“L
a poesia è geroglifica: decifrabile solo in chiave di destino” scrisse Cristina Campo. Avvicinandosi all’ultimo, bellissimo libro di Aldo Nove, Inabissarsi (2025), sembrerebbe che tutta la sua vita sia stata proprio questa furibonda avventura della decifrazione. Ogni volta che lo raggiungo al telefono, Aldo mi sorprende con un diverso attacco della conversazione: dalla passione per il ping pong di Milo De Angelis a qualche verso meno noto di Franco Battiato, dall’attualità del barocco attraversato da padre Giovanni Pozzi all’aneddoto dietro all’invenzione di un suo slogan memorabile ideato per Hogan: “Versi che calzano a pennello”; slogan che figurava tra l’altro anche nel retrocopertina del volume dei Canti Orfici di Dino Campana–Carmelo Bene per la collana inVersi di Bompiani, curata proprio da Nove negli anni Novanta ‒ un tempo che oggi sembra già mitologia.
Questa volta lo chiamo per parlare di Inabissarsi, ed esordisco dicendo che la nostra conversazione, una volta sbobinata, diventerà un’intervista. “È curioso questo termine” mi dice subito Aldo con il suo tono stupefatto; e prosegue: “sbobinatura: una maceria linguistica, inattuale, perché non c’è più nessuna bobina, però il senso è quello…. un poco come la poesia”.
Potremmo iniziare proprio così, da questo elemento, cioè da questa inattualità che la poesia abita in maniera ambigua. Per me è sempre molto interessante il fatto che, da una parte, la poesia sembri una cosa antiquata e, dall’altra, proponga invece una continua spinta di rinnovamento del linguaggio, cosa che emerge molto chiaramente in Inabissarsi. Quindi, parlami un po’ di questo: di questa sbobinatura impossibile che la poesia fa del reale.
Una sintesi sta anche nel titolo di un libro che hai scritto proprio tu:
Fossili di rivolta, no? Mi sembra che sia già abbastanza indicativo. Oggi si parla tanto di
merda perché esprime simbolicamente una condizione che percepiamo come esteriore ma anche interiore, dando a quel termine il valore che gli dà
Dante nell’Inferno. Ma è anche il letame, cioè questo scarto, questo rifiuto storico che si accumula sempre di più. Voltandoci indietro troviamo tante di quelle cose… e questo fa del poeta una specie di angelo benjaminiano.
Per esempio, la
tradizione ci consente oggi di recuperare molte cose del passato che sembravano perdute; ma recuperare anche in una chiave nuova ‒ più dirompente. Prendi il discorso della fluidità e del
queer. Il
queer di
David Bowie nel 1972 aveva una forza d’urto, un impatto e una pregnanza che oggi, in una sorta di processo di istituzionalizzazione, ha perso molto della sua valenza; allora forse sarebbe il caso di guardarsi davvero un poco indietro, non nostalgicamente, ma per vedere cosa abbiamo abbandonato che possiamo riutilizzare.
