanto che, all’interno del libro, viene soprannominata
Miss Malaprop (in traduzione “Miss Baglio”), proprio perché commette tantissimi errori esilaranti cercando di usare paroloni difficili e ricercati, come quando, all’interno del capitolo XI, definisce la zia March “una vera
sanguisorba” (in originale usa “samphire”, che vuol dire “finocchio marino”, al posto di “vampire”: qui, ad esempio, ho dovuto trovare un malapropismo che fosse degno dell’originale e, dopo molte ricerche, ho avuto la fortuna di imbattermi nel termine “sanguisorba”, che è una pianta, come il “samphire” di Amy, e nello specifico un’erba che veniva considerata capace di arrestare le emorragie e che, quindi, mi permette di restare nel campo semantico di “vampire”, del sangue, e poi richiama un altro termine che si può attribuire a una persona che risucchia le energie vitali di chi ha intorno, come la zia March, allo stesso modo di un “vampiro”, ossia la “sanguisuga”). Il rapporto tra Jo e Amy è piuttosto burrascoso e i loro scontri sono spesso veri e propri “diverbi”, ovvero, come vuole l’etimologia del termine, “dialoghi sul palcoscenico” della vita, e della letteratura, scontri verbali, accesi confronti tra due mondi linguistici, e quindi due modi di vedere la realtà: nel primo capitolo, a Jo che la rimprovera per aver usato una parola al posto di un’altra, Amy risponde, piuttosto piccata, “So bene quello che voglio dire, e vedi di non fare tanto la
spiritata (in originale “statirical” per “satirical”). È giusto usare parole più
cercate e migliorare il proprio
vocabilario (“vocabilary” per “vocabulary”)”; poche righe dopo dice “Jo si riempie la bocca di parole così volgari (
Jo does use such slang words)”, e Jo, in tutta risposta, caccia le mani nelle tasche del grembiule e comincia a fischiettare per provocare la sorella minore, che infatti la rimprovera dicendo “Detesto le ragazze maleducate e poco eleganti” a cui il maschiaccio di casa replica con la famosa battuta “E invece io odio le mocciose tutte lezi e smancerie”. In queste contrapposizioni linguistiche c’è tutto il carattere e il mondo interiore delle due sorelle March. Tra la lingua di Jo e quella di Amy si colloca quella delle altre due sorelle, che hanno caratteristiche meno vistose, meno estreme, ma possiedono comunque una loro specificità, una loro caratura. Tutto questo va reso in traduzione, attingendo a piene mani alla lingua neostandard, alla lingua colloquiale e popolare, nel caso di Jo (e ancor più di Hannah, la domestica di casa March), e inventandosi errori e imprecisioni che siano all’altezza dell’originale per Amy.
Nella seconda parte di Little Women (le nostre Piccole donne crescono) la lingua dei dialoghi si fa ancora più ricca e variegata, perché entrano in scena nuovi personaggi, e quindi nuovi mondi linguistici, tra cui Mr Bhaer, professore tedesco che Jo conosce a New York e che poi diventerà suo marito, e i bambini, in primis il piccolo Demi, il figlio maschio di Meg. Friedrich “Fritz” Bhaer, in originale, parla un inglese un po’ zoppicante infarcito di termini tedeschi: trovare, in italiano, una lingua che riproduca questa identità linguistica ibrida, costituita dalla sovrapposizione di lingue diverse, non è facile, e il rischio di ridicolizzare il personaggio facendolo parlare come parlano certi personaggi tedeschi nei film (doppiati), con la “p” al posto della “b” e la “t” al posto della “d” (pampini, tetesco), e quindi riducendolo a una macchietta, è altissimo. Ho quindi optato per una lingua poco fluida e un po’ innaturale, che desse l’idea della fatica di esprimersi in un idioma straniero non perfettamente padroneggiato; a tal fine mi sono servita di alcuni errori che spesso commette chi si trova a parlare in una lingua che non è la propria lingua madre, come i calchi semantici e lessicali. Ad esempio, quando Mr Bhaer propone a Jo di insegnarle il tedesco per ringraziarla di avergli rammendato i calzini di nascosto, Jo gli risponde che non vuole portargli via tempo, visto che è molto occupato, e poi aggiunge che per le lingue lei è un po’ “dura di comprendonio”, al che lui prende alla lettera questa espressione e replica, esordendo con un’interiezione che esprime disaccordo: “Prut! Noi troveremo il tempo, e anche comprendonio faremo più morbido. Ci vedremo la sera per una piccola lezione, e io sarò molto felice di questo perché, vedete, Segnorina Marsch, con voi ho un debito che voglio pagare […]. Sì! Avranno detto l’una con altra le mie signore gentili ‘Quel vecchio ricitrullito non si accorgerà di niente di quello che noi facciamo; lui non noterà che i calcagni di suoi calzini non fanno più buchi; penserà che i bottoni rispuntano per contro loro dopo che cadono, e crederà che le stringhe crescono da sole’. Ah! Ma io ho gli occhi, e vedono anche molto bene. Io ho un cuore e mi sento molto grato per questo. Vi prego, una piccola lezione ogni tanto, o se no… niente più fatine buone che fanno lavori per me”.
