O gni anno, in Europa, quasi 60 milioni di tonnellate di cibo finiscono nella spazzatura: oltre 130 chili per persona. Una parte consistente si accumula lungo la filiera, dalla produzione alla distribuzione, mentre l’altra metà si trasforma in scarto nelle nostre case, nei ristoranti, nelle mense. In Italia, ad esempio, l’industria del pomodoro genera ogni estate migliaia di tonnellate di bucce e semi che non per forza devono diventare semplici rifiuti. Oggi, grazie a nuove tecniche di estrazione sostenibile, da quei residui si possono infatti ottenere composti ad alto potere antiossidante, riutilizzati in alimenti, cosmetici o integratori: è la scienza dell’upcycling.
Numerosi studi ne evidenziano da anni la solidità e le analisi del ciclo di vita, nella maggior parte dei casi, segnalano un impatto ambientale positivo. Ma il cosiddetto upcycling alimentare, ovvero i cibi “rigenerati”, prodotti nati dal recupero di scarti o eccedenze alimentari, può essere una risposta efficace alla riduzione degli sprechi solo se si riesce a garantire sostenibilità dei processi, sicurezza del prodotto, misurazione dei risultati e opportune economie di scala. In tutto questo, come vedremo nel corso dell’articolo, la fiducia di chi consuma è un ingrediente decisivo. Non basta che un alimento sia sostenibile: deve anche apparire tale, e ispirare sicurezza. Superare queste resistenze richiede una comunicazione chiara e coerente: servono dati condivisi, confrontabili, raccontati in modo comprensibile, e un linguaggio capace di costruire fiducia più che distanza, spiegando come e perché certi ingredienti vengono recuperati, e quale valore aggiunto porta questa scelta.
Genealogia della circolarità
In ambito agroalimentare, il concetto di economia circolare non è certamente nuovo. Esistono da millenni pratiche agronomiche e di trasformazione alimentare orientate alla circolarità, anche a livello domestico: tradizionalmente si è sempre cercato di riutilizzare tutto, limitando lo spreco di prodotti non più salubri. Esistono molti esempi, nella storia dell’alimentazione umana, che si basano su un uso oculato delle risorse e dei cosiddetti prodotti di scarto alimentare: basti pensare alla ricotta, ottenuta dal siero residuo della lavorazione del formaggio; ma anche al riuso delle vinacce, cioè le bucce e i residui solidi dell’uva, che venivano e vengono ancora riutilizzate per produrre distillati o come combustibile. Si tratta, in tutti i casi, di forme di economia circolare ante litteram, che tendono a un principio di equilibrio tra ciò che si produce, si consuma e si restituisce al ciclo naturale.
Oggi circa la metà della superficie abitabile del pianeta è destinata all’agricoltura, e tra il 2000 e il 2022 la produzione di colture primarie è più che raddoppiata, generando una quantità crescente di residui e scarti lungo la filiera.
Da secoli, il modello economico dominante si fonda sul principio del take-make-dispose, traducibile in italiano come preleva, produci, consuma e getta. È un paradigma che ha plasmato l’agricoltura e l’industria alimentare, e che oggi mostra tutti i suoi limiti. Con una popolazione mondiale destinata a superare i nove miliardi di persone entro il 2050, non è più sostenibile continuare a utilizzare risorse naturali come se fossero infinite. Oggi circa la metà della superficie abitabile del pianeta è destinata all’agricoltura, per un totale di 48 milioni di chilometri quadrati di suolo, e tra il 2000 e il 2022 la produzione di colture primarie è più che raddoppiata, generando una quantità crescente di residui e scarti lungo la filiera. L’upcycling alimentare, come altre tecniche di bioeconomia, nasce dal bisogno di rivedere il rapporto fra produzione e consumo, in un’era in cui un terzo del cibo prodotto diventa scarto contribuendo al 58% delle emissioni di metano nell’atmosfera.
Nel panorama alimentare l’upcycling non è sinonimo di riciclo. Se riciclare implica il recupero di materia per usi differenti, l’upcycling la restituisce al cibo, reintroducendola nella filiera con un valore nutrizionale o funzionale più elevato.