A proposito di questa istituzionalizzazione: oggi c’è un’idea dell’arte correttiva, cosmetica: qualcosa che aggiusta. Nel tuo libro invece l’arte disaggiusta le cose, le inabissa. Non c’è spinta consolatoria…
Quando mi intervistano in quanto poeta è proprio di default questa roba strana, questa domanda: “Ma la poesia salva la vita?”. Cos’è che deve salvare? Cos’è, la poesia? Una cosa chirurgica, un farmaco specifico per il diabete? O forse un nuovo ritrovato oncologico? Veramente, cos’è che deve salvare? Mettiamoci su un piano spirituale ‒ ancora peggio. Leggo
Maurizio Cucchi, un poeta che oggi che ha questo “titolo”; ecco: non è che se leggo Cucchi allora mi salvo. Ma neanche se leggo
Virgilio,
Dickinson, e via dicendo…
C’è da dire però che la poesia è una materia infestante. Si diffonde in maniere impreviste, e coglie, molto prima di altri strumenti, la carica del proprio tempo
‒ anche se facciamo fatica a riconoscerlo. Tu lo sai bene, sei stato uno dei primi a vedere (senza facili moralismi) quanto la lingua cominciasse a diventare una questione inquinata, contaminata… La plastica della lingua, come scriveva Tommaso Ottonieri in un libro dedicato anche alla tua scrittura. Oggi la poesia, nonostante non “venda” come genere letterario, in realtà abita la tecnologia della nostra vita. Cerco di spiegarmi: le nostre interfacce, i nostri sistemi tecnologici non si muovono linearmente, ma in una dimensione di schianti, di collegamenti, di montaggi improvvisi. Una dimensione poetica, appunto… anche se non riusciamo bene a cogliere il carattere epico di tutto questo, e ne rimaniamo come in ostaggio. È interessante quello che dici. Ricordo la mia esperienza con
I furiosi di
Nanni Balestrini, che era un libro epico, ma i protagonisti erano ultrà, erano tifosi del Cagliari e del Milan. Balestrini aveva intuito come l’epica potesse essere trovata nelle cose più impensabili. Quell’epicità disturbante, il modo in cui si trattava di uomini di strada, di figure che sembrano di poco conto, ma che hanno una potenza simbolica incredibile. Oggi, a proposito di linguaggio, parliamo di social, parliamo di ciò che siamo costretti a digerire, ma non più come storie. Pensa a come scriviamo, come comunichiamo. Ciò che emerge da tutto questo è in realtà poesia, senza volerlo. Ma è una poesia che non è più quella consolatoria: è una poesia spinta all’eccesso.
In quanto alla
Plastica della lingua… è vero: il linguaggio ha perso ogni sua purezza, ma ha guadagnato una certa autenticità nel suo essere contaminato. È un po’ come quello che diceva
Hegel: che la cosa più difficile nella filosofia è tenere fermo il cadavere. Lo trovo bellissimo. È un’immagine di una bellezza straordinaria, perché è come se stessimo cercando di fermare qualcosa che sta per crollare, ma nello stesso tempo quello che rimane è anche l’essenza, quella che non si può togliere. Oggi, più che mai, la poesia deve andare oltre la forma tradizionale, deve essere disturbante, infettante. L’ultimo libro di Nanni si chiamava:
Ci abbiamo provato. Ora è forse molto più difficile, ma comunque dobbiamo provarci.
Un aspetto che ho molto amato del tuo libro è che è un libro di maestri (Milo De Angelis, Nanni Balestrini, Franco Buffoni, Edoardo Sanguineti e molti altri), ma di maestri non conciliati, in aperta contraddizione tra loro. Tu sei uno di quei pochi poeti che sono stati capaci di frequentare quella moltitudine senza chiudersi in trincee, facendo coesistere parola “innamorata” e parola di sfondamento, per così dire…
Innanzitutto c’è un fatto generazionale, io sono venuto subito dopo quelle trincee e credo che sia letteralmente come racconto nel libro, un fatto esperienziale totalmente mio.
Millimetri di Milo e
Poesie pratiche, 1954-1969 di Nanni, per esempio, sono stati e restano due libri così rompenti, così estremi. Poi uno può fare tutti i giochini che vuole. Però se ci pensi, questa forza delle contraddizioni è già presente in queste opere; per esempio, in Balestrini ci sono riferimenti a
Lullo, a tecniche combinatorie che riguardano
Giordano Bruno. Io nella poesia ci vedo proprio un processo eracliteo, o alla
Georges Ivanovič Gurdjieff: un’armonizzazione degli spazi, ma che non si risolve, non si stabilizza.
Non è che non andiamo d’accordo con gli altri, non andiamo neanche d’accordo con noi stessi: questo è il punto. Ci contraddiciamo, e viviamo di questo.
