D a alcuni anni il termine “performativo” circola nei dibattiti italiani con un’accezione espressamente negativa che lo riduce a un sinonimo di “prestazionale”. In un articolo pubblicato su Siamomine si legge, ad esempio, che: “nell’attivismo performativo ogni lotta è declinata sul sé e nessuno è in grado di non personalizzare l’ideale a cui sostiene di credere”. L’articolo di Irene Graziosi parte dal presupposto che la logica algoritmica dei social, in particolare Instagram e TikTok, trasformi le persone in brand e giunge alla conclusione che le piattaforme social non siano spazi idonei alla comunicazione di messaggi politici “autentici”, e con “autentico” qui sembra si debba intendere “ciò che non è declinato sul sé”. Per l’autrice, l’individualismo che domina i social è il prodotto nocivo di una tecnologia e di un’economia, ma è anche l’esito di un processo filosofico e culturale che, attraverso il Novecento, ha decostruito la nozione di verità oggettiva, determinando la moltiplicazione e l’individualizzazione delle verità.
A sostegno di questa tesi l’articolo cita la critica di Morris Eagle alla svolta relazionale della psicanalisi statunitense, ma è corretto pensare che dietro alla crisi del principio positivista di oggettività si nasconda anche buona parte dei fenomeni culturali e filosofici del secondo dopoguerra: il poststrutturalismo, il postmodernismo, il postcolonialismo, l’archeologia del potere di Foucault, Judith Butler e i gender studies e, prima ancora, la teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein e quella degli atti linguistici di J.L. Austin (il filosofo a cui attribuiamo la prima analisi sistematica della performatività del linguaggio). Tutti questi approcci condividono, in modi e con obiettivi diversi, l’idea che la verità sia una proprietà o un prodotto del linguaggio: una delle possibili dimensioni di giudizio dei nostri discorsi, un effetto del potere, una pratica intersoggettiva, e così via.
Per quanto tutte queste prospettive teoriche possano contenere elementi discutibili, accusarle di aver causato l’“insorgere dell’individualismo” è piuttosto ingeneroso nei loro confronti e molto indulgente verso la modernità, che certo è stata il trionfo della ragione e della ricerca della verità oggettiva, ma anche del sistema capitalista, dello stato-nazione, del colonialismo e di tutta la violenza che appartiene a questi fenomeni. Che la pretesa di universalità della tradizione illuminista e positivista sia antitetica all’individualismo come ideale chiave socioeconomico e, ancor prima, spirituale dell’occidente andrebbe provato oltre ogni ragionevole (e macroscopico) dubbio e non solo affermato. Appare difficile provare particolare nostalgia verso un’epoca in cui le scienze umane erano ossessionate dalla ricerca della “verità oggettiva”, o rimpiangere una psicanalisi che, scrive Graziosi, “funzionava così: andavi dall’analista per scoprire la verità, che era una. I sogni volevano dire una cosa (il cazzo), e l’isteria celava sempre un unico problema (più o meno sempre il cazzo)”.
La raccolta di saggi curata da Charles Bernheimer e Claire Kahane, In Dora’s Case. Freud-Hysteria-Feminism (1985) illustra con attenzione i limiti e i fallimenti dell’ossessione di Freud per la verità clinica dell’isterica, e la scomparsa della categoria diagnostica dell’isteria dovrebbe dimostrarci che il “vero” problema delle isteriche era la società in cui vivevano (cioè un punto di congiunzione di variabili storiche), e non una qualche “originaria” o “naturale” pulsione irrisolta o repressa del Femminile verso il membro maschile. La psicanalisi classica può offrire delle interpretazioni competenti e utili rispetto ai disturbi psicologici, ma non può, da un punto di vista epistemologico, produrre qualcosa come una verità oggettiva rispetto alla mente del paziente – perché la mente, come ha sostenuto Bateson in Mente e Natura (1979), non è una cosa, un dato esterno e trascendente, ma una struttura connettiva immanente, cioè inseparabile dal sistema relazionale totale. Questa idea può infastidire gli analisti che vorrebbero dirsi “scienziati”, ma sul piano clinico e terapeutico ha avuto il merito indubitabile di liberare molti pazienti da un regime di verità opprimente, ossessionato dalla confessione e dalla diagnosi. D’altra parte, oggi, in una società imperniata dall’imperativo terapeutico esaminato dal sociologo Frank Furedi in Therapy Culture. Cultivating Vulnerability in an Uncertain Age, la diagnosi è ridiventata per molti versi desiderabile. I social e non solo provano che un numero crescente di persone trova un sollievo piuttosto inquietante nell’attribuzione al sé di un’etichetta tratta da un manuale diagnostico. Nella nostra società c’è, quindi, un bisogno di verità oggettiva del tutto omogeneo alla “politica dell’individuo” che preoccupa Graziosi: l’individualismo, inteso come ideologia dell’interesse privato contro quello collettivo, si trova evidentemente più a proprio agio col pensiero oggettivo che con quello sistemico, relazionale o ecologico.
L’individualismo, inteso come ideologia dell’interesse privato contro quello collettivo, si trova evidentemente più a proprio agio col pensiero oggettivo che con quello sistemico, relazionale o ecologico.
