

A narchico, ironico, astuto, generoso, James Campbell Scott ha pubblicato decine di libri ‒ senza contare articoli, conferenze e apparizione pubbliche ‒, e ciascuno è stato in grado di generare un dibattito arrivato ben al di là dei confini abituali di un professore ordinario di antropologia alla prestigiosa università di Yale. Insieme a Colin Ward, David Graeber, Noam Chomsky e pochi altri, James C. Scott è uno di quei pensatori che ci ricordano il motivo per cui la critica radicale rimane un’esigenza fondamentale di qualsiasi tempo, come quella di smascherare il volto innocuo di qualsiasi potere per tenere vivo il desiderio di un futuro, se non migliore, almeno più autentico e consapevole.
Scott risponde a questo bisogno anche quando a essere raccontata è una storia geograficamente lontana, come nel caso di L’infrapolitica dei senza potere (2024). Si tratta della “storia ombra” del Sud-Est asiatico (ma non solo), quella dei contadini che in Malesia come in Thailandia e in Vietnam oppongono resistenza al controllo e alla repressione attraverso pratiche quotidiane di truffa, menzogna, diserzione, ostruzione. Un’infrapolitica molteplice che è l’unico mezzo nelle mani di chi non ha strumenti o risorse per resistere in maniera eroica, “Storica”, con la maiuscola, insomma evidente. Una condizione che non è riservata ai contadini dell’Asia ma, a maggior ragione in questo momento storico, riguarda anche noi sempre più da vicino.
James C. Scott è stato un antropologo statunitense attivo dagli anni Sessanta fino al 2024, anno della sua morte. Dopo quasi vent’anni dedicati all’economia rurale malese si è interessato a tutto il Sud-Est asiatico, portando avanti la sua ricerca all’università di Yale e vivendo in una fattoria nel Connecticut. I suoi libri indagano gli strumenti e gli effetti della repressione politica e sociale, dall’uso di mappe e catasti (Lo sguardo dello Stato, 2019) alle politiche fiscali e territoriali (I contadini tra sopravvivenza e rivolta, 1981). Scott ha raccontato la storia di questi luoghi guardando a chi rimane, normalmente, schiacciato: i margini dell’impero, le campagne minacciate dalla globalizzazione, i contadini in lotta per la sussistenza, spesso analfabeti, che in gran parte delle narrazioni storiche hanno il ruolo di marionette silenziose alle spalle dei paragrafi dedicati ai grandi stravolgimenti politici.
Lo sguardo tipico di Scott, la sua capacità di dare una dignità “esplosiva” alle interlinee dei libri di storia, è evidente anche in L’infrapolitica dei senza potere. Qui Scott riesce a fare tre cose diverse. Per prima cosa raccoglie un campionario di esperimenti, storie e tattiche adottate dalle comunità subalterne del Sud-Est asiatico per conquistare libertà nonostante la subordinazione. Poi riassume i temi più importanti della sua ricerca – la politica dei subalterni, l’antropologia contadina, la critica radicale ai sistemi di potere – facendo una specie di introduzione “indisciplinata” al proprio pensiero. Infine, offre indirettamente più di una risposta alla domanda che tutti ci facciamo di fronte a un libro che parla di popoli distanti decine di migliaia di chilometri da noi, ossia: a cosa ci servono le loro storie?
L’infrapolitica dei senza potere è una “storia ombra” del Sud-Est asiatico, quella dei contadini che oppongono resistenza al controllo e alla repressione attraverso pratiche quotidiane di truffa, menzogna, diserzione, ostruzione.Il lavoro di Scott ricorda la microstoria, quel modo di raccontare gli eventi storici partendo dai dettagli che normalmente sfuggono al campo largo dello studioso. La microstoria è nata tra le pagine degli Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre; in Italia, ad averla resa nota al medio-pubblico, sono stati successi editoriali e scientifici come Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg (1976). In quest’ultimo libro la Storia, maiuscola, passa letteralmente attraverso il corpo di un mugnaio friulano sui generis, Menocchio, colpevole di essersi distaccato troppo dalle convinzioni del suo tempo, di cui, per contrappasso, si è rivelato essere un ottimo testimone.