Come funziona un ciclo completo
Valorizzare uno scarto, in ambito agroalimentare, significa prima di tutto conoscerlo: analizzarne la composizione nutrizionale per capire quali componenti possano essere recuperati e riutilizzati. Da qui parte un processo che unisce ricerca scientifica, tecnologie sostenibili e controllo della qualità. L’estrazione dei componenti utili avviene oggi attraverso tecniche che si stanno muovendo verso un sempre minore impatto ambientale, come l’uso di solventi green o processi biotecnologici basati su enzimi e fermentazioni controllate. È così che, per citare uno dei tanti casi di ricerca italiani, residui oggi poco sfruttati, come quelli della coltivazione delle giovani piantine di ortaggi (microgreen) raccolte pochi giorni dopo la germinazione, vengono trasformati in ingredienti funzionali per alimenti come pane o yogurt, o in molecole bioattive per nuovi prodotti.
L’upcycling può essere un valido alleato nel raggiungimento degli obiettivi globali di sostenibilità, come ridurre le disuguaglianze nell’accesso al cibo e rallentare il cambiamento climatico.
Le buone ragioni dell’upcycling
L’upcycling può essere un valido alleato nel raggiungimento degli obiettivi globali di sostenibilità, come ridurre le disuguaglianze nell’accesso al cibo e rallentare il cambiamento climatico. Questi sistemi possono inoltre avere un bilancio di carbonio negativo: assorbono più CO₂ di quanta ne emettano, soprattutto quando le operazioni si basano su fonti rinnovabili e filiere locali.
Da questo punto di vista, la scienza dell’upcycling si sta ben radicando: le ricerche sono solide e le tecnologie sempre più affidabili. I metodi di estrazione sostenibile (ultrasuoni, campi elettrici pulsati, anidride carbonica supercritica), ad esempio, permettono già da tempo di recuperare da vinacce, bucce o crusche sostanze di grande valore biologico, tra cui fibre, polifenoli e antiossidanti. Parliamo di procedure che sono arrivate a garantire rendimenti elevati e un’efficienza energetica competitiva.
Uno studio condotto dall’Università di Pisa ha dimostrato che un estratto ottenuto dai residui del melograno possiede effetti cardiovascolari benefici, paragonabili a quelli di un farmaco antipertensivo.
Il panorama dell’upcycling italiano
Una recente ricerca pubblicata sul Journal of Environmental Chemical Engineering mostra come l’Italia disponga già di un sistema articolato di pratiche e tecnologie per trasformare scarti agricoli e alimentari in risorse di valore, da compost e biogas fino a bioplastiche e biocarburanti. Accanto ai processi industriali più consolidati, come il compostaggio e la digestione anaerobica, stanno emergendo filiere innovative basate su pirolisi, gassificazione o fermentazioni biologiche, spesso sviluppate in centri di ricerca del centro e del sud Italia. Queste nuove soluzioni, ancora in fase pilota, promettono di ridurre sprechi, emissioni e dipendenza da fonti fossili, ma richiedono molti investimenti, coordinamento tra territori e un quadro normativo capace di favorirne la diffusione.
La transizione alimentare non è solo una questione di tecnologie o ricette sostenibili: è, prima di tutto, una questione di fiducia.
Fiducia, neofobia e linguaggio
La transizione alimentare non è solo una questione di tecnologie o ricette sostenibili: è, prima di tutto, una questione di fiducia. Quando si parla di cibi “rigenerati” le difficoltà non stanno tanto nei costi o nelle norme, ma nella percezione. Lo mostra chiaramente un’analisi internazionale pubblicata nel 2024 sulla rivista Food Quality and Preference: a frenare l’upcycling alimentare non sono i regolamenti, ma le persone. O meglio, alcune paure radicate, come la neofobia alimentare, cioè la diffidenza verso i cibi nuovi o poco familiari, e la tecnofobia, la paura che dietro certi processi si nascondano manipolazioni poco naturali.
Eppure, l’interesse c’è. Più di un consumatore su due, soprattutto tra i più giovani, è curioso di assaggiare prodotti upcycled. Ma la curiosità si traduce in acquisto solo se il racconto è convincente. Funzionano le etichette chiare, i dati trasparenti, un linguaggio diretto che spiega come e perché certi ingredienti vengano recuperati. Al contrario, quando la comunicazione è ambigua o troppo moralistica, scatta il sospetto.
Quando il valore degli scarti viene spiegato bene, la gente non lo respinge: lo riconosce come una forma di intelligenza collettiva, un modo concreto e contemporaneo di pensare al futuro del cibo.