Tornando alla questione iniziale del cosiddetto “attivismo performativo”, mi sono chiesta cosa potrebbe o dovrebbe essere un attivismo non o, addirittura, anti performativo. Mi è difficile farmene un’idea perché con il termine “performativo” io intendo, assieme a J.L. Austin, la dimensione d’uso del linguaggio, ovvero il fatto che il linguaggio serve, anzitutto, a fare delle cose nella vita. Il contrario di performativo, in questo senso, non è il vero, ma il descrittivo e infatti esistono un’infinità di esempi di “atti performativi”, cioè proferiti alla prima persona singolare (“declinati sul sé”) secondo una procedura che ha effetti sul reale, che sono inseparabili dalla pretesa di una verità “autentica”. Vale per la testimonianza di fronte a un giudice quanto per quella diffusa su un social network.
Non è né utile né sensato, ad esempio, separare il contenuto di verità del video che ha documentato l’assassinio di George Floyd dalla specifica performance testimoniale di Darnella Frazier, la minorenne che ha ripreso e diffuso su Facebook la prova inconfutabile della brutalità della polizia di Minneapolis. Frazier, come molti attivisti impegnati nella lotta alla violenza istituzionalizzata, ha scelto di mettersi a rischio e di esporsi a un trauma terribile non perché era alla ricerca di una verità universale e neutra, ma perché voleva agire sul mondo come individuo e come parte di una comunità oppressa: “When I look at George Floyd, I look at my dad. I look at my brothers, I look at my cousins, my uncles, because they are all Black” ha dichiarato. Anche e forse soprattutto perché questa testimone era consapevole dell’ingiustizia insita nell’evento che osservava, il documento audiovisivo che ha prodotto non si è prestato a nessuna strategia decostruttiva della difesa nel processo che ha condannato l’assassino Derek Chauvin, a differenza di quanto era accaduto con il video ripreso da George Holliday durante il pestaggio di Rodney King.
Si può essere scettici verso le “mode” dei riquadri neri o rossi e, allo stesso tempo, nutrire fiducia verso le potenzialità testimoniali offerte dalle nuove tecnologie. Riconoscere che i social sono uno spazio performativo che può contenere tanto Kim Kardashian quanto Darnella Frazier, che può diffondere l’autopromozione del sé e una pretesa valida (sincera e competente) di giustizia, significa divenire consapevoli dei pericoli, ma anche delle potenzialità irrinunciabili offerte dai nuovi canali comunicativi.
Alla ricerca delle ragioni del dilagare del sospetto italiano verso il concetto di performatività, mi sono imbattuta in La società della performance, il penultimo bestseller di Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Non ho forse l’agilità intellettuale necessaria per muovermi nel vortice di riferimenti usati da Colamedici e Gancitano nel tentativo di mostrare il ruolo che la filosofia dovrebbe avere nella società contemporanea (un ruolo che, a loro avviso, è stato indicato dalla storia del pensiero filosofico occidentale in uno sviluppo continuo per accrescimento, senza mai contrasti o rotture nette), ma condivido con Pierfranco Pellizzetti l’impressione che uno dei problemi filosofici nell’argomentazione dei due divulgatori risieda nella “vaghezza, al limite dell’indefinibile, della parola chiave: performance”. Da una parte, infatti, Colamedici e Gancitano sembrano intendere la performatività secondo la tradizione postmoderna inaugurata da Lyotard, cioè come un dispositivo post-disciplinare di controllo dell’individuo, dall’altra, ne fanno una sorta di opposto metafisico o esistenziale dell’autenticità. L’opposizione tra autentico e performativo non mi convince perché mescola e confonde due dimensioni del discorso, quella metafisica e quella ordinaria, che una parte della filosofia del Novecento ci ha insegnato a distinguere.
Da J.L. Austin a Stanley Cavell, la performatività del linguaggio serve, tra le altre cose, a rivelarci proprio la natura straordinaria, cioè “anomala”, del discorso metafisico. I problemi metafisici, che per il secondo Wittgenstein coincidono con lo sviluppo di un metalinguaggio che manda in “vacanza” il linguaggio vero e proprio, staccano l’individuo dall’imprecisione del quotidiano per collocarlo nello spazio più sicuro delle idee e dell’io, ma non c’è modo di garantire che l’essere umano “qualsiasi” si migliori o, addirittura, fiorisca attraverso l’esperienza di distacco dal senso comune prodotto dalla metafisica (anzi, la storia ci ha dimostrato spesso il contrario).
Si può essere scettici verso le “mode” dei riquadri neri o rossi e, allo stesso tempo, nutrire fiducia verso le potenzialità testimoniali offerte dalle nuove tecnologie.
Colamedici e Gancitano ritengono, invece, che “ogni discorso filosofico abbia sempre alla base una visione metafisica […] e tenti di restituire con il logos un’esperienza non ordinaria del reale”. Lezioni di meraviglia è netto su questo punto: la domanda fondamentale da cui dobbiamo partire è sempre “perché c’è l’essere e non il nulla?”. Che tutta la filosofia debba partire da una domanda così astratta e, appunto, straordinaria è una pretesa che i due scrittori avanzano evitando con attenzione di confrontarsi con gli approcci filosofici dichiaratamente antimetafisici ed è, soprattutto, una mossa che ha implicazioni ben poco pacifiche sul piano culturale e politico. Cosa significa “coltivare la meraviglia” e “imparare a fiorire” mentre si vive tra “i ruderi e le rovine” del realismo capitalista (accanto a Seneca e Heidegger, c’è anche Mark Fisher nel mare di citazioni di Colamedici e Gancitano)? Non è, in fondo, desolante “uscire dalla caverna” e godersi il sole delle idee mentre gli altri rimangono in catene? L’obiettivo della filosofia non rischia così di diventare indistinguibile dalle promesse della mindfulness?
I libri, i video e i post del duo di Tlon veicolano spesso un disprezzo scoperto verso ciò che precede o sfugge al dominio della ragione, in primo luogo, tutte quelle