James C. Scott parla di uomini e donne, di popoli e comunità, ma rifiuta questo particolarismo secondo cui il mondo si rispecchia fedelmente anche in una piccola goccia d’acqua. La sua non è una storia di individui ma di classi che, oltre a essere sociali, sono anche geografiche: campagna contro città, braccianti agricoli e contadini contro ceto medio-alto di burocrati al servizio diretto del potere, capanne contro palazzi. La storia di Scott non è microscopica nel senso di “piccola”, piuttosto emerge dagli spazi bianchi della storia comune, tradizionale, padronale. È un’infrastoria che scorre, violentemente, nelle pieghe della Storia stessa. La stessa storiografia, scrive Scott, estromette e opprime le classi distanti dai centri semplicemente determinando una “soglia” dell’azione politica – rivoluzione, movimento di massa, guerra frontale – troppo alta perché ci siano concorrenti non legati a un potere centrale. La stessa volontà di assimilare le classi periferiche ai propri progetti è una forma di soggiogamento ai danni dei subalterni.
Nelle prime pagine di L’infrapolitica dei senza potere si dichiara quello che sarà lo scopo del libro: “esiste qualcosa di sistematico nello slittamento tra le idee religiose e politiche così come vengono intese e praticate in città e le loro varianti rurali proprie delle piccole tradizioni”. Secondo Scott le caratteristiche sociali delle comunità rurali – “piccole tradizioni” fatte di villaggi, ceti e ideologie relativamente omogenei, stabili economie di sussistenza – sono così diverse da quelle degli abitanti delle città in cui ha sede il potere – “grande tradizione” fatta di norme giuridiche, ceti medi o alti, economie di mercato – che è necessario pensare l’agire politico, e quindi la storia sociale, in due modi diversi, di cui finora uno solo ha avuto diritto di parola. “Il modello classico dei rapporti cooperativi tra grande e piccola tradizione – un modello che esalta collaborazione, reciprocità e complementarità – è l’ideologia sociale del patronato” o, in parole povere, l’idea che la Storia sia una sola, per le città e le campagne, fa parte della struttura oppressiva del potere ai danni delle popolazioni geograficamente marginali.
Torniamo al titolo del saggio. Infrapolitica è un termine che Scott usa per la prima volta in Il dominio e l’arte della resistenza (2006) per indicare forme di insubordinazione o ribellione così impastate con la vita quotidiana da non apparire come vere e proprie azioni politiche. Il titolo originale di L’infrapolitica dei senza potere è, in realtà, un altro: Decoding subaltern politics, “decodificare le politiche subalterne”. Infrapolitica è quindi la chiave che “decodifica”, se così si può dire, la politica dei subalterni. La politica dei subalterni non si esprime con gli stessi strumenti di quella delle classi dominanti perché, secondo Scott, rispecchia un localismo tipico: per prima cosa “la preoccupazione primaria del localismo sono i diritti di sussistenza. […] Non si tratta in alcun modo di un concetto di egualitarismo radicale: non afferma che tutti debbano essere uguali, ma che tutti debbano avere di che vivere”. Mentre nei centri di potere urbano l’economia è complessa e non dipende più dal sostentamento dei singoli nuclei, nei contesti locali la priorità è il sostentamento. A diversi bisogni rispondono modi di agire diversi: da un lato la volontà di espansione, la propensione al guadagno, non solo economico, per aumentare la propria influenza e il proprio potere, dall’altro la ricerca di una stabilità moderata, ma garantita. Un esempio più vicino alle nostre vite quotidiane sono i casi delle rivolte che scoppiano nei CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri) italiani o nei campi profughi costruiti lungo le frontiere dell’Europa: chi non ha documenti né denaro né alcun’altra leva, non può accedere alla politica per come l’intendiamo noi, come rappresentazione democratica, quindi è costretto, per esprimere un bisogno politico a tutti gli effetti, a usare mezzi diversi per la propria lotta di classe.
