A detta di molti, la migliore performance teatrale di Gwyneth Paltrow non si trova in Shakespeare in Love o nei Tenenbaum, ma è quella che si è svolta lo scorso marzo all’interno delle aule del tribunale di Park City, nello Utah, durante il processo che riguardava uno scontro avvenuto tra la stessa Paltrow e Terry Sanderson, un optometrista in pensione, su una pista da sci di un resort di lusso dello stato americano. La performance che ha ricevuto tanto plauso non riguardava però tanto le parole pronunciate da Paltrow o lo stile della sua difesa (anche se la sua bizzarra protesta per aver perso “metà giornata di sci” ha fatto il giro della stampa per finire ricamata su un cappello), ma il suo abbigliamento.
Chic miliardario: il significato dei look di Gwyneth Paltrow in tribunale (The Guardian) e Come curare un guardaroba che dica “sono innocente” in tribunale, secondo Gwyneth (Vogue UK) sono solo due dei tanti articoli che la stampa ha dedicato allo stile dell’attrice-imprenditrice a processo; ognuno di questi pezzi non può fare a meno di notare quanto Paltrow, pur colta nella contraddizione per cui non poteva vestirsi in modo troppo appariscente (è già una celebrità) ma neanche troppo dimesso (è pur sempre una celebrità), sia stata capace di presentarsi a un tempo come ragionevole, seria e superiore a qualsiasi cosa si stesse discutendo in quell’aula.
Mentre il tribunale si trasformava in una passarella, Paltrow ha indossato maglioni in cashmere, camicie abbottonate, cappotti lunghi, gonne ampie, tutto in colori neutri, ogni capo senza loghi riconoscibili, a lasciare ai commentatori il compito di indovinare la marca. I maglioni sono Loro Piana? La giacca è Ralph Lauren? Mentre i giornalisti si affannavano a indovinare chi li avesse prodotti, Paltrow assurgeva rapidamente a emblema del quiet luxury, la ricchezza “sussurrata” di chi è ben ricco, ma ci tiene soprattutto a sfoggiare la propria eleganza e savoir faire, ossia il proprio capitale culturale su quello economico (o, è meglio dire ed economico, dato che ognuno di questi capi costa migliaia di euro). Nel suo caso, la classe dimostrata dagli abbinamenti diceva: una persona con così tanto gusto non è certo una criminale, sarà stato un errore! (Non sappiamo se i vestiti abbiano giocato un ruolo particolare o se lo abbia avuto la sua influenza – sebbene a farle causa fosse un altro super ricco – ma sta di fatto che Paltrow è stata scagionata).
La figura della moda che più di tutte è stata capace di codificare da un punto di vista estetico questa ricchezza “sussurrata” è certamente Phoebe Philo, un tempo direttrice artistica di Céline e donna chic par excellence: l’eleganza di Philo non è sexy o vistosa, quanto sommessa e cerebrale, ironica e castigata. Un po’ come per le Tabi, le scarpe di Margiela con una fessura a metà della parte anteriore che fa assomigliare il piede a uno zoccolo, ma meno divisiva e vistosa, la bellezza dei design di Philo sta nel fatto che è per iniziati, tanto che le sue seguaci si fanno chiamare philophiles. È una moda per chi è capace di abbandonare gli orpelli inutili della cultura femminile, per così dire, che non soddisfa lo sguardo maschile e dunque che si pone come una scelta decisamente più di classe (questa è la parola a cui dobbiamo prestare attenzione da qui in avanti).
Non è una psicosi collettiva o roba per fanatici di moda: è una questione di classe.
