Andrea Staid
/ Immagine: "Romani anarchist flag", Luca Vitone (2018)
6.5.2020
Romanistan
Una conversazione con l'artista Luca Vitone.
Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, di antropologia culturale presso Università degli studi di Genova, Phd alla Universidad de Granada. Dirige per Meltemi la collana Biblioteca/Antropologia. Tra le sue ultime pubblicazioni: I dannati della metropoli (Milieu 2014), Contro la gerarchia e il dominio (Meltemi 2018), Disintegrati (Nottetempo 2020), La casa vivente (ADD 2021), Essere natura (UTET 2022). I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna, Cina, Portogallo, Cile. Collabora con diverse testate giornalistiche.
A
forza di essere vento, Rom e Sinti sono stati esclusi dalla società. Per essere più corretti, la popolazione romanì è da annoverare tra i popoli-resistenza che preferiscono l’esclusione all’assimilazione rivelando la volontà di non sottomettersi. Dal 1400 d.C. esistono numerosi documenti che riscontrano la presenza di comunità romanés più o meno in tutta Europa. Il modo di vivere, di vestire, di parlare e di comportarsi di queste genti venute da lontano appariva strano agli europei. Queste donne e questi uomini non erano inquadrabili negli schemi sociali e culturali europei e sfuggivano a qualsiasi controllo sociale. I cronisti che documentavano la loro presenza rimanevano colpiti soprattutto dalla diversità dell’aspetto esteriore, dal colore scuro della pelle, dagli strani comportamenti (come il modo di mangiare), dagli abiti che indossavano e dalla loro misteriosa lingua.
In Italia arrivarono quasi sicuramente nel XIV secolo, soprattutto in Abruzzo e più in generale nella parte meridionale dello stivale: diversi gruppi con carovane, case mobili di legno con ruote, cavalli, altri piccoli animali e poco altro. Il documento italiano più antico che testimonia la loro presenza sul nostro territorio è una cronaca cittadina del 18 luglio 1422 custodita nella biblioteca universitaria di Bologna. Nella maggior parte dei casi le popolazioni locali guardavano a questo popolo variegato e per nulla uniforme con grande stupore e curiosità. Fin da subito non furono accolti bene, e grande fu la discriminazione nei loro confronti, si pensi che dal 1483 al 1785 furono emanati ben duecentodieci bandi contro le comunità romanès. Il paese che più emanò bandi contro questa popolazione fu senza ombra di dubbio lo Stato Pontificio. In un arco di tempo di oltre sei secoli, la politica nei confronti dei Rom e dei Sinti, i due gruppi romanès di più antico insediamento presenti sul territorio nazionale, non è cambiata affatto nella sua sostanza: si basa, fondamentalmente, sul rifiuto della romanipé, ovvero della cultura e della identità romanì.
Questo trattamento, generalizzato in tutta Europa, è sicuramente uno dei fattori che ha reso queste comunità particolarmente nomadi: una mobilità coatta, diretta conseguenza delle politiche repressive attuate nei lori confronti. Non si è mai del tutto nomadi o sedentari (come ci ricorda ad esempio Leonardo Piasere): la distinzione tra sedentarietà e nomadismo è importante soprattutto per un osservatore esterno, e sono diversi gli studi che mostrano come sedentarietà e nomadismo possano essere strategie messe in campo in modo alternativo a seconda delle contingenze storiche. Momenti di mobilità sul territorio possono essere accompagnati da momenti di stabilità, con una turnazione stagionale, annuale o pluriennale a seconda della congiuntura economica. Le comunità romanès, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto insediarsi stabilmente in nessun luogo e sarebbero sempre state costrette alla fuga. Spinte a spostarsi per evitare violenze e misure repressive, sono state obbligate a vivere ai margini, in una perenne situazione di disagio e di emarginazione prive di qualsiasi diritto. Per autodifendersi le comunità romanès hanno così imparato ad autoescludersi dalla realtà circostante limitando, con essa, i rapporti al minimo indispensabile.
