L e foto di questi luoghi mi affascinano da sempre. Ricordo la prima volta che vidi quella diapositiva proveniente dalla macchinetta analogica di mio padre, che ora è la mia. La foto ritraeva i miei genitori davanti a una palafitta altissima e immersa nella foresta. Quella foresta è la foresta amazzonica peruviana e quella foto risale al loro viaggio di nozze nell’ormai lontano 1989.
Proprio quest’anno a Palazzo delle Esposizioni a Roma ho visitato la mostra del World Press Photo e, tra le tante foto strazianti ma necessarie che erano appese alle pareti bianche, ho trovato anche l’Amazzonia, questa volta stravolta dalla crisi climatica. Un giovane che per portare il cibo a sua madre in un villaggio un tempo raggiungibile in barca, ora si trova costretto a percorrere a piedi il letto di un fiume in secca. Una donna vive con il suo compagno e la loro figlia di due anni in una “casa galleggiante” che, sempre a causa della siccità, sembra galleggiare sul deserto più che sul fiume. Sono foto che mostrano gli effetti del cambiamento climatico come una realtà concreta capace di plasmare il futuro di comunità vulnerabili strettamente connesse con il mondo naturale.
Con il nome Amazzonia si intende un bioma, ovvero un insieme di ecosistemi, che si trova nel nord dell’America latina e ne occupa il 40%. È una delle regioni più estese del pianeta che con i suoi 7,8 milioni di chilometri quadrati risulta grande due terzi dell’intera Europa. A occhi inesperti, l’Amazzonia potrebbe sembrare un ambiente umido stabile. In realtà, è caratterizzata da due stagioni distinte: la stagione delle piogge e la stagione secca. I livelli naturali di inondazioni e siccità però stanno venendo potenzialmente alterati dal cambiamento climatico con conseguenze che vanno ben oltre l’equilibrio dell’ecosistema amazzonico stesso.
Il bacino amazzonico ospita la vasta e diversificata foresta pluviale amazzonica e il fiume più lungo al mondo, contribuendo così a diversi servizi ecosistemici. Da un lato, è il polmone verde che immagazzina l’anidride carbonica nella biomassa vegetale e nel suolo e produce circa il 20% dell’ossigeno mondiale contribuendo alla regolazione del clima locale e globale. Dall’altro, il Rio delle Amazzoni è il fiume che trasporta più acqua al mondo. Scorre dalle Ande all’Atlantico dove riversa ogni giorno circa 17 miliardi di tonnellate di acqua dolce, un quinto dello scarico mondiale, mantenendo i cicli dell’acqua attraverso il sistema delle correnti che distribuiscono calore sul pianeta. Il maestoso fiume sta però affrontando livelli record di acque basse a causa della grave siccità.
L’Amazzonia è il polmone verde che produce circa il 20% dell’ossigeno mondiale contribuendo alla regolazione del clima locale e globale, mentre il Rio delle Amazzoni è il fiume che trasporta più acqua al mondo.
Nel 2024 il Brasile ha perso 2,8 milioni di ettari di foresta, due terzi dei quali a causa degli incendi, spesso appiccati per fare posto alle coltivazioni di soia o agli allevamenti di bestiame. Nel complesso si sta comunque parlando di un anno in cui lo Stato brasiliano ha registrato una riduzione della deforestazione del 32,4% rispetto al 2023 (377.708 ettari). Il calo è attribuibile alle politiche di controllo dell’attuale governo, ma è ancora lontano il raggiungimento dell’obiettivo di zero deforestazione entro il 2030, annunciato dal presidente Lula all’inizio del suo mandato. Il dato riportato, anche se inferiore all’anno precedente, è comunque allarmante: in media, sono stati rasi al suolo 1.035 ettari di foresta al giorno, sette alberi ogni secondo.