Dopo un lungo periodo di assenza dalle scene – un periodo che per inciso ha mandato alle stelle i prezzi delle sue precedenti creazioni – Philo è tornata lo scorso ottobre con un nuovo omonimo brand. Il giorno in cui è stata messa online la sua limitatissima (in fatto di pezzi e di disponibilità) collezione, chiunque sia anche lontanamente interessato alla moda ha assistito a cappotti da cinquemila a ventimila dollari, collane con la parola MUM (“mamma”) da tremila, borse squadrate da ottomilacinquecento dollari e leggings sintetici per oltre mille, andare sold out nel giro di poche ore. Molti esperti hanno definito i prezzi oltraggiosi, senza contare che uno dei capi più interessanti della prima collezione, un paio di pantaloni sartoriali da mille e settecento dollari con una zip che corre lungo tutta la gamba, non può essere accorciato, rendendoli inservibili per chiunque non sia dell’esatta altezza pensata per il modello. Il quiet luxury non è solo la celebrazione di una moda dallo stile contenuto o dai modelli sofisticati; è di per sé la celebrazione di una ricchezza a tratti inconcepibile da chi non vi cresce a contatto; come nel caso della giornalista di moda che ha criticato le ballerine di pelle nere di The Row (il marchio di moda fondato dalle gemelle Olsen) perché costano ottocento dollari, ma cadono a pezzi dopo che si sono percorsi un paio di chilometri, solo per capire poi che il problema è che non sono fatte per camminare. Se ti puoi permettere scarpe così costose, è l’implicito, puoi anche permetterti un taxi.
Quella di cui ho scritto fino a qui non è una psicosi collettiva o roba per fanatici di moda; quella che ho descritto è una questione di classe; nel doppio senso di avere gusto e di scontro tra classi. Quando parliamo di quiet luxury stiamo inevitabilmente parlando dei gusti di una élite che si presenta insieme come economica e culturale; detentrice del potere finanziario e arbiter elegantiae. Di fronte al successo di serie come Succession, all’ondata di analisi su cosa mangiano, cosa non mangiano, quali indumenti indossano, mi sono chiesta: siamo davvero ossessionati da queste cose o siamo spinti a osservare con stupore e obbedienza lo stile dei ricchi, che, in quanto tale, deve essere anche quello corretto da imitare? Per quali altre ragioni dovrei essere interessata alle ruminazioni interiori della classe dominante se non per poter imparare a condividerle ed eventualmente replicarle? Mi viene il dubbio che più che fare un servizio ai loro lettori, l’industria culturale e la stampa ci suggeriscano che quei fatti, quegli stili, persino quei conflitti intestini tra ereditieri, con le loro meschinità e aspirazioni, siano assolutamente importanti, che ne confermino insomma l’assoluto dominio del discorso pubblico, oltre a quello già economico. In una sua famosa citazione, Warren Buffett dichiarava: “Certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo”; adesso cerchiamo di capire a quali valori, estetici e morali, risponde la classe dominante.
“La società ha la tendenza a perdonare l’estrema ricchezza quando ha un’apparenza leggermente più sofisticata e complessa” scrive Nathalie Olah in Bad Taste (Dialogue Books), un acuto studio su cosa significhi avere buon o cattivo gusto, ossia cosa significa avere o non avere classe. Nel suo libro Olah racconta la politica delle estetiche, delle mode e delle trasformazioni culturali; racconta il modo in cui diversi tipi di potere si cristallizzano in estetiche diverse; perché Boris Johnson non si preoccupa di pettinarsi o la casa di Trump a New York sembra uscita da un film di De Palma e, soprattutto, il modo in cui un certo tipo di classe dominante ha imparato a presentarsi in modo da attirarsi maggiore benevolenza e rispetto. Utilizzando i suoi studi in filosofia, estetica e sociologia (è ovviamente Bourdieu con il suo concetto di distinzione il nume tutelare di questo libro, assieme a Veblen e alla sua teoria della classe agiata), ma anche gli anni passati prima come babysitter dei ricchi inglesi e poi nel mondo culturale inglese – entrambe esperienze di inestimabile valore per cogliere come si presentano in pubblico e in privato i potenti – Olah ci guida in una lettura del nostro panorama estetico. Nostro sì, anche quando non condividiamo il patrimonio di queste persone, perché quella guerra di cui parla Buffett è anche una guerra di classe, nel senso appunto di gusto, ed è quello il gusto che ci è inflitto, quello a cui dobbiamo adattarci per essere ritenuti rispettabili.