Sì, viviamo di queste contraddizioni, come nei processi alchemici che tu menzioni più volte. A tal proposito: quest’estate ero con Milo De Angelis, e un certo punto di una conversazione mi ha detto: “tu assomigli a un mio compagno di classe, Mario Mieli”. Ecco: quella figura straordinaria che fu Mario Mieli (Milo lo citava anche come grande poeta), nel momento in cui rimase disilluso dalla politica, ribadì più volte che “non esiste possibilità di liberare a fondo l’essere umano senza passare attraverso la strada alchemica”. La poesia libera il linguaggio quotidiano dalla sua stanchezza proprio perché è un processo mercuriale, un processo alchemico, perché mette insieme le contraddizioni, mette insieme gli elementi volatili e li fissa momentaneamente sulla carta ‒ mantenendo però una grande tensione.
Quindi è molto bello come tu hai radunato insieme questi immaginari nel tuo libro e nella tua scrittura, e mi sembra che proprio in questo punto il tuo discorso contenga una carica politica radicalmente diversa da quella che abbiamo attorno…
Il processo alchemico credo che faccia molta paura a chi non lo conosce perché devi passare per forza di cose dalla morte. Ma morire cosa vuol dire? È una trasmutazione.
Nigredo, il nero del mondo. Rino Formica, ministro socialista nella prima Repubblica, è rimasto noto per la sua frase “la politica è sangue e merda”. Oggi invece si fa la politica un po’ aggraziata alla
Calenda, oppure si fa con l’oblio, un oblio che è la meschinità di sé, del piccolo borghese, come si sarebbe detto un tempo; insomma: l’oblio del presente.
Pensa solo al fatto che
Trump si fa il culo per terminare la guerra in Ucraina, dimenticandosi che sta appoggiando quello che succede a Gaza. Come un corpo in cui la gamba sembra che guarisca, ma il braccio va in cancrena. Cosa vuol dire? C’è una specie di sindrome del Mulino Bianco che esclude tutto ciò che non va, che non ci permette di vedere fino in fondo lo scandalo di questo presente… e invece bisognerebbe fare un grande apprendistato per imparare a manipolare la merda. Per trasformarla in oro. Certo: trattasi di esoterismo e quindi è roba per pochi, ma questa roba per pochi poi
si irradia. Vale lo stesso per la poesia: tutta l’operazione del recupero della abbagliante bellezza dei testi poetici di
Lorenzo Calogero che sto facendo negli ultimi anni è per pochi, ma poi questo poco si espande.
E a proposito di alchimia: io mi sono laureato con Luciano Parinetto, che al legame tra alchimia e politica aveva dedicato molte delle sue ricerche…
Parinetto! Un pensatore straordinario. Da poco hanno ripubblicato un suo testo che già dal titolo è un manifesto: Alchimia-utopia. Ancora oggi questo legame genera sospetto…
Parinetto aveva scritto in una sua cosa giovanile: “la rivoluzione proletaria passa anche per il buco del culo”. C’era però un grande bigottismo di sinistra, che non è che fosse meno preoccupante della Democrazia cristiana. Non dimentichiamoci che in Italia a causa di questo bigottismo per riappropriarci di
Nietzsche abbiamo dovuto aspettare l’edizione di Montanari-Colli. Stiamo parlando degli anni Sessanta del secolo scorso, a 60 anni dalla morte del filosofo.
È vero. In Italia c’è stato un pregiudizio enorme verso certi autori dell’esoterismo, pregiudizio che abbiamo in parte ereditato. A rileggerli oggi, questi autori a loro modo onnivori sono formidabili congegni di lettura del presente, e anzi avevano intercettato con entusiasmo questioni nodali della contemporaneità ‒ penso a Elémire Zolla in Uscite dal mondo, e alle sue intuizioni su realtà virtuale e sciamanesimo (tra le tantissime contenute in quel libro). Zolla, Mircea Eliade, Ioan Petru Culianu ‒ ma penso anche al tuo amatissimo Battiato: “non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita…”.
Battiato lo ripeteva: non sono fascista, non sono comunista, sono un artista, smettetela di rompermi i coglioni! Altro che destra. Oggi non possiamo più permetterci queste distinzioni; non servono, hanno fatto danni enormi, prodotto dualismi inutili e inefficaci.
Davvero, nei tempi così caotici in cui viviamo, si aprono un sacco di spiragli, almeno per chi li sa vedere. Allora, occorre questo, soprattutto questo: lavorare sull’inaspettato.