James C. Scott parla di uomini e donne, di popoli e comunità, ma rifiuta il particolarismo secondo cui il mondo si rispecchia fedelmente anche in una piccola goccia d’acqua. La sua non è una storia di individui ma di classi che, oltre ad essere sociali, sono anche geografiche.Tornando ai “margini dell’impero”, raramente le persone che li abitano si interessano di questioni nazionali, politica internazionale e così via. L’interesse è, anche qui, locale, nel senso di legato alle necessità di una vita il cui perimetro è disegnato dalle attività quotidiane. Le questioni politiche nazionali – a partire dal nazionalismo, perché è ingenuo pensare che tutte le politiche subalterne siano rivoluzionarie – diventano importanti solo quando hanno immediate ripercussioni nell’ecosistema sociale locale. Di fronte alle lotte nazionali o internazionali d’espansione, la “piccola tradizione” si pone in una condizione di “subordinazione negoziata” o, quando la negoziazione fallisce, di “dissimulazione”, “ostruzionismo” e “resistenza passiva”. “È un tipo di tenacia brechtiana che potremmo persino considerare come il modello normale della lotta di classe per i contadini”: paradossalmente, secondo Scott, la stessa storia della lotta di classe è stata sistematicamente distorta “in una direzione Stato-centrica”. Il fatto cioè che le azioni quotidiane di ostruzionismo, diserzione, truffa ai danni del potere non vengano menzionati come processi rivoluzionari è l’ennesimo modo con cui la repressione si attua ai danni della piccola tradizione, “ma così come milioni di polipi antozoi creano, volenti o nolenti, una barriera corallina, allo stesso modo migliaia di atti individuali di insubordinazione ed elusione creano una propria barriera corallina politica ed economica.”
I capitoli di L’infrapolitica dei senza potere rappresentano anche un campionario di tattiche eversive, soprattutto in ambito rurale. Ad esempio, i contadini malesi per evitare di pagare una tassa eccessiva sui propri raccolti (già miseri, in particolare nelle stagioni peggiori), mescolano varietà tassabili con varietà non tassabili di grano, dichiarando poi che tutto il campo era piantato con la varietà non tassabile e sfruttando la maturazione più tarda delle prime per nasconderle al momento del controllo. Altri agricoltori omettono di dichiarare le bonifiche di nuove aree coltivabili, nascondendole tra alberi, canne e grano alto. Sono moltissimi gli esempi di ribellioni silenziose nei confronti di prelievi forzati che, improvvisamente, diventano da volontari o consuetudinari a obbligatori: è il caso dello zakat islamico o, per uscire dai confini dell’Asia, della decima cristiana. In tutti questi casi gli stratagemmi sono infiniti: menzogne, occultamenti, sottostime e così via. Il risultato è l’indebolimento sostanziale delle riserve alimentari ed economiche del potere centrale, che non di rado hanno contribuito a eventi storici ben più evidenti. Lo stesso vale sul campo di battaglia vero e proprio: anche senza il dichiarato ammutinamento delle truppe, la diffusa diserzione dei soldati è stato un tassello fondamentale di molte sconfitte belliche, a partire dalla Confederazione durante la guerra civile americana. Quando i contadini sono venuti a conoscenza del fatto che i figli di molti dei proprietari delle piantagioni del Sud erano stati esentati dalla leva, non hanno imbracciato le armi contro l’oppressore, il che avrebbe scatenato un bagno di sangue, ma hanno semplicemente abbandonato il campo di battaglia condannando la Confederazione alla sconfitta.