Il discorso politico
Anche la dimensione politica e il dibattito d’opinione contribuiscono a modellare le percezioni dei consumatori. Nel contesto italiano, l’innovazione alimentare è oggi filtrata attraverso una lente marcatamente identitaria. Si tende a privilegiare il valore simbolico del “cibo vero” e della filiera nazionale, e si è cauti se non avversi alle forme di innovazione percepite come “non tradizionali”, dai novel food (cioè alimenti o ingredienti nuovi per il mercato europeo, non consumati in modo significativo prima del 1997), alla carne coltivata, fino all’upcycling. Pur senza opposizione esplicita, il rischio è che i cibi rigenerati vengano relegati a soluzioni tecnologiche estranee alla cultura del made in Italy, quando in realtà, come abbiamo visto, rappresentano una continuità con la tradizione del riuso e della frugalità tipica delle culture locali. Il dibattito attuale riflette ancora una tensione ideologica e irrisolta tra la necessità di innovare e la volontà di preservare, più che una reale integrazione tra le due prospettive.
Il rischio è che i cibi rigenerati vengano relegati a soluzioni tecnologiche estranee alla cultura del made in Italy, quando in realtà rappresentano una continuità con la tradizione del riuso e della frugalità tipica delle culture locali.
Anche nel dibattito sugli organismi geneticamente modificati e sulle nuove tecniche genomiche, come l’editing con CRISPR-Cas9 o il prime editing, sono emersi chiari segnali di ambivalenza. Mentre la Commissione e il Consiglio europeo hanno aperto, nel 2025, a una regolamentazione più flessibile per le New genomic techniques (NGT), una parte dell’opinione pubblica e del mondo politico continua a guardare con sospetto a ogni intervento percepito come “artificiale”.
Cosa dice (e non dice) la legge
Sul piano regolatorio la situazione è ancora più complessa. Per gli alimenti upcycled non esiste oggi una categoria giuridica specifica né a livello europeo né nazionale: non c’è una norma che li definisca esplicitamente, né un percorso autorizzativo dedicato. Questo significa che tali prodotti rientrano nel perimetro della legislazione alimentare generale (sicurezza, tracciabilità, etichettatura, igiene) e, quando necessario, nelle regole sui novel food, se gli ingredienti derivati dal recupero non hanno un uso alimentare documentato prima del 1997. In altre parole, l’upcycling vive in un terreno di normativa implicita: tutto ciò che non è vietato è possibile, purché sia sicuro e conforme ai requisiti esistenti.
Nei laboratori italiani stanno prendendo forma tecnologie capaci di cambiare il destino degli scarti agroalimentari: dalla pirolisi che “cuoce” residui agricoli, alle larve di mosca che trasformano rifiuti organici in proteine e fertilizzanti.
Oltre la tecnologia
L’upcycling, più che di nuove tecnologie, ha bisogno di infrastrutture di conoscenza: osservatori, banche dati, criteri comuni di rendicontazione e soprattutto informazioni chiare. È qui che si gioca la partita tra sperimentazione e sistema. L’innovazione, fuori dalle retoriche soluzioniste, è un processo collettivo che coinvolge saperi, politiche e responsabilità diffuse. È la capacità di costruire connessioni stabili tra ricerca, impresa e istituzioni, di trasformare la sperimentazione in infrastruttura e la tecnologia in cultura.
E in effetti l’innovazione circolare del cibo procede. Nei laboratori e nei distretti sperimentali italiani stanno prendendo forma tecnologie capaci di cambiare il destino degli scarti agroalimentari: la pirolisi, che “cuoce” residui agricoli per ottenere biochar, una sorta di carbone vegetale utile a restituire carbonio e fertilità ai suoli; le larve della mosca soldato nera, che trasformano rifiuti organici in proteine e fertilizzanti; e poi ancora i bioprocessi microbici, le fermentazioni controllate, le estrazioni con CO₂ supercritica. Tutto questo disegna una nuova idea di produzione più circolare e responsabile.
Ma la transizione non può poggiare solo sull’efficienza tecnica. Ha bisogno di una strategia condivisa, sostenuta da politiche industriali coerenti, incentivi mirati e norme capaci di evolvere con l’innovazione, e soprattutto di una relazione di fiducia con i consumatori. E per costruire questa fiducia serve un cambio di prospettiva culturale. Vale per l’upcycling come per tutta la transizione ecologica: senza un nuovo modo di pensare il valore delle risorse, anche le soluzioni più avanzate rischiano di non uscire dai cassetti dei laboratori.