In Bad Taste, Natalie Olah non inserisce Paltrow o Philo (che tuttavia cita brevemente), ma potrebbe farlo; preferisce invece la gigantesca dimora di Kim Kardashian e Kanye West, una villa che pare una galleria d’arte, completamente spoglia com’è e dominata dai toni del bianco e del beige; o quelle di Kinfolk o delle riviste in fissa col mid-century tutto piante e arredi in legno: a farla da padrone nel suo libro infatti è proprio il dominio di un certo tipo di minimalismo – frugale ma curato, sofisticato e intellettuale – che ancora oggi equivale all’idea di classe (su questo tornerò più avanti, perché in parte il panorama estetico sta mutando, ma il modo in cui questo sta accadendo conferma le intuizioni dell’autrice inglese).
Olah fa risalire la prima apparizione di questa estetica al 2008, ossia all’indomani dello scoppio della crisi finanziaria globale. Analizzando il predominio dello stile scandinavo nell’arredamento, del normcore e dell’ossessione per il cibo biologico, ossia osservando il ritorno a una certa domesticità che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni e di cui queste tre emersioni sono emblemi, la critica conclude che l’approdo a un’estetica caratterizzata da una pseudo-austerità “serve da contrappunto in una società le cui disuguaglianze erano ancora ostinatamente radicate”.
Nel momento in cui la crisi finanziaria inasprisce le differenze tra i pochi e i tanti alle classi dominanti non conviene più apparire dominanti come un tempo, ma assumere un aspetto inoffensivo e familiare.
Nella loro semplicità – un piatto a chilometro zero, un paio di jeans in tela di cotone blu dritti, un mobile in legno chiaro, una palette di colori neutri – questi oggetti si presentano come forme di democratizzazione in una società sempre meno eguale; ma è solo un’illusione.
Nel momento infatti in cui la crisi finanziaria inasprisce le differenze tra i pochi e i tanti (gli anni Dieci sono quelli dei movimenti come Occupy con il suo slogan “Noi siamo il 99 per cento”), alle classi dominanti non conviene più apparire dominanti come un tempo, ma assumere un aspetto inoffensivo e familiare, pertanto – che questo avvenga per necessità o per capriccio, cioè per adattarsi al clima generale, per venire incontro a un impoverimento generale che gli attira odio, o per un certo neopauperismo che si accompagna alle crisi – si assiste all’emersione di estetiche dai caratteri minimali e austeri. Ciò avviene in tutte le sfere del gusto, dalle collezioni di moda all’arredamento, fino alla rappresentazione pubblica dei politici (uomini in maniche di camicia, il loden, la fine anche estetica di un certo berlusconismo), incluso il papa francescano che dismette gli orpelli e i reali che indossano lo stesso vestito due volte: tutto contribuisce a dirci che i potenti sono proprio come noi.
E adesso che alla crisi finanziaria si unisce quella climatica, il ritorno all’eremitaggio nei casali di campagna, al lievito madre e agli abiti in cotone biologico esprime un ulteriore segnale di virtù: noi, ci dicono questi ricchi di grand class, noi mangiamo cibo a chilometro zero, viviamo in case progettate secondo l’architettura passiva, non compriamo fast-fashion! Il problema sono sempre gli altri – quelli come me, voi, come il 99%, i paesi in via di sviluppo, la massa che vuole il benessere, le persone senza gusto che acquistano capi di poliestere.
Bisogna ricordare poi, e lo fa bene Olah, che è in questo periodo che emergono le figure dei tech-guy come Mark Zuckerberg, CEO in felpa che appaiono diversissimi dai capi in giacca e cravatta, e che sembrano gestire le loro aziende come famiglie, spazi in cui il lavoro diventa un gioco, in cui si lavora tutti insieme, senza divisioni (tra i singoli uffici, ma anche tra casa e lavoro). Sono CEO che, pur appropriandosi di un capo di abbigliamento tradizionalmente associato ai lavoratori come la tuta, restano non di meno al vertice della gerarchia. E, guarda caso, anche grandi indossatori di gilet Patagonia (marchio celebre per il proprio impegno ambientale), stoici (Jack Dorsey) e survivalist che si accalcano a eventi neo-hippy come il Burning Man, il festival nel deserto del Nevada, esploratori di luoghi migliori di questo e risolutori definitivi dei nostri problemi dell’inquinamento (Elon Musk tra Marte e Hyperloop – Musk, che tiene tanto alla sua figura di genio cattivo, è più eccentrico degli altri). Pronti a salvarci, a patto che ci fidiamo di loro e della loro generosità.