Un’altra serie di esempi interessanti riguarda il titanico progetto portato avanti tanto in Europa quanto in Asia di creare un sistema universale di cognomi permanenti. La tesi di Scott è che i patronimici permanenti siano un costrutto sociale nato per rendere la popolazione maggiormente leggibile agli occhi dello Stato, scopo che contraddistingue, al di là di questo progetto, buona parte delle attività statali. Escluse le più rilevanti famiglie nobiliari, quasi nessuno possedeva un cognome stabile all’interno delle economie e delle società rurali. A ben vedere, trattandosi di società chiuse, il bisogno non c’era. Ha cominciato a esistere nel momento in cui lo “sguardo dello Stato”, come lo chiama Scott, si è elevato come giudice e padrone astratto, a cui ciascun individuo in quanto “cittadino” deve esser noto. In Inghilterra, il sistema di patronimici perenni ha coinciso con lo smembramento delle proprietà comuni, i commons, che erano la forma territoriale più diffusa per consuetudine in tutte le aree rurali. Nel caso dei cognomi la resistenza è più difficile e, soprattutto oggi, anche i luoghi più recalcitranti sono costretti a uniformarsi a un sistema divenuto quasi universale grazie alla globalizzazione. Si tratta comunque, almeno in alcuni casi, di processi recentissimi, come il “progetto cognomi” attuato sugli Inuit e datato 1970, che alla fine si è concluso, racconta Scott, con una serie di violente incomprensioni e prove di forza tra le comunità e il governo canadese.
“L’infrapolitica dei senza potere” si esprime quindi attraverso sotterfugi, omissioni, piccole truffe, inadempienza: se tutto questo sembra poco eroico, magari biasimabile, è perché forse gli eroi sui quali misuriamo i nostri giudizi non facevano parte delle classi subalterne. Questi gesti infrapolitici si mettono letteralmente “nel mezzo” degli strumenti con cui il potere attua il proprio progetto repressivo e bisogna fare attenzione – mette in guardia Scott – a non fare inavvertitamente il loro gioco. “La tendenza a dare priorità, ad assegnare un maggior peso storico, alla resistenza organizzata e politica invece che a quella quotidiana, è una posizione che fraintende in modo fondamentale la stessa base della lotta economica e politica condotta ogni giorno dalle classi subordinate – non soltanto contadine – nei contesti repressivi”. Il rischio non è solo dimenticare lo sforzo di una moltitudine di persone nel ribaltare, anche lentamente, un ordine che le opprimeva, ma anche quello di non riconoscere la violenza di un sistema repressivo che costringe al sotterfugio perché impedisce l’opposizione diretta, soprattutto da parte di chi non ha risorse adatte per fare una rivoluzione.
Il fatto che le azioni quotidiane di ostruzionismo, diserzione, truffa ai danni del potere non vengano menzionati come processi rivoluzionari è l’ennesimo modo con cui la repressione si attua ai danni della piccola tradizione.Al di là delle storie raccontate da Scott, delle sue analisi e del suo tono, a tratti veramente magnetico, dobbiamo chiederci quale sia il senso attuale di un libro del genere. Uscito per la prima volta nel 2013, tradotto nel 2024, incentrato su vicende che cominciano nel Novecento e affondano le proprie radici nei secoli passati; a cosa serve, se serve? Questa domanda non è una domanda di cortesia. Nel caso del libro di Scott è una domanda che nasce dalla sensazione che questo libro abbia una profonda utilità, adesso, e questo malgrado una serie di considerazioni necessarie che vanno al di là della distanza tra noi e la Malesia o il popolo Inuit.
Prima tra tutte il fatto che oggi la separazione tra “piccola tradizione” e “grande tradizione” o, in altri termini, la differenza sociale tra città-centri di potere e campagne-margini dell’impero si sta riducendo notevolmente. La tecnologia informatica e dei trasporti permette di coprire la distanza tra una città e il più remoto angolo di campagna in ore, minuti, anche pochi secondi. Le aree così remote da aver bisogno necessariamente di ore di cammino per raggiungere un centro “globalizzato” sono pochissime. Oggi l’isolamento, di qualsiasi grado, è quasi sempre una scelta. Se non la si fa, si può tranquillamente rimanere connessi con le traiettorie politiche globali da qualsiasi anfratto dotato di una connessione Internet.