E poi c’è la lingua dei bambini, ad esempio quella di Demi, il figlio di Meg, che è piccolo e non sa pronunciare bene le parole. Nella resa della lingua dell’infanzia, che, come ha scritto George Steiner in Dopo Babele, non è “una versione inferiore ed embrionale” della lingua degli adulti, ma una lingua che ha una sua autonomia, una sua compiutezza, ho cercato di riprodurre quel “territorio linguistico” con una serie di espedienti: il raddoppiamento delle consonanti, soprattutto le labiali, e l’alterazione delle vocali (Demi dice “pappo” anziché “papà” – in inglese “parpar” al posto di “papa”); l’uso della terza persona singolare per riferirsi a se stesso (Demi non dice “io”, bensì “Demi”: “Anche Demi vuole tè!”) e delle frasi nominali (“Demi tanto bene pappo”, “adesso Demi buono”); la semplificazione di gruppi consonantici che richiedono un’articolazione più complessa (“biccottino” per “biscottino”, “guaddo” per “guardo”, “quetto” per “questo”, “potta” per “porta”); la difficoltà a pronunciare i fonema /s/ e /r/, spesso sostituiti rispettivamente con i fonemi /t/ e /l/, o in alcuni casi eliminati del tutto (“tì” al posto di “sì”, “ape” per “apre”, “davveo” per “davvero”); parole storpiate, a volte con esiti piuttosto divertenti, come “gnogno” per “nonno”, “cerbellino” per “cervellino”, “lologio” per “orologio”.
Tutto questo va fatto, ovviamente, con l’intento di creare una lingua che sia viva e credibile, anche se si tratta di dialoghi che appartengono a un libro scritto in un’epoca lontana dalla nostra: per rendere quella lontananza, quell’estraneità, non avrebbe senso creare a tavolino una lingua artificiale, che non è esistita in passato né esiste nel presente. Si traduce sempre inserendosi nella fluvialità della lingua in cui viviamo. All’interno di questa fluvialità cercheremo di trovare un equilibrio, perché anche l’estrema modernizzazione può costituire un rischio. Non credo che le sorelle March potrebbero mai dire “scialla” o “fuori come un balcone”, neanche Jo. Insomma, è un lavoro di cesello, un’impresa funambolica. Sbilanciarsi da una parte o dall’altra significherebbe precipitare nel vuoto. Il classico ha una vitalità tale che non agisce solo nel passato, ma anche nel presente, e attraverso il presente contribuisce a costruire il futuro: forte di questa consapevolezza, il traduttore deve essere disposto a correre molti rischi.
Si traduce sempre inserendosi nella fluvialità della lingua in cui viviamo: all’interno di questa fluvialità cercheremo di trovare un equilibrio, perché anche l’estrema modernizzazione può costituire un rischio. Non credo però che le sorelle March potrebbero mai dire “scialla” o “fuori come un balcone”, neanche Jo.
Sono pochi i passaggi in cui utilizzi termini più datati e meno in uso al giorno d’oggi (ad esempio rampognare per tradurre “to peck” o “empito melodrammatico” per il “melodramatic fit” di Laurie quando prende in giro Meg davanti finestra). In questi casi c’era qualche elemento del testo originale che ti ha portata a fare questa scelta?
In entrambi i casi l’utilizzo di termini più datati e di registro più alto è funzionale a conferire alla frase una venatura di ironia. Nel primo caso è Laurie a parlare: sta cercando di convincere Amy ad andare a stare dalla zia March perché Beth ha la scarlattina. Amy non vorrebbe andare e si lagna perché la zia è noiosa e intrattabile, così Laurie, per vincere le sue resistenze, le promette che la andrà a trovare ogni giorno e la porterà a fare un giro con il calessino, e poi, per creare una specie di complicità che possa aiutarlo a persuaderla, fa riferimento ai proverbiali rimproveri dell’anziana signora e lo fa in maniera ironica, per strappare un sorriso a Amy, e con il sorriso anche la promessa di trasferirsi dalla zia finché Beth non starà meglio. Ecco che l’uso del dantesco “rampognare” al posto di un verbo più comune come “rimproverare” o “sgridare” non soltanto rafforza il concetto (infatti la “rampogna” è un rimprovero vibrato e solenne, un’invettiva) intensificandolo, ma, dal momento che è un termine di registro alto, crea una sfasatura, uno straniamento, una sproporzione rispetto al contesto, e questa sproporzione conferisce alla frase una sfumatura comica, restituendo un’atmosfera presente nel testo. Inoltre, Amy è una grande appassionata di parole altisonanti, desuete, ricercate, e in questo modo Laurie, usando uno dei suoi amati “paroloni”, le fa un piccolo omaggio, che crea l’intesa di cui parlavo prima. Si può dire che con questa scelta ho potuto “compensare” quello che magari avevo perso altrove – l’ironia, la sfasatura di registri – applicando la famosa “legge della compensazione”, ben nota a chi traduce. Lo stesso discorso si potrebbe fare per “melodramatic fit”, e qui è lo stesso aggettivo (melodramatic) a indicarci che, come al solito, Laurie sta facendo il burlone: traducendo con “empito melodrammatico” di nuovo si crea un’increspatura nel tessuto narrativo, un’increspatura che assomiglia molto a quella che percorre il labbro di chi sta accennando un sorriso.
