

N el primo dei tre episodi che compongono il film Mystery Train di Jim Jarmusch (1989), Mitsuko e Jun, una coppia di giovani giapponesi ossessionati da Elvis Presley, giungono in un hotel di Memphis per intraprendere un pellegrinaggio laico nei luoghi in cui è cresciuto il “re del rock and roll”. Quando arrivano, è notte. Vengono accompagnati alla loro stanza dal facchino dell’albergo, posano l’enorme valigia rossa sul letto ‒ l’unico bagaglio che hanno con sé ‒ e una volta rimasti soli, si incagliano immediatamente in un tempo immobile, annoiato. Seduta sul pavimento, Mitsuko si distrae incollando su un quadernetto immagini di Elvis ritagliate da giornali, Jun comincia a scattare decine di fotografie alla stanza. Incuriosita, Mitsuko gli chiede: “Perché fai foto solo alle stanze in cui soggiorniamo e mai a quello che vediamo fuori mentre viaggiamo?” e Jun le risponde: “Quelle altre cose sono nella mia memoria. Le camere d’albergo e gli aeroporti sono le cose che dimenticherò”.
Luoghi e nonluoghi
Negli anni, non ho avuto la stessa lungimiranza di Jun e ho finito per dimenticare molti luoghi. Come lui, mi riferisco alle camere d’albergo, così come agli ostelli e agli Airbnb, ma più ci rifletto più mi accorgo di come questa categoria di spazi abbia in tempi recenti cominciato a perdere la sua specificità. Se un tempo rappresentavano un mondo a sé, quello della transitorietà e della transazionalità dell’hospitality, oggi invece mi sembra si confondano sempre più, almeno nella mia esperienza di vent’anni a zonzo per l’Europa e non solo, con ciò che ho sempre identificato come “casa”‒ quel luogo che, almeno sulla carta, dovrebbe incarnare un maggiore senso di appartenenza, in qualità di spazio intimo, identitario.
Dopo aver rivisto Mystery Train, per giorni non ho potuto fare a meno di ripensare alla filmografia di Jarmusch, e subito mi ha colpito la frequenza con cui il regista, nei suoi primi film, abbia spesso scelto come ambientazione spazi liminali: il taxi (Night on Earth, 1991), la prigione (Down by Law, 1986), i motel, i bar e gli aeroporti (Stranger than Paradise, 1984). Il tipo di luoghi, insomma, che Marc Augé mi ha educato dai tempi di un esame della triennale a identificare come nonluoghi ‒ anche se è interessante notare come i film appena menzionati siano antecedenti a questo concetto, visto che l’opera del filosofo francese è stata pubblicata solo nel 1992. Questo mi ha fatto pensare che Jarmusch avesse già intuito qualcosa su come alcuni luoghi non solo rappresentino, ma inducano all’alienazione.
Naturalmente, le riflessioni sulla relazionalità degli spazi vissuti hanno precedenti illustri. Penso agli spazi quotidiani dissezionati da Georges Perec, alle eterotopie di Michel Foucault, alla liminalità dei luoghi rituali di Arnold van Gennep prima, e Victor Turner poi: privato, politico, sociale. Tuttavia, mentre proseguivo su questa linea di pensiero, qualcosa continuava a riportarmi sulle stanze d’albergo e sull’idea di casa. Facendo avanti e indietro tra queste due categorie distinte, questo andirivieni ha cominciato a sfumarne e consumarne i contorni, e a renderle sempre meno distinte di quanto pensassi, per poi cristallizzarsi in un sospetto: l’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo?
L’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo?
È una domanda audace, ne sono consapevole, ma nel porla mi avvalgo del benestare di Marc Augé, secondo cui “la possibilità del nonluogo non è mai assente da nessun luogo”, soprattutto nell’attuale surmodernità, o modernità eccessiva ‒ di tempo, di spazio, di ego. Le premesse ci sono, quindi; ma andiamo con ordine. Essendo l’appartamento uno spazio (e in quanto tale, direbbe Foucault, “nell’esperienza occidentale ha una storia” fatta di regolamentazioni e decodificazioni), per indagare il sospetto che stia diventando un nonluogo mi trovo costretto ad avventurarmi in territori più impervi rispetto a quelli della letteratura o del cinema. Territori come quello delle normative e delle leggi, che in questo caso si rivelano sorprendentemente più eloquenti della rappresentazione. È lì, infatti, che ritrovo quel possibile “intreccio fatale del tempo con lo spazio” di cui parla Foucault, che è alla base di come percepiamo i luoghi che abitiamo.