Una seconda differenza ugualmente determinante la fanno le “protesi” di cui oggi può avvalersi lo “sguardo dello Stato”. Prima lo Stato era costretto ad avvalersi di funzionari e registri cartacei, ma oggi tra sistemi di identità digitale, riconoscimento facciale, tracciabilità satellitare – per dirne solo alcuni – le strategie di ostruzione raccontate da Scott non sono più così efficaci. È difficile sottrarsi alle maglie della rete, che diventano ogni giorno più fini, così come è difficile farla franca quando ci si prova.
L’ultima considerazione “contro” l’attualità del testo di Scott riguarda ancora una volta la distinzione netta tra localismo rurale e spinta accentratrice del potere centrale. Oggi molte delle lotte politiche di resistenza locale contraddicono questo modello. Movimenti come quello No TAV in Val Susa o mosaici di battaglie territoriali come quelli dei Soulevement de La Terre in Francia o, ancora, le lotte dei popoli indigeni dell’Amazzonia contro i cercatori d’oro e lo Stato brasiliano sono istanze locali che riescono benissimo a intercettare temi globali come l’ecologia, l’oppressione e la lotta allo sfruttamento dei territori. Locale e universale si saldano, da un lato come concrezione di un problema politico in una situazione, dall’altro come espressione astratta e violenta di un’idea.
“L’infrapolitica dei senza potere” si esprime attraverso sotterfugi, omissioni, piccole truffe, inadempienza: se tutto questo sembra poco eroico, magari biasimabile, è perché forse gli eroi sui quali misuriamo i nostri giudizi non facevano parte delle classi subalterne.Nel 2017 l’editore Zones ha pubblicato un saggio del filosofo Jean Baptiste Vidalou chiamato Être forêts. Habiter des territoires en lutte. Questo testo rappresenta perfettamente il sodalizio tra lotte locali e questioni universali, in questo caso ecologiche e filosofiche, che uniscono territori sparsi per il mondo. Vidalou racconta in prima persona la difficoltà di abitare nelle zone contese tra cementificazione e tradizione secolare di conservazione delle risorse naturali, in particolare le foreste nel Nord-Ovest della Francia. Nelle pagine di questo libro si scambiano continuamente considerazioni sull’emergenza ecologica, questioni antropologiche sul rapporto dell’essere umano con la natura e storie di prima mano di lotte incarnate, come l’occupazione dell’area destinata all’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, a sud di Nantes, in corso da più di dieci anni. Il saggio di Vidalou è solo uno degli esempi dell’alleanza di scala che sta nascendo nel campo dell’ecologia e della lotta politica, e credo che questo sodalizio, oltre a racchiudere una grande forza trasformatrice, vada ancora in buona parte compreso nel suo potenziale.
A essere in procinto di scomparire sono invece le lotte territoriali in quanto tali, le piccole alzate di scudi in difesa del proprio villaggio o del proprio isolotto. Lo squilibrio di potere, in questi casi, è troppo schiacciante. Il mondo fatto di un mosaico di luoghi distanti e distaccati, di villaggi, metaforici o no, separati tra loro e impegnati autonomamente nella loro conservazione, forse è veramente un mondo “vinto”, come scriveva Nuto Revelli mezzo secolo fa, tracciando un requiem a un mondo contadino che tuttavia è stato in grado, almeno parzialmente, di contraddirlo.
Le vittorie del “mondo dei vinti” di cui racconta anche James C. Scott, sebbene questo mondo stia scomparendo, non vanno dimenticate. L’agency politica che hanno dimostrato i contadini va prima di tutto riconosciuta – in questo L’infrapolitica dei senza potere è uno strumento molto efficace – e poi se ne può far tesoro. Se oggi, evidentemente, viviamo in un momento storico in cui il livello di controllo e repressione cresce esponenzialmente in Europa e non solo, non è detto che le infrapolitiche testimoniate da Scott non possano essere d’ispirazione o, addirittura, d’aiuto. Le ondate di repressione violenta che si abbattono su qualsiasi movimento di resistenza – l’arresto quotidiano di manifestanti pacifici in Italia, negli Stati Uniti, in Turchia, in Germania, per fare solo qualche esempio – mettono in discussione l’esistenza stessa di uno spazio di dissenso politico e la proporzione tra il nostro potere collettivo e quello dell’intesa nazionale e internazionale è sempre più sbilanciata.