Tech world a parte, che in realtà è anch’esso costretto a comprarsi un’entratura nel mondo della cultura, quel tipo di estetica – minimale, semplice, con qualche accenno di frugalità – scrive Olah “è amata da chi aspira a entrare a far parte della borghesia, perché dipinge un mondo di proporzioni rustiche, il cui aspetto esteriore sembra essere più equo e aperto che mai”. Ciò che intende dire è che l’estetica delle classi dirigenti (o, meglio, di queste classi dirigenti) si presenta ben più riproducibile di altre del passato, con una patina più democratica di cui parlavamo prima e, d’altronde, è più facile far sembrare la propria casa un appartamento scandinavo tutto design che uno sfarzoso palazzo parigino. Pertanto la classe dei lavoratori, pur impoverita e resa marginale da quella stessa classe dominante, è più propensa non solo a far proprio quel gusto e a replicarlo, ma persino a notare meno le diseguaglianze economiche che non solo restano lì dove erano, ma si sono persino fatte più incolmabili. I potenti insomma sembrano meno potenti, e i dominati possono far finta di assomigliargli, arredando la loro casa o vestendosi un po’ come loro.
D’altronde è più facile far sembrare la propria casa un appartamento scandinavo tutto design che uno sfarzoso palazzo parigino.
“Gli ornamenti borghesi convenzionali della classe imprenditoriale non piacciono al creativo pubblicitario, per il quale la pittura a carboncino, per non parlare del rinnovato interesse per il filato di cotone, i mercati agricoli e i prodotti, contribuiscono a soddisfare un senso di integrità artistica”, scrive ancora Olah. La casa, come l’abbigliamento normcore o quiet luxury (promosso da marchi di lusso come Brunello Cucinelli, Loro Piana, The Row, e replicato in versione economica da COS, Arket, Uniqlo) è insomma il luogo in cui le regole dei ricchi mettono in scena la loro dominazione soft, come è ottenuta all’interno del fumoso e complesso ambiente dei lavori creativi, da sempre dominato dall’alta borghesia, ma adesso infiltrato dalle classi lavoratrici.
Quando parla di chi vuol far parte della classe media infatti, Olah in particolare fa riferimento a quel ceto urbano (formato da lavoratori della creatività e, in generale, dei servizi; la creative class di Richard Florida) la cui presenza è cresciuta a partire dagli anni Novanta; come spiega bene anche nel suo lavoro precedente, Steal as much as you can (2019), dopo l’irreversibile crisi del settore secondario, i governi occidentali sono stati obbligati a spingere l’insieme dei loro cittadini, inclusi quelli appartenenti alle classi più basse, a intraprendere percorsi di studio superiori, in modo da venire incontro alle trasformazioni economiche in atto. Le borse di studio, scriveva in quel libro, servivano per produrre lavoratori specializzati adatti a lavorare nel terziario avanzato, non per una società più istruita.
Se i riferimenti fatti fin qua sono troppo anglosassoni – il libro di Olah è del resto indirizzato a questo pubblico – vi invito a leggere l’incipit de Le perfezioni di Vincenzo Latronico: “La luce del sole si riversa nella stanza dal bovindo, tinge di smeraldo le foglie traforate di una monstera tropicale vasta come una nube, va a riflettersi sul pavimento a doghe larghe del colore del miele. Gli steli sfiorando appena lo schienale di una poltroncina di taglio scandinavo…” Nel romanzo Estate caldissima di Gabriella Dal Lago, popolato da “creativi, imprenditori, pubblicitari, artisti precari”, c’è chi condivide consigli pressoché su tutto “il cibo sano, la corsa la mattina, lo yoga tre volte a settimana, il sito su cui ordinare la spesa, i cibi proteici, l’olio Cbd per dormire meglio”, chi discute dell’”impatto estetico che la serie Stranger Things ha avuto sull’immaginario della Generazione Z” e chi annusando boccette di profumo costoso, vuole “illudersi di appartenere anche lui a quel mondo, un mondo di coetanei che accendono un mutuo per una casa in centro e chiamano loro figlio Gregorio”.