Il romanzo è costellato di brevi poesie, spesso in rima. Quale strategia hai utilizzato per la traduzione di questi componimenti? Cosa hai ritenuto più importante mantenere alle strette: la musicalità e le rime o il contenuto?
Trattandosi di piccoli componimenti o filastrocche, ho cercato di conservare il più possibile la rima, e di mantenere la musicalità e il ritmo dell’originale, più del contenuto. Penso ad esempio al Canto della saponata (in originale A song from the suds), contenuto nel capitolo XVI. Qui Jo, a corredo della sua lettera per la mamma, che ha raggiunto il padre in ospedale, scrive una piccola poesia, anzi, una “posiòla” (in originale c’è “pome” anziché “poem”), come dice lei stessa prima dei saluti, spiegando che l’ispirazione le è venuta mentre aiutava Hannah con il bucato. Sono cinque sestine, la rima è per lo più alternata: qui Jo gioca tra l’apparente solennità della forma e la comicità del contenuto. Per questo in traduzione è stato fondamentale rendere in primis la melopea, ossia la musicalità, il ritmo, e quindi conservare rime, assonanze e figure di suono. Un discorso a parte va fatto per la resa dell’elemento comico e parodico: il primo verso inizia con l’invocazione alla regina (“Queen of my Tub”, ossia “Regina del mastello”). È probabile che in questa filastrocca ci sia un’eco della famosa “queen Mab”, regina delle fate cantata da Mercuzio in Romeo e Giulietta di Shakespeare, per cui l’effetto comico, oltre che dall’ambientazione quotidiana e umile di un “Canto” in origine regale, è dato anche dal riferimento alla regina delle fate, che qui diventa la regina del mastello. In traduzione, un espediente per creare questa coloritura comica è quello di accostare termini di registro molto basso che descrivono azioni e oggetti umili, della quotidianità (“mastello”, “bucato”, “straccio”, “ramazza”, “risciacquo”, “strizzo”) a termini propri del linguaggio poetico codificato della tradizione italiana, storicamente di timbro alto. Da qui l’utilizzo, in alcuni punti, di un lessico raffinato e arcaizzante (“fora”, “sarìa”, “allor sì” ecc). Più che di un tentativo filologico, dunque, si tratta dell’evocazione di un’atmosfera, di un sentimento, che in questo caso si potrebbe definire pirandellianamente “il sentimento del contrario”.
Esistono moltissime traduzioni di questo classico. Prima di imbarcarsi in questo progetto di ritraduzione si è documentata sulle precedenti traduzioni? Cosa ti ha spinta a credere che ci fosse la necessità di dare una nuova interpretazione al romanzo?
Quando si traduce un classico si ha sempre a che fare con una lunga serie di colleghi che ci hanno preceduto. Il loro lavoro è una preziosa bussola, e di certo in alcuni casi è utile consultarlo, ma credo che sia fondamentale, soprattutto all’inizio di una traduzione, restare soli con la voce che stiamo traghettando alla nostra riva, altrimenti rischiamo di farci distrarre, come da un canto di sirena, influenzare, condizionare: troppe voci, e nessuna che sia la nostra, o meglio la nostra che segue le orme dell’originale. Per cui non guardo mai le traduzioni precedenti, quantomeno nel corso della prima stesura. Lo faccio a volte in fase di revisione, per confrontarmi ad armi pari con i colleghi che mi hanno preceduto, e vedere come hanno risolto quel dato problema traduttivo o reso quel passo.
Per quanto riguarda invece la necessità di una nuova versione dei due romanzi (Piccole donne e Piccole donne crescono), in questo caso direi che era quanto mai urgente, visto che esistevano poche traduzioni recenti, e le vecchie traduzioni soffrivano un po’ di quel “pregiudizio” di cui soffrono i romanzi cosiddetti “per ragazzi” o “per l’infanzia”. Ma più in generale la pluralità delle traduzioni è sempre un bene, è sempre una ricchezza, soprattutto se si tratta di un classico, un testo per sua natura caleidoscopico. Ogni traduzione è appunto un’interpretazione, e quindi ci restituirà un aspetto, un’idea dell’originale: per questo la traduzione è per sua natura sempre plurale: esistono tanti Martin Eden, tante Jane Eyre, tante Jo March, e sono tutte non solo possibili, ma anche necessarie, addirittura “salvifiche”.