Luca Vitone ha riflettuto molto sul mondo Romanì. Da questa riflessione sono nati un film, una personale al centro Pecci di Prato e infine un libro (per Humboldt Books), tutti dal titolo Romanistan. Romanistan è il diario del viaggio che ha compiuto l’artista per ripercorrere a ritroso, da Bologna a Chandigarh, il cammino di Rom e Sinti dall’India nord occidentale fino all’Italia. Sulle tracce di una migrazione avvenuta tra l’VIII e il XIV secolo, Vitone approfondisce l’interesse per la cultura romaní. Il viaggio di ritorno alle origini del popolo Rom è rappresentato con uno sguardo “da fuori” che evita gli stereotipi ai quali i Rom sono comunemente associati, andando alla ricerca della borghesia intellettuale attraverso l’incontro con personalità della politica, attivisti e accademici. La ricerca artistica di Luca Vitone si concentra da molti anni sul rapporto tra il luogo e la mappa, tra la materialità delle cose e dell’esistenza e la loro perdita topologica, con una particolare attenzione rivolta alle trasformazioni sociali conseguenti all’inserimento di nuovi caratteri culturali sulle tradizioni locali. Ho avuto il piacere di incontrarlo per parlare del suo lavoro artistico e nello specifico del suo ultimo lavoro Romanistan:
Come nasce il tuo interesse per il mondo Romanì e quali sono le tue opere legate a questa cultura?
L’interesse nei confronti del mondo Rom avviene in età post adolescenziale, a seguito degli interessi che avevo all’epoca per le minoranze nel mondo. Ero appassionato soprattutto delle culture degli indiani d’America, nello specifico i Dakota. A un certo punto però ho riflettuto sul fatto che noi occidentali di sinistra, progressisti, aperti alle differenze, pronti a spenderci per le popolazioni lontane, se incontriamo un Rom su un treno, d’istinto cambiamo scompartimento. Una cosa assurda se ci pensi. Per questo ho voluto conoscere e approfondire la mia conoscenza del mondo Rom. I Rom sono gli stranieri meno stranieri d’Europa, ma contemporaneamente considerati i più estranei alla nostra cultura, sono con noi da più di seicento anni e continuiamo a considerarli degli stranieri, sono sempre un utile capro espiatorio e emarginati da tutti — spesso anche da altre categorie di emarginati. Questo a me interessa perché è una metafora del potere, di un’idea d’autorità, di una sopraffazione nei loro confronti.
Una discriminazione oltretutto immotivata anche da un punto di vista numerico: basti pensare che in Italia la popolazione romanì è stimata solamente attorno alle 170.000 persone, di queste circa il 60% sono cittadini italiani. Le comunità romanès “straniere” sono fondamentalmente Rom di recente immigrazione e si possono distinguere in: Rom della ex Jugoslavia (circa 30.000 individui arrivati in Italia, a diverse ondate a partire dagli anni Sessanta, molti dei quali negli anni Novanta in seguito alla pulizia etnica e alla guerra dei Balcani) e Rom rumeni di recentissima immigrazione (arrivati sia prima che dopo l’entrata della Romania nell’Unione Europea; circa 40.000 persone che vivono per la maggior parte nei campi nomadi). Ma tornando al tuo lavoro, come hai collegato il tuo interesse per queste popolazioni con la tua attività artistica, e che tipologie di opere realizzavi?
Quando ho iniziato il mio percorso artistico ho cominciato a riflettere su temi che servivano per esprimermi e realizzare oggetti che fossero anche una riflessione sul linguaggio dell’arte. A fine anni Ottanta utilizzavo soprattutto le fotocopie e la cartografia. Se ci pensi la cartografia è la convenzione che ci siamo dati per la natura del territorio e quindi l’oggetto che ci permette apparentemente di leggere un luogo. La mappa, insieme astratto di segni grafici che non trovano riscontro nella realtà, è una metafora del rapporto superficiale e inconsistente dell’uomo con il territorio, ormai ridotto a un semplice dato di fatto. Nella mia opera, cancellando i toponimi, cioè il riferimento culturale, dalle cartine topografiche, elimino lo strumento indispensabile per la loro decodificazione. Quindi i luoghi sulle mappe diventano irriconoscibili. Poi sempre in quegli anni utilizzo molto la fotocopia, un elemento per me metaforico per parlare di memoria e di altri termini convenzionali che ci fanno leggere e interpretare la nostra storia, come l’idea di radici, tradizione, formazione, memoria che a seconda del nostro approccio culturale assumono interpretazioni diverse. Mi concentravo su noi e il luogo pensando che quello che stavamo vivendo a fine anni Ottanta fossero dei territori non reali, ma che si rappresentavano attraverso la duplicazione (le fotocopie), non raccontavano la realtà ma una visione nostra della realtà. Posso dire che la Carta atopica che è in mostra ora al centro Pecci sintetizza il discorso dei primi anni di lavoro, dove cancello tutti toponimi e il paesaggio diventa anonimo, irriconoscibile, nonostante si tratti di una mappa riprodotta in una scala molto definita. Senza nome non riconosciamo il luogo, perché è il nome che identifica il paesaggio, costruiamo una sovrastruttura per riconoscere i luoghi.
