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Underground
Recensioni
Giacomo Giossi
28.2.2025

Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo di Vladimir Makanin

Giacomo Giossi collabora con giornali e riviste.
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L’ invasione russa dell’Ucraina ha evidenziato negli ultimi anni una distanza profonda non solo rispetto al regime putiniano, ma in particolar modo rispetto al cosiddetto carattere russo, che negli anni si è pensato di poter ridurre a categorie frutto della medesima ideologizzazione di cui erano (e sono) vittima i russi stessi. Lo specchio offerto dalla società russa ‒ o meglio ancora dalla sua nomenclatura ‒ all’Occidente è sempre stato infatti fortemente distorto, generando semplificazioni che aderiscono più a un modo di vedere occidentale che alla realtà di una società estesa, complessa e multiculturale che risulta però d’interesse solo quando si palesa nella sua più veemente ostilità. I russi divengono così di volta in volta i rivoluzionari bolscevichi capaci di liberare il popolo dalla sudditanza zarista, gli eroi di Stalingrado, il popolo oppresso dalle purghe staliniane, gli innovatori libertari capaci di elaborare il concetto di perestrojka, ma anche gli ultraliberisti degli anni di Eltsin. E ora i grigi esecutori di un tiranno tanto violento quanto acclamato come Vladimir Putin, sintesi apparente di un dominio che, complice la Chiesa ortodossa, sembra sciogliere in un unico corpo il potere zarista con la violenza pervicace staliniana e il controllo sociale ossessivo tipico dello Stato brezneviano.

Lo specchio offerto dalla società russa ‒ o meglio ancora dalla sua nomenclatura ‒ all’Occidente è sempre stato infatti fortemente distorto, generando semplificazioni che aderiscono più a un modo di vedere occidentale che alla realtà di una società estesa, complessa e multiculturale.

Nonostante le categorie siano semplificatorie e di conseguenza incapaci di spiegare e raccontare gli elementi culturali di un Paese e di come abbiano caratterizzato la sua storia, sono al tempo stesso anche elementi rassicuranti e quindi difficilmente scalfibili dalla testa delle persone. Grazie alle categorie ci si può infatti garantire una visione chiara e scintillante di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di ciò che è bianco e di ciò che è nero, mantenendo saldo un punto di vista chiaramente incapace di liberarsi di quei pregiudizi che appartengono a chi oltre tutto vive in una parte del mondo ‒ l’Occidente ‒ abituata sempre alla ragione e alla propria in particolare.

A far saltare tutte queste banalizzazioni ‒ spesso volute, per chi ancora le persegue ‒ pochi autori e autrici, e in questo ambito certamente si posiziona come elemento deflagratorio l’opera di Vladimir Makanin, e in particolare il romanzo-fiume Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo, ora nuovamente in libreria per Guanda nella bella traduzione di Sergio Rapetti, che riprende la prima edizione italiana di Jaca Book, ormai da dieci anni fuori commercio. Un ritorno sui banchi delle librerie necessario e importante di uno dei più grandi scrittori del Novecento e tra i principali interpreti di quella parte di mondo le cui logiche ci appaiono scombinate, assurde e quantomeno oscure. Morto a ottanta anni nel 2017, Makanin ha lasciato una produzione di romanzi, e in particolare di racconti, capace di prefigurare la vita del russo contemporaneo, regalando narrazioni minimali ma estremamente ramificate, in cui le connessioni possono essere così diffuse da dare corpo a un’opera unica, fatta di centinaia di personaggi di cui Underground appare come il corpo centrale.

Pubblicato nel 1998, Underground racconta della crisi conclamata dell’Unione Sovietica ormai ridotta a CSI (Comunità degli Stati Indipendenti) e di una democrazia che rappresentò un periodo d’oro solo per chi poté arricchirsi senza freno alcuno. Nel mezzo la breve stagione della perestrojka, considerata più un evento caduto dall’alto, ultimo gesto disperato di una nomenclatura priva di consapevolezza di un popolo ormai abbandonato a sé stesso, e pronto invece a cogliere con violenza e rapidità i dettami di un individualismo tanto feroce e liberista che nell’interpretazione russa sembra esprimere al meglio il proprio lato peggiore. Makanin in verità non ha mai ‒ apparentemente ‒ sofferto la condizione dell’artista censurato, anzi i suoi libri hanno avuto sempre un discreto successo e buona accoglienza in patria; la sua letteratura aderente alla quotidianità russa, ai suoi microconflitti e a quel carattere sentimentale così tipico e così poco noto, lo hanno infatti reso libero dalle restrizioni di un regime tanto assorto e autoriferito da non rendersi nemmeno conto della forza icastica e provocatoria delle pagine del grande scrittore russo di Orsk.