A oggi, la deforestazione cumulativa per l’intero bioma amazzonico è stimata in circa il 18% della sua estensione dal 1987. Questo dato è in costante aumento e già equivale alla somma delle superfici di Francia, Italia e Portogallo. Numerosi modelli predittivi indicano il 20% di deforestazione cumulativa come un punto critico, un vero e proprio punto di non ritorno (o tipping point), la soglia oltre la quale la foresta si trasformerà in modo irreversibile innescando cambiamenti che possono autoalimentarsi e avere effetti a cascata su altri sistemi. La deforestazione incide direttamente sull’ecosistema, creando aree più asciutte e suscettibili agli incendi. Allo stesso tempo, il cambiamento climatico rende la foresta intrinsecamente più vulnerabile alla siccità. Quando queste due forze si combinano, il rischio aumenta esponenzialmente: una foresta già indebolita dalla deforestazione ha meno capacità di resistere a una siccità estrema indotta dal clima. Dati satellitari e modelli ecologici hanno dimostrato che la resilienza della foresta ai disturbi è in diminuzione dai primi anni 2000 e gli ultimi due anni hanno registrato una delle peggiori siccità della storia. Tra aprile e giugno 2024, ci sono state precipitazioni da record nello stato di Rio Grande do Sul, in Brasile. Queste hanno causato la peggiore inondazione nella storia della regione. Più di mezzo milione di persone sono state sfollate e più di 183 sono morte nelle inondazioni.
Lo scorso 21 maggio il senato brasiliano ha approvato un disegno di legge che allenta le norme sulle licenze ambientali cancellando ogni regolamentazione per vari progetti, dalla produzione di carne alla deforestazione. Il disegno di legge viene chiamato in gergo anche “‘progetto di legge della devastazione’ e non è un buon segnale ma è solo una conseguenza della situazione politica che abbiamo in Brasile”. Queste le parole di Emanuela Evangelista, biologa specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, membro dell’Unione internazionale per la conservazione della natura, presidente di Amazônia ETS e trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti.
La deforestazione, l’inquinamento e le altre pressioni antropiche del mondo globalizzato sono gravi minacce per la sopravvivenza della cosiddetta Frontiera incontattata.
Spostandoci invece nella parte più occidentale dell’area amazzonica raggiungiamo il Parco nazionale del Yasuní, localizzato nell’Amazzonia ecuadoriana e designato come patrimonio UNESCO nel 1989. In Ecuador, la foresta amazzonica copre circa la metà del territorio nazionale, sebbene rappresenti solo il 2% del bioma amazzonico totale. È una delle aree più ricche di biodiversità al mondo, nonché la casa di diversi gruppi di popolazioni indigene, tra le quali le Tagaeri e Taromenane che vivono in isolamento volontario. Un luogo incontaminato in cui però, da più di mezzo secolo, le aziende petrolifere bruciano il gas naturale prodotto dall’attività estrattiva emettendo sostanze altamente tossiche e dannose per l’ambiente e per la salute.
Rappresentando la maggior parte del bilancio generale dello Stato, la questione petrolifera in Ecuador è stata e continua tutt’ora a essere irrisolta. Per anni l’azienda Chevron-Texaco ha violato le norme ambientali riversando nei fiumi 16 miliardi di tonnellate di acque reflue: per questo nel 2011 è stata condannata a pagare all’Ecuador 9,5 miliardi di dollari per il danno ambientale causato. La compagnia ha poi lasciato il Paese, ma 14 anni dopo il risarcimento non è stato ancora versato. Ancora oggi, l’Unione delle persone colpite dalla Chevron Texaco (UDAPT), un’organizzazione che unisce almeno 80 comunità residenti nelle aree contaminate, ha mappato quasi 500 torri di combustione attive nell’Amazzonia ecuadoriana, testimoniando e denunciando gli sversamenti che quotidianamente colpiscono l’area.