E come hai collegato questa tua riflessione al mondo Rom?
Perché nel riflettere sul rapporto tra noi e i luoghi ho pensato ai nomadi. Che idea hanno di un luogo? Noi sedentari abbiamo un’idea precisa di un luogo. Sappiamo dove siamo nati, da dove proveniamo, ricordiamo sapori, suoni, odori, visioni. Quello che ho pensato in maniera ingenua è che i Rom fossero un mondo nomade e per questo ho coinvolto la comunità Sinti e Rom di Colonia per una mostra in cui abbiamo esposto delle opere che permettessero l’avvento di un convivio con cibi, bevande, musiche dal vivo e letture del futuro per l’inaugurazione e altre permanenti per la durata della mostra, che raccontassero di alcuni aspetti della loro cultura come la lingua, la memoria, l’idea del viaggio e la situazione sociale contemporanea. Temi, gesti e oggetti per creare una grande scultura, un’ideale opera totale. Questo lavoro l’ho realizzato anche grazie a Nagel, importante gallerista tedesco, con cui continuo a lavorare, che mi invitò a presentargli un progetto e capite le mie ragioni mi ha appoggiato subito: era il 1994 e l’esposizione era intitolata Der unbestimmte Ort (il luogo imprecisato).
Raccontami qualcosa in più su come avete strutturato e realizzato questo lavoro a Colonia.
Ho coinvolto sin dall’inizio del progetto la comunità Rom a Colonia e abbiamo lavorato all’evento insieme. Come artista ho utilizzato i miei linguaggi specifici e quindi l’uso di fotocopie. Questa è l’ultima mostra dove la fotocopia è uno degli elementi principali dell’opera, l’elemento spersonalizzante di un oggetto ma che ne trasmetteva l’informazione. Cibo e musica invece sono gli elementi della cultura materiale che favoriscono attraverso situazioni di convivialità una comunicazione interculturale. Con una serie di accorgimenti: nel cortile un gruppo di musicisti Rom ha suonato per tutta la giornata, abbiamo inaugurato la mostra il sabato a pranzo invece che nel classico giorno infrasettimanale alla sera per avere tutto il pomeriggio davanti a noi. Abbiamo proposto del cibo in degustazione preparato dalla comunità, abbiamo ascoltato musica dal vivo anche per ballare e socializzare in un’atmosfera distesa e di festa, in più su due pianerottoli dello stabile della galleria dietro a dei separé trovavano posto due chiromanti, una che leggeva le carte, una la mano. Nella mostra erano presenti altre quattro opere: una delle quali realizzata insieme ai ragazzi della comunità sul rapporto tra loro, in quanto comunità Rom, e gli “altri”, tedeschi o turchi; una sull’idea dell’emigrazione dall’India verso l’Europa; una sulla lingua e il suo non essere scritta: per l’occasione avevo realizzato un frasario, molto semplice come quello delle guide turistiche, elementi di prima conversazione che permettono un iniziale rapporto tra culture di lingue diverse. Infine una sulla memoria storica recente in Germania e quindi il samudaripé (la shoah zingara). E’ importante ricordare che sotto il nazismo i Rom e i Sinti, in quanto indoeuropei e quindi di ceppo ariano, vennero studiati in una struttura concentrazionaria attorno a Berlino per capire se ci fossero affinità con la razza tedesca, ma la loro indole, per così dire “indisciplinata”, li ha fatti alla fine considerare degli asociali ed essere deportati in vari campi di concentramento e di sterminio. Ad Auschwitz vennero rinchiusi tutti insieme, senza essere separati tra femmine e maschi, per non essere mischiati alle altre comunità internate, considerandoli un problema di tipo sociale, piuttosto che razziale o politico. Oggi la maggior parte dei Rom che vive in Germania è arrivata dopo la seconda guerra mondiale perché i nazisti eliminarono la quasi totalità della popolazione residente all’interno dei confini del Reich nel piano concentrazionario industriale del lager.