Nato negli Urali, formatosi come matematico, Makanin divenne così ben presto un autore considerato affidabile e autorevole; lontano dall’eroismo bigotto di Aleksandr Solženicyn, rappresentò con Venedikt Erofeev, Ludmila Ulitskaya e la Premio Nobel Svetlana Aleksievič il meglio della letteratura russa contemporanea, che nulla ha da invidiare alla ricchezza della letteratura europea e occidentale in generale. Considerato dalle gerarchie russe al pari di un Marcel Pagnol, Vladimir Makanin ricorda invece ben più Raymond Carver, ma con una ricchezza di elementi e di colori tipicamente russa.

La sua letteratura aderente alla quotidianità russa, ai suoi microconflitti e a quel carattere sentimentale così tipico e così poco noto, hanno reso Makanin libero dalle restrizioni di un regime tanto assorto e autoriferito da non rendersi nemmeno conto della forza icastica e provocatoria delle sue pagine.

Underground offre il ritratto di un mondo intero che si affolla assurdamente in una sola strada, lasciando dietro di sé uno stupore, misto sempre a perplessità, che diviene il sentimento guida dell’intero romanzo. Protagonista principale Petrovič, un perdigiorno molto novecentesco smarrito tra inciampi e accadimenti fortuiti, tra filosofia e visioni quasi lisergiche o più che altro alcoliche. Alter ego dell’autore, ma anche di Venedikt Erofeev, Petrovič attraversa i giorni del declino sovietico durante i quali l’anima russa esprime lo straziante dolore di un’inquietudine senza fine. La perdita dell’impero e della sua presunta ricchezza e potenza rivela infatti una sconfitta che è prima di tutto intima, legata alla scomparsa apparente della propria stessa anima, da troppo tempo schiacciata e afflitta da sensi di colpa e da una violenza indotta, prima ancora che espressione di uno spirito ribelle. Underground è un grido liberatorio che prova a ritrovare il senso di una vita che negli anni tra il 1989 e il 1993 valeva meno di un piatto di minestra: «Lui e lei, entrambi avrebbero congiuntamente rinfocolato la fiammella che li riscaldava (sfregandosi l’uno all’altra). Magari lui l’avrebbe picchiata. Magari lei gli avrebbe mentito. Ma, gli occhi negli occhi, si sarebbero sempre più chiariti a vicenda, sempre più riflettendosi una nell’altro. In sostanza sarebbero stati bene insieme. Meravigliosamente bene. (Si cerchino l’un l’altro, allora, nel trambusto del mondo.)».

Rappresentazione del fondo oscuro di una società ridotta ai minimi termini, al tentativo di una coppia di esistere, che parla al cielo per ritrovare una forma, fosse anche solo immaginaria di luce.

Underground offre il ritratto di un mondo intero che si affolla assurdamente in una sola strada, lasciando dietro di sé uno stupore, misto sempre a perplessità, che diviene il sentimento guida dell’intero romanzo.

Un lungo e ostinato inseguimento di felicità che non sembra trovare ostacoli temibili lungo il proprio cammino: perché tutto è possibile quanto tutto diviene impossibile e quando ogni cosa perde valore e non resta che un accenno di sguardo a offrire riparo e possibilità di liberazione.

Un rifiuto anche ostinato alla consolazione, con tutte le derive pericolose di cui negli anni lo stesso Putin si è approfittato chiudendo una parentesi democratica in nome di una gloria totalitaria (tutta di cartone) nuovamente imperiale. Resta così vividamente assurda quanto reale la figura ritratta da Makanin di Petrovič, vero rappresentante di un’essenza russa: «Ha respinto i due infermieri. E ha detto loro, con calma, rivolgendosi a entrambi come per chiarire le cose una volta per tutte: “Non spingete, vado da solo!” (Al tempo stesso liberando me, fraternamente, dall’insopportabile peso del rinnegato. Era voluto tornare lui…) E si è perfino raddrizzato, fiero, anche solo per quell’istante: il nostro genio russo, pesto, umiliato, strattonato, sporco di merda e ciononostante: non spingete, ci arriverò da solo!». Una liberazione che sa di solitudine, un eroismo che sa di sacrificio e un romanzo così potente e allegro da essere tragico, ma così fortemente classico da offrire uno spessore e un senso a un tempo in cui la guerra e la violenza conquistano i cuori, rivelando un’indole umana che si pensava ormai diradata e lasciata ai conflitti e alla lotta politica del passato.

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