In Class di Pacifico invece i due mantenuti romani a New York prendono “in affitto una stanza grande in una casa con pavimento di legno graziosamente inclinato…dalle finestre larghe al mattino entra una pallida luce nordica” a Williamsburg, “dove puoi vivere tra giovani aggiornati e benestanti”; se non ricordo male anche la casa di Barbara in Le donne amate aveva la stessa aria tranquilla. E così via. I personaggi di questi romanzi risultano (e probabilmente sono) più borghesi di quelli a cui fa riferimento Olah, e dunque non dovrebbero ambire a far parte della borghesia, ma forse questa aspirazionalità si spiega perché in Italia l’ascensore sociale è particolarmente immobile. Non solo una laurea umanistica e tanto gusto critico raramente portano a un impiego nel mondo del lavoro culturale, se non si viene da una famiglia di classe almeno media, ma persino chi appartiene alla classe media non può che sentirsi impoverito, tanto più dopo il 2008.
La classe, la ricchezza, i contatti di queste persone non sono paragonabili a quelli a cui ha accesso la maggior parte di noi: tuttavia ogni rivista di design si premura di dire che, con il giusto gusto, possiamo replicare quello stile.
Da notare l’abbondanza di oggetti citati in questi passaggi, su cui Olah commenterebbe che “la trasformazione di generi di prima necessità come un caffè, una fetta di pane tostato o un pezzo di carta con delle parole sopra in oggetti del desiderio, tanto da far sentire le persone obbligate a pubblicarli online, è forse l’espressione più vivida della crisi di una generazione. È solo triste rivendicare un posto nel lusso condividendo una ciotola di olive piccanti”.
Infatti, anche se in questo momento l’ago della bilancia estetica dal post-pandemia si sta spostando verso un ritorno al massimalismo (di cui la casa di Roma di Alessandro Michele è forse l’emblema, insieme al suo passato lavoro a Gucci), quel tipo di minimalismo dal feeling “industriale” o “scandinavo” che leggiamo in questi libri e a cui si riferisce Olah è ancora presente in molti degli appartamenti in affitto (lo stile “AirBnb”) e su tutti i siti che vendono arredamento online: è il tipo di design che ci viene messo in commercio da brand di “fast furniture” come IKEA, ma anche Zara, Maison Du Monde e così via, la cui promessa è una casa elegante e curata, ossia di classe, ma a un prezzo contenuto. Come sa chiunque abbia montato una libreria Billy o una consolle in legno e metallo, è vero che questo tipo di arredamento permette di mettere su casa con tempi e costi limitati, ma che il risultato finale è altrettanto limitato. Queste case impallidiscono al confronto con il vero minimalismo d’autore, quello che troviamo nella casa – francamente splendida – di Dakota Johnson, che in un video-tour menziona un tavolo da esterno costruito con il legno dello yacht di Winston Churchill oltre a polaroid dell’amico di famiglia Hunter Thompson; o nella “serena” casa di Kendall Jenner che include opere di James Turrell e Tracey Emin; un vero letto di lusso scandinavo, marca Hästens, può arrivare a costare decine di migliaia di euro, e così via.
Vabbè, viene da dire, ma quel livello è irriproducibile! Ma questo è il punto: la classe, la ricchezza, i contatti di queste persone non sono paragonabili a quelli a cui ha accesso la maggior parte delle persone, tuttavia ogni sito, ogni rivista, ogni account di design si premura di dire che, con il giusto gusto, possiamo replicare quello stile, inducendoci implicitamente a sentirci inferiori e succubi dei gusti dei potentissimi. Questo meccanismo mantiene viva l’illusione che tutto sommato le cose stiano andando bene, che con le scelte giuste possiamo rappresentarci meglio di come siamo e che, con il giusto capitale culturale (solo con quello giusto, cioè accettato dal potere), possiamo ottenere altro capitale sociale e infine economico; ossia che valga la pena fare la fatica per entrare e restare in un mondo del lavoro quanto mai fragile e incline a crisi cicliche, senza avere la rete di protezione di cui godono i sopracitati.
La conversione in lavoro delle nostre passioni ha insegnato a quelli di noi che hanno compiuto questo presunto “passaggio di classe” che il proprio gusto è uno strumento che può e deve essere raffinato e messo a frutto. Si tratta, secondo Olah “di una gerarchia che si può salire solo frequentando le persone giuste, leggendo le riviste giuste ed esponendosi ai giusti filoni di cultura. Con questa definizione, il ‘gusto’ si riferisce alla capacità di una persona di emulare con successo i codici estetici di chi detiene il potere”.