L’oralità è un punto molto importante della cultura romanes il fatto di non avere una tradizione scritta ha fatto sì che fossero sempre gli altri a parlare di loro.
Assolutamente. Per questo ne ho voluto riflettere con un’opera, è da quegli anni che la realizzazione di un lavoro sul viaggio migratorio che hanno compiuto queste popolazioni dalla lontana India mi è rimasto sempre in testa: un viaggio avvenuto ma del quale non si hanno dei documenti precisi che definiscano esattamente quello che è successo. Non hanno mai scritto nulla di questo lungo viaggio proprio perché sono una cultura orale, o meglio lo sono stati, perché nel Novecento comincia una sistematizzazione della lingua, definita con la nascita della International Romani Union nel 1971.
Altra opera che hai realizzato molto interessante è la bandiera nera con la ruota rossa, una sovrapposizione del mondo anarchico con quello Rom e Sinti , perché?
Quest’opera è stata prodotta la prima volta nel 2002, ma arriva dalle riflessioni nate dalla bandiera Rom che ho dipinto su una parete a Colonia nel ‘94, e da un’altra mostra che ho realizzato a Basilea nel ‘96 dove racconto l’altra città, ovvero la storia di una città non con i soliti itinerari turistici, ma tracciando un itinerario dei luoghi anarchici della città. Volevo uscire dallo spazio espositivo convenzionale per andare a trovare luoghi diversi nella città. Era importante passeggiare per le vie guardando a una storia diversa, parallela, non conosciuta. Nello specifico avevo preso in considerazione una decina di luoghi legati al movimento anarchico, dal posto dove si era svolto un congresso della Prima Internazionale fino alla casa occupata con centro culturale di ultima generazione e in tutti avevo appeso una bandiera nera con bordo rosso, che rappresenta una delle prime bandiere anarchiche di fine Ottocento. Insomma da una parte la bandiera Rom e dall’altra quella rossa e nera degli anarchici, due bandiere e due storie emblematiche per raccontare qualcosa di esistente ma non gradito: il movimento anarchico continua a essere, come il mondo Rom, un facile capro espiatorio a cui indirizzare il malcontento sociale. Spesso in situazioni dove si vuole nascondere una verità politica o banalmente non si sa come risolvere un problema, si dà la colpa a loro (la strage di Piazza Fontana e la storia di Pinelli e Valpreda la dicono lunga sulla questione). Quindi per non dilungarmi troppo ho ibridato le due bandiere ed è venuta fuori una bandiera nera con una ruota rossa posta al centro, una bandiera che al momento è issata fuori dal centro Pecci dove c’è la mostra Romanistan.
Il che è curioso, perché le bandiere tradizionalmente sono legate a una nazione a un territorio, a una identità che si forma su un luogo specifico, invece sia quella Rom che quella anarchica no.
Esatto, per questo le ho incrociate: una cosa che mi incuriosiva è il senso del creare a un certo punto della storia una bandiera Rom, un atto che va al di là del convenzionale. Non è mai esistita tradizionalmente una loro bandiera, non ne hanno mai avuto bisogno, non hanno mai avuto uno Stato, né un esercito o un’ideologia da propagandare. Per l’esigenza di essere riconosciuti la “inventa” nel ‘71 la International Romani Union, che nel ‘79 viene accolta dalle Nazioni Unite come rappresentante del popolo Rom nel mondo. Insomma una bandiera non bandiera, come quella anarchica che è sì il vessillo di un’ideologia, ma un’ideologia talmente aperta e contraddittoria che nell’opinione comune è spesso considerata impossibile da realizzarsi. È una bandiera che veicola un’idea, un qualcosa che può essere esperito in modo individuale e collettivo. Due bandiere che identificano qualcosa in apparenza molto debole, quindi mi interessava l’aspetto aleatorio di questa fragilità. Ho deciso di unire questi due segni per comunicare con un oggetto un’idea di libertà di pensiero al di là di ogni confine. Nero e rosso della bandiera anarchica e ruota Rom, simbolo di movimento e metafora di vita e continuità, di passaggio tra una generazione all’altra, tra un luogo e l’altro. Oltre che una bandiera negli anni è diventata una cartolina, un vaso da fiori, una spilletta, una vela da barca, un segno, ogni volta contestualizzato in oggetti diversi diventando un segno che identifica un percorso.