All’interno del Parco nazionale del Yasuní ci sono sette blocchi petroliferi, tra cui il blocco 43, rimasto intatto almeno fino al 2013. Questo, noto anche come ITT, comprende i giacimenti di Ishpingo, Tambococha e Tiputini ed era stato oggetto dell’iniziativa Yasuní ITT: una proposta lanciata nel 2007 dal governo di Rafael Correa che mirava a evitare lo sfruttamento petrolifero nella zona più remota e meglio conservata del Parco nazionale in cambio di 3,6 miliardi di dollari di risarcimento da parte della comunità internazionale. Nel 2013, quando era stato raccolto nemmeno lo 0,5% di quanto previsto, l’iniziativa fallì e nella zona iniziò l’estrazione. Molti gruppi di giovani attivisti si unirono per difendere le riserve di petrolio dell’ITT, dando vita al collettivo YASunidos. Il gruppo si attivò per raccogliere firme e promuovere una consultazione popolare, ma le diffamazioni subite permisero di indire un referendum abrogativo solo dieci anni dopo. Così nell’agosto 2023, il 60% degli ecuadoriani ha votato a favore del mantenimento a tempo indeterminato delle riserve petrolifere nel sottosuolo e dunque del blocco delle attività estrattive, in un referendum che è passato alla storia.
Il presidente Lula si trova a governare in un clima politico estremamente teso e polarizzato dove la sua visione non trova sempre la maggioranza, cedendo così al modello proposto dall’opposizione.
Va inoltre sottolineato che per la costituzione dell’Ecuador l’adempimento dei referendum è obbligatorio, “Non è qualcosa che il governo può decidere o meno”, ricorda l’attivista. La Costituzione andina si distingue anche per essere la prima al mondo a riconoscere la natura come soggetto di diritto. “La stessa natura che stanno privatizzando e trasformando in un prodotto”, sottolinea Bermeo, facendo riferimento alla legge organica sul recupero delle aree protette e la promozione dello sviluppo locale, che è stata pubblicata il 14 luglio nel registro ufficiale della Repubblica dell’Ecuador. Una legge approvata in tutta fretta come una questione di urgenza in materia economica e che mette a rischio la conservazione dell’ambiente, la gestione pubblica dei territori protetti e i diritti collettivi.
“Stanno violando ancora una volta i diritti. Quindi ci sono due problemi, uno relativo alla natura e l’altro alle comunità indigene, violando il diritto alla consultazione preventiva”, denuncia Bermeo. L’attivista fa riferimento a un altro diritto presente nella Costituzione, che garantisce ai popoli indigeni la consultazione preventiva sui piani di sfruttamento dei loro territori. E considerando che “nelle comunità indigene più di 2.000 milioni di ettari di aree protette si intersecano con i loro territori ancestrali, questa legge è anche contro di loro”. Una legge contro più di 750.000 indigeni appartenenti a più di 12 gruppi etnici differenti. Oltre le comunità che scelgono di vivere senza contatti con la società esterna, anche gli altri hanno una forte connessione culturale e spirituale con la natura e la terra, che considerano fonte di vita e sostentamento.
Concludo le chiamate con Evangelista e Bermeo con la voglia di viaggiare e raggiungere queste mete, purtroppo divenute popolari soprattutto nel last chance tourism, quel turismo che mira unicamente a godersi il privilegio di poter sfruttare e fotografare le meraviglie della natura prima che scompaiano. Da un lato vorrei liberarmi da questo peccato originale che è l’occhio coloniale che ci marchia e mi chiedo se sia veramente possibile parlare di ecoturismo in queste aree. L’audio della chiamata non era ancora spento e Bermeo mi risponde prontamente portandomi l’esperienza di una forma di turismo possibile. Mi parla del turismo comunitario, un turismo ecologico, che rispetta la comunità ed è gestito dalla comunità stessa. Una ragione anche “per fornire un’alternativa alle comunità che sono totalmente abbandonate dal governo e che si trovano a dover collaborare con attività estrattive o minerarie”.