Il merito di Olah è riuscire a rendere visibile il tipo di dominio estetico e culturale a cui siamo soggetti.
Questo “gusto” da emulare per avanzare in questa gerarchia è meno una legittima conoscenza delle arti, quanto un consumo oculato dei giusti prodotti culturali: quell’insieme di citazioni giuste, riferimenti cool e patina di esperienza che abbiamo visto fin qua; Kendall Jenner magari sta in fissa con gli artisti inglesi di Sensation, ma molto più probabilmente qualcuno le ha consigliato di acquistare Tracey Emin perché è on brand e un buon investimento, e insomma se pensate alle persone che conoscete che vengono da famiglie altolocate, probabilmente fin da piccoli sono stati esposti alle giuste influenze e conoscono le persone che contano, ma in quanti casi sono davvero esperti o geniali o si meritano il posto che infine occupano? Lo studio delle forme di arte e cultura è più spesso una scelta intenzionale per chi da fuori deve farsi strada che da chi nasce dentro quell’ambiente di amici di famiglia registi e compagni di asilo adesso deputati, ma è più spesso a loro che tocca piacere per farsi i contatti giusti (Olah chiama questo “un sapere di seconda mano usato come arma da parte di persone, più precisamente consumatori, che non sono esperti di un determinato argomento, ma che traggono un senso di superiorità dall’aver appreso un insieme di regole con cui simulare la conoscenza. È la riduzione dell’apprendimento a codici estetici. O, per dirla più schiettamente, è il ‘buon gusto’ mascherato da cultura”).
Come ho già detto, ma ci torno adesso, Olah compie questa analisi in quanto critica, ossia dal punto di vista di qualcuno che ha fatto del proprio gusto uno strumento di lavoro o, con più precisione in questo contesto, qualcuno che è ammesso nei ranghi del potere per via del suo gusto. Olah si trova cioè all’interno della contraddizione, per cui ammette di essere “colpevole come chiunque altro di cercare rassicurazioni nella superiorità del mio giudizio estetico”, ma, aggiunge “sono stata altrettante volte vittima della stessa dinamica”. Il merito del suo libro, ancora più che arrivare al fondo del concetto di clean beauty o del cibo biologico, è riuscire a mettere in scena questo conflitto, riuscire a rendere visibile il tipo di dominio estetico e culturale a cui siamo soggetti, invece di scrivere migliaia di battute sui completi di Succession o sulla perfetta t-shirt bianca da novantaquattro dollari indossata in The Bear come se si trattasse di questioni rilevanti di per sé.
In Bad Taste, Olah rende comprensibili le dinamiche del gusto, regole che deve aver compreso e che è consapevole che possano essere usate per migliorare la propria posizione, ma anche come farlo implichi una forma di sottomissione. Come scrive: “non essendo ricca di famiglia, ho capito presto che la mia sicurezza dipendeva dalla mia capacità di emulare i costumi e le preferenze di chi era in potere: gli insegnanti, chi si occupa delle ammissioni universitarie, responsabili del personale, dipendenti di banca”.
Olah non risolve allora questo conflitto, né demonizzando il consumo, né dandoci consigli su come accaparrarci un posto nel mondo un podcast giusto alla volta, né mortificando sé o gli altri per essere stati soggiogati dal concetto di classe; ma riportando questo scontro a quello di cui parlava Buffett, alla guerra mossa dalla classe ricca contro tutti gli altri; esortandoci a comprendere come siamo spinti a disprezzarci per amare il capitale, da una cultura che si ammanta di democraticità (attraverso il consumo non di meno) e non può che detestarci, anche se la veneriamo.
Finché le nostre vite saranno incentrate sul perfezionamento dell’arte dello shopping, dello styling o della perpetuazione di un certo stile di vita – il progetto di vivere in una casa perfetta, composta da finiture e arredi apparentemente sostenibili, la costruzione di un guardaroba perfetto composto da mode cosiddette etiche – faremo la nostra parte per mantenere in vita questi vecchi sistemi.