Concentriamoci sul tuo ultimo lavoro, Romanistan: prima di tutto un viaggio, poi un libro, una mostra e un film. Come nasce la voglia di tornare oggi a fare il viaggio, come lo hai strutturato e con chi hai collaborato?
Nel 2008/2009 mi viene in mente, sollecitato da miei desideri di tornare a parlare di Rom, la possibilità di realizzare un viaggio al contrario sulle tracce della migrazione storica della popolazione Romanì. Per anni non ho più parlato di questo mondo perché volevo evitare di fare oggetti o mostre che potessero essere fraintese, non volevo essere “l’artista che usa i Rom” né “l’artista dei Rom”. A me interessa lavorare sul linguaggio dell’arte attraversando dei temi che mi sembrano utili allo scopo. Però ho sempre viaggiato, almeno fino alla fine degli anni Novanta. Poi mi sono annoiato e infastidito del mio ruolo di turista soprattutto per quanto riguarda i viaggi intercontinentali, e quindi ho deciso di non viaggiare più, o meglio di farlo solo per lavoro.
Anche a me succede la stessa cosa, faccio fatica a viaggiare perché mi sento rinchiuso negli schemi della fabbrica del turismo, cosa diversa invece quando viaggio per lavoro etnografico.
Sì è difficile uscire dagli schemi del turismo “pianificato”: nel ‘77 ho avuto la fortuna di fare un viaggio con i miei genitori da Genova a Teheran, per me è stato una sorta di viaggio iniziatico, un viaggio di formazione fondamentale. Siamo partiti in Peugeot 204 con carrello tenda al seguito e siamo arrivati a destinazione senza problemi. Sulla strada incontrammo mezzi di ogni fattezza tra cui camion e autobus che da Londra e Amsterdam andavano in Afghanistan o in India. Lo raccontai nella mostra “Ultimo viaggio” del 2009 alla Nomas Foundation di Roma.
Un viaggio che oggi è diventato impossibile fare, quantomeno via terra, tra frontiere chiuse, e i troppi pericoli di un mondo che è cambiato velocemente, soprattutto dopo il 2001.
Ma anche da prima, direi dalla rivoluzione khomeinista e con i sovietici che occupano l’Afghanistan: da quel momento il mondo è cambiato, è stato varcato un confine di impossibilità per quel viaggio che per secoli aveva unito oriente e occidente, dal ‘78/’79 si interrompe questa tratta. Questo sogno del viaggio hippie però mi è sempre rimasto in testa, un’esperienza che oggi appunto non si fa più, il viaggio via terra non è più plausibile non solo per i pericoli e le frontiere ma anche perché tutto si è velocizzato, oggi gli spostamenti intercontinentali sono impensabili via terra, si fanno solamente per via aerea. Sul ricordo di questa esperienza fatta con i miei genitori ho strutturato questo viaggio verso l’India come un viaggio a ritroso, un ritorno a casa sulle tracce della migrazione Rom, una sorta di ricerca delle origini. Sono partito consapevole di viaggiare per trovare qualcosa che non c’è. Nella nostra mente si forma la rappresentazione di un’idea di luoghi attraverso narrazioni terze, il ritorno invece è sempre più realistico, con elementi inaspettati e magari non previsti che creano spesso delle disillusioni. Non è semplice tornare sulle tracce del mondo Rom perché non c’è una architettura Rom, non ci sono elementi fisici che ci testimoniano il viaggio da loro intrapreso, come non ci sono racconti interni, propri scritti che ne tracciano il percorso. Quindi un viaggio difficile, su tracce astratte: sul territorio non vedi nulla che testimoni del loro viaggio, ma forse vedi quello che hanno visto i loro occhi centinaia di anni fa, un paesaggio migliorato o peggiorato dalla modernità, ma se ci pensi il deserto rimane un deserto, una pianura è pianura e un mare è mare. Il paesaggio ci racconta qualcosa di perenne che per quanto mutato mantiene caratteristiche determinanti. La lingua Rom invece è un elemento importante perché ci permette di definire il viaggio, si è costruita con il viaggio. Persiano, Armeno, lingue dell’impero bizantino, lingue europee e il sanscrito, da cui tutto è partito. E anche se, come sappiamo, la lingua si trasforma di generazione in generazione, di questi passaggi ne rimangono le tracce che ci permettono di comprendere il loro percorso. Anche la musica è un elemento sostanziale perché diventa il linguaggio culturale di queste comunità.