Normative e leggi
Un articolo del Corriere della Sera del 2024 sostiene che in Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al proprietario di casa nello stipulare contratti molto più brevi: ‘contratti turistici’ di pochi giorni, ‘contratti transitori’ che riducono la durata minima a un mese, ‘contratti studenteschi’ con durate anche di sei mesi. Generalmente, continua l’articolo, la tipologia più popolare rimane quella del contratto ‘a canone libero’, con durata di quattro anni prorogabili a discrezione del proprietario di altri quattro (conosciuto anche come contratto 4+4).
Queste dinamiche rispecchiano mediamente i modi contrattuali diffusi nel resto d’Europa, dove la durata degli affitti oscilla tra uno e tre anni. È quanto accade anche in Germania, dove vivo dal 2013 e la legge sembra flessibile quanto in Italia, permettendo ai proprietari degli immobili di modellare arbitrariamente le condizioni che impongono agli affittuari. La normativa sugli affitti tedeschi dice che i contratti devono avere una durata minima di due anni e disdetta possibile solo a fronte di un preavviso di tre mesi. Il costo degli affitti è regolamentato dal Mietpreisbremse (freno degli affitti), che non consente di superare del 10% la media del quartiere (come spiega un articolo di Rivista Studio, però, questa misura non si applica alle “case già arredate che vengono messe in affitto per brevi periodi e per motivi di lavoro”). Un’altra clausola comune è quella del sistema Staffelmiete che permette aumenti annuali progressivi del costo dell’affitto fino a un massimo del 15% nell’arco di tre anni.
Queste sono le condizioni standard, tuttavia le eccezioni sono all’ordine del giorno, in Germania come in Italia come nel resto d’Europa. Ricordo tre anni fa quando a Berlino mi fu proposto un contratto di affitto della durata di quattro anni, senza possibilità di rinnovo, e ogni anno il costo sarebbe aumentato del 12%, in barba alla regolamentazione dello Staffelmiete. Quando il proprietario me lo propose, aspettandosi che firmassi immediatamente, non esitai a fargli notare che un aumento annuale simile era ridicolo. Lui rispose, “È assolutamente normale, invece: è pensato per rispecchiare l’inflazione”. Forse pensava che dietro la mia titubanza linguistica nel parlare tedesco burocratico si celasse anche una certa titubanza di pensiero? Non riuscii a frenare una risata, “Sta scherzando, vero? Un’inflazione del 12% annuo? Per quattro anni di fila?”
In Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al proprietario nello stipulare contratti molto più brevi.
Temporeggiai dicendogli che ci avrei pensato su. Ero disperato, avevo assolutamente bisogno di un appartamento. Corsi immediatamente dal mio Mieterverein (“associazione degli inquilini”), un’istituzione tutta tedesca che tutela i diritti degli affittuari e fornisce consulenza legale gratuita ai soci a fronte di una quota d’iscrizione annuale di circa 100 euro. Anche l’avvocato del Mieterverein scoppiò a ridere leggendo il contratto e mi disse, “Certo, firmalo pure, perché è completamente illegale. Appena firmato gli facciamo causa. Tranquillo, i contratti con clausole illegali non sono validi.” Infine non me la sentii di cominciare una relazione del genere con un nuovo proprietario di casa, consapevole che sarebbe stata tossica fin dall’inizio. Continuai la mia ricerca.
Affitti e subaffitti
Mentre visitavo un numero spropositato di appartamenti che non riuscivo ad accaparrarmi (tra cui un tarkovskyano 40 metri quadrati senza cucina né sanitari, di cui avrei dovuto farmi carico personalmente), trovai come soluzione temporanea un meraviglioso appartamento di 70 metri quadrati in sublocazione per otto mesi, nella bella Prenzlauer Berg. Dopodiché, mi spostai per tre mesi in un 50 metri quadrati in un angolo particolarmente caotico di Neukölln. E infine, per due mesi soltanto in un minuscolo 30 metri quadrati a Kreuzberg. Per chi vive o ha vissuto in qualsiasi grande città europea, questa storia vagamente picaresca non è certo una novità.