Per di più l’accentramento brutale delle risorse materiali e immateriali – le cosiddette oligarchie alle spalle dei governi più importanti – non fa altro che creare un’immensa provincia dell’impero a cui, nostro malgrado, apparteniamo. Le infrapolitiche testimoniate da Scott hanno lentamente mutilato i poteri centrali in Malesia, Vietnam, Thailandia, ma anche negli Stati Uniti o in Francia, e per questo hanno qualcosa da insegnarci anche solo per aprire nuovi spazi d’azione e dissenso al di sotto di un piano politico diventato opprimente. Anche quando lo scontro non si può vincere, la lotta va avanti in maniera quotidiana, vitale, quasi abitudinaria, riappropriandosi, fra l’altro, di una dimensione di gioia e compassione che è essenziale allo sviluppo del desiderio.
Michel de Certeau scrive nel 1980 uno dei libri più importanti per lo sviluppo di un senso critico delle azioni quotidiane: L’invenzione del quotidiano è una riflessione su come la politica non si riduca mai alle sue forme più appariscenti o spettacolari, ma si sviluppi come una specie di radice sotterranea fino a raggiungere anche i gesti più piccoli della vita quotidiana degli individui. De Certeau fa una distinzione fondamentale: tattica e strategia configurano due modi di lotta diversi e opposti. Strategica è l’azione nel territorio, che viene portata avanti dalla parte avvantaggiata quanto a forze, economie e potenza. La strategia nasce da una scelta autonoma di posizionamento, fatta da chi può combattere in campo aperto e deve solo scegliere come disporsi al meglio. La tattica, al contrario, è azione con il territorio, lavoro di negoziazione e sfruttamento delle caratteristiche del campo di battaglia per ribaltare uno stato di minorità.
Sia Scott che Vidalou citano la rivolta dei Camisardi, durata dal 1703 al 1709 nei boschi delle Cevenne, una zona montuosa del Sud-Est della Francia. Questa rivolta vide contrapposti sparuti gruppi di ugonotti protestanti e l’esercito di Luigi XIV, che gli dava la caccia. La frustrazione che si legge nei diari dei generali francesi, costretti a combattere per anni contro una manciata di contadini, nasce proprio dalla capacità di questi ultimi di sfruttare a loro favore un territorio che per gli strateghi del re era completamente illeggibile. Anche in stato di schiacciante minoranza e di crisi profonda, conoscere il territorio e sfruttarlo a proprio favore attraverso lotte infrapolitiche può significare ottenere ampi e insperati margini di cambiamento. È lo stesso procedimento attuato dai contadini malesi, ben consapevoli delle caratteristiche delle proprie varietà di riso e grano.
Se oggi viviamo in un momento storico in cui il livello di controllo e repressione cresce esponenzialmente anche in Europa, non è detto che le infrapolitiche testimoniate da Scott non possano essere d’ispirazione o, addirittura, d’aiuto.E noi quale territorio dobbiamo conoscere e saper usare? A questa domanda impossibile provo a dare una risposta facile: il nostro, la terra, l’ecosistema in pericolo. E, come abbiamo visto, questo può significare semplicemente una valle, un bosco, un fiume che rispecchiano la stessa complessità del resto. Per farlo non basta muoversi, bisogna incontrare le persone e stare ad ascoltare storie che non ci coinvolgono, ma ci riguardano. Essere attenti testimoni e ascoltatori partecipanti. Anche in questo Scott è un imprescindibile maestro.