Chi ti ha aiutato e accompagnato in questo viaggio?
In tanti mi hanno supportato e finanziato oltre ovviamente al ruolo determinante del MiBACT attraverso l’Italian Council e il Museo Pecci, ma la persona che l’ha reso possibile dal punto di vista culturale è stata sicuramente Santino Spinelli, figura fondamentale: senza di lui non avrei incontrato le persone che ho intervistato per costruire il film. Santino è un esponente del International Romani Union, professore universitario, compositore e musicista ed è stato il mio ambasciatore con cui ho raggiunto le persone intervistate per il film. Le persone che abbiamo deciso di intervistare e incontrare fanno parte dell’intellighenzia Rom: non volevo cadere nello stereotipo del Rom emarginato, di periferia. La mia amicizia con lui prende forma negli anni novanta quando mi ha fatto recapitare nel’ 96 il diploma che attesta la vincita del premio Amico Rom ricevuto per la mostra di Colonia del ‘94. È l’unico diploma che ho appeso in studio.
So che siete partiti con due macchine, delle fuoristrada attrezzate, da Bologna il 25 Maggio del 2019, vi siete spostati solo via terra per quarantatré giorni, circa 12.000 Km per arrivare in India a Chandigarh, la città dove nasce negli anni Settanta il primo centro di documentazione sulla cultura Rom. Puoi raccontarci qualche tappa?
Sicuramente una delle tappe iraniane è stata particolarmente rocambolesca. Grazie a Orhan Galjus, attivista che vive ad Amsterdam, riusciamo ad organizzare un incontro importante a Teheran con un grande musicista, Bahzad Zargar. Arriviamo distrutti nel pomeriggio in albergo, un albergo di lusso (nel viaggio abbiamo dormito ovunque, dalla tenda lungo la strada ai grandi alberghi). In questo caso eravamo sistemati bene e chiedo subito al direttore dell’hotel dove posso fare delle riprese e svolgere un piccolo concerto per il film. Il direttore ci dà il permesso di farlo nel negozio dell’hotel che vende i tappeti, luogo perfetto sia per il suono che per la scenografia. Nel giro di due ore è tutto pronto per le riprese, parte il ciak e inizia la musica. Non facciamo in tempo a registrare il primo brano che arrivano gli uomini della sicurezza e ci dicono che dobbiamo fermare tutto. Non capisco, abbiamo tutte le autorizzazioni… ma la sfortuna vuole che proprio in quei giorni nell’hotel ci sia un incontro di ministri caucasici, e noi siamo costretti a spegnere tutto. Non possiamo rinviare perché il giorno dopo il viaggio deve continuare, per cui decidiamo di trasferirci nella villa di Zargar, a un’ora e mezza dall’hotel. Ricostruiamo tutto e in un ambiente denso di emozioni e informazioni sulla famiglia del musicista Rom, partono le riprese e la festa. In poco tempo riescono a organizzare un banchetto improvvisato con portate servite direttamente su vassoi di alluminio che arrivavano dalla vicina rosticceria, il tutto annaffiato da ottimo tè, succhi, yogurt, Fanta e Coca Cola (perché ovviamente nessun tipo di alcolico è servito). Finito tutto, a notte fonda, torniamo in taxi all’albergo per ripartire presto in mattinata verso Isfahan.
E luoghi di natura particolari? Pericoli durante il viaggio?