Come racconta un articolo del novembre del 2023 apparso su The Berliner, il problema dei contratti brevi è strettamente legato alla carenza di nuovi appartamenti, a causa di un continuo incremento della popolazione: “Secondo l’Ufficio di statistica di Berlino-Brandeburgo, alla fine del 2022 vivevano a Berlino almeno 141.000 persone in più rispetto a cinque anni prima, e un piano di sviluppo urbano della città pubblicato nel 2019 sostiene che Berlino ha ora bisogno di almeno 194.000 appartamenti in più entro il 2030 per tenere il passo con questa crescita demografica.” La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e delle agenzie immobiliari (Hausverwaltung) un potere immenso.
In questo scenario sempre più distopico, i fortunati berlinesi che vantano un vecchio contratto a tempo indeterminato (Unbefrister Mietvertrag) tendono a tenerselo stretto, anche nel caso programmassero di lasciare la città per più o meno lunghi periodi, e optano per il subaffitto, spesso in tutta segretezza, senza coinvolgere il proprietario di casa o l’agenzia che gestisce l’immobile. Questo ha dato origine, negli ultimi anni, a un mercato che “prospera grazie a una massa involontaria di persone intrappolate in un circolo di alloggi a breve termine, Airbnb prolungati e altri accordi temporanei”. Senza considerare che queste soluzioni di subaffitto comportano spesso costi più elevati degli affitti regolari ‒ perché vuoi non farci la cresta? ‒ e i disperati alla ricerca di un tetto in molti casi devono accettare, per dividere le spese, di trovarsi uno o più coinquilini.
La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e delle agenzie immobiliari un potere immenso.
Occasioni ed erosioni
Quando ci si trova in balia di contratti sempre più restrittivi che impongono di cambiare casa ogni pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti ammobiliati diventa inevitabile. Si impara presto, nell’innegabile scomodità del dover traslocare di continuo, che gli appartamenti ammobiliati offrono un servizio fondamentale. Con il loro particolare universo fatto di arredi più o meno usurati, soprammobili e souvenir che raccontano storie non nostre, materassi e cuscini ingialliti dal tempo e dai sudori notturni di chissà chi, gli appartamenti prearredati offrono una straordinaria libertà: si possono chiamare “casa” non appena si appoggiano le valigie a terra e li si può dimenticare altrettanto facilmente, abbandonandoli in qualsiasi momento così come li si è trovati.
Mi sono illuso per anni che questa libertà mi rappresentasse e un po’ mi piacesse: come per la sindrome di Stoccolma, chiamiamola rassegnazione. L’idea di dover lasciare qualsiasi posto da un momento all’altro, sempre pronto a impacchettare tutto in poche ore e partire. Dove sarei andato? Una soluzione l’avrei trovata: si trova sempre. Ero libero, libero di andare dove volevo, ovunque e all’improvviso.
Solo recentemente ho capito che non si trattava affatto di libertà, ma del suo esatto opposto. Come sostiene James Greig in un articolo per Dazed, “la crisi abitativa comporta una ‘disastrosa perdita di libertà’ […] Abbiamo meno libertà di scegliere dove vivere, meno libertà di sentirci sicuri e di vivere vite dignitose. Oggi, tutti tranne i giovani più benestanti sono soggetti alla precarietà abitativa in qualche forma (il che comprende avere difficoltà a pagare l’affitto, il sovraffollamento, dover traslocare frequentemente, o spendere un’alta proporzione del proprio reddito per l’alloggio)”.
Quando ci si trova in balia di contratti che impongono di cambiare casa ogni pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti ammobiliati diventa inevitabile.
Questo tipo di precarietà causa un’ansia ambientale cronica. Rende più difficile rilassarsi, godersi il tempo che si ha nel posto in cui si vive […] Si avverte un senso di nostalgia anticipatoria, aspettando il giorno in cui si verrà cacciati. Permettere a sé stessi di provare qualsiasi tipo di attaccamento sembra inutile: perché preoccuparsi di legare con la propria comunità locale quando si sa di essere lì in prestito? Non c’è da meravigliarsi che la solitudine sia così comune quando le persone sono disincentivate dal mettere radici nelle aree in cui vivono. Una casa dovrebbe fornire sicurezza, protezione, qualche tipo di barriera dal mondo esterno. Se funzioni realmente così in pratica, non ne sono sicuro, ma la sua assenza può certamente essere sentita.