Dal punto di vista paesaggistico sono rimasto colpito molto dai meravigliosi boschi della Bulgaria e dalle montagne della Georgia. Pericoli veri non direi, però situazioni di tensione le abbiamo vissute, soprattutto in Belucistan, ovvero nel Pakistan nord occidentale. Per attraversare determinati territori siamo stati obbligati a contrattare la scorta armata, e questo ha rallentato il viaggio e reso tutto più complicato. La scorta armata ci ha accompagnato per l’attraversamento del Pakistan.A Quetta ci hanno obbligati a stare fermi un giorno senza farci uscire dall’albergo per motivi di sicurezza, per paura che ci potesse succedere qualcosa. Ci siamo scontrati con tanta burocrazia alle frontiere, soprattutto dall’Armenia in poi, ma nessuno era mai aggressivo. Quindi qualche disguido, più che problemi seri, ma in Pakistan è stato difficile entrare, è anomalo che qualcuno voglia passare da lì in macchina, non è da turista, quindi crei un caso, devi essere compreso. Va considerato che il Belucistan è considerato uno dei posti più pericolosi della terra: ci sono traffici di armi, droga e umani e come se non bastasse sono varie le lotte intestine, indipendentiste e islamiche radicali. Per la nostra sicurezza, oltre alla scorta, abbiamo dovuto passare anche una notte in tenda nella caserma della polizia di Taftan. Però tutto sommato è stato un viaggio tranquillo. I pakistani ci guardavano spesso con sguardi torvi, ma bastava un sorriso e un ciao con la mano che si scioglievano in modo ospitale e simpatico.
Immagino, mi è capitato spesso viaggiando di incontrare questi sguardi apparentemente di sfida maschile, credo che abbiano a che fare con una costruzione antropologica della mascolinità. L’identità maschile è evidentemente una lunga costruzione culturale fatta di gesti, modi, posture che modellano il corpo, tecniche insegnate e apprese dagli altri uomini della comunità nella quale si vive, delle posture di mascolinità “obbligate” dalla società che si apprendono in modo formale o mimetico fin dalla nascita. Ma torniamo al viaggio, e in particolare al libro che ne è nato. Chi ne ha scattato e con che macchina le fotografie?
Le foto le ho scattate io, oltre a curare la direzione del film. Le ho fatte con il mio iPhone, non essendo un fotografo mi interessa lavorare con uno standard semplice, così come nei primi anni del mio lavoro scattavo con una Yashica 35 mm usando pellicole per diapositive Kodak, oggi uso l’iPhone. Mi interessa l’atto fotografico del turista. Degli appunti visivi, semplici e immediate immagini testimoni di un’esperienza. La riflessione parte dal fatto che se voglio lavorare sull’elemento standard non posso non considerare il fatto che oggi le foto si fanno con il cellulare nel novanta per cento dei casi. Anche le foto in mostra a Prato sono scattate con il cellulare, nel libro ce ne sono 119, 43 in mostra, su un totale di un migliaio di scatti.
Concludo con una domanda sulle cartoline che hai mandato a tuo figlio da ogni tappa del viaggio, in un epoca di testimonianza immediata del viaggio, tra chat, video chiamate e costante presenza, perché hai scelto questo mezzo di comunicazione?
La cartolina mi è sempre piaciuta, l’ho usata molto fino al 2000 per raccontare i viaggi e salutare gli amici. Volendo c’è anche un legame con l’arte, da Fluxus, all’arte concettuale e a altre esperienze contemporanee o precedenti, abbiamo esempi molto interessanti dell’uso della cartolina. In quegli anni nasce anche la mail art caratterizzando una pratica artistica. Credo sia un peccato aver perso l’uso della cartolina: forse non ce ne rendiamo conto per colpa dei nostri device sempre connessi, iper realistici, però quando torniamo a casa e la troviamo nella cassetta delle lettere rimaniamo sorpresi e spesso si trasforma in un oggetto feticistico particolare. L’opera in cui avrei usato le cartoline, a essere sincero, era l’unica che avevo previsto prima di partire. Da ogni tappa ne avrei spedita una a mio figlio, e non solo a lui, anche ad amici. A ognuno la sua piccola opera, la sua testimonianza del viaggio. Ora quelle cartoline sono appese perpendicolarmente alle pareti delle sale a sottolineare il percorso del viaggio. Un altro riferimento a me caro che ha caratterizzato una delle opere in mostra è dedicato a mio padre, mancato pochi mesi prima della partenza. I suoi sandali sono diventati una scultura ora in mostra al Museo Pecci insieme a una dozzina di altre opere, di cui la metà inedite pensate proprio durante il viaggio. Li ho indossati per tutto il percorso: mi sono fatto accompagnare simbolicamente in questo nostro ultimo viaggio, e al ritorno li ho fusi in bronzo e posati su una superficie di terra del Punjab.
Tutte le foto sono tratte dal libro Romanistan (Humboldtbooks, 2019), per gentile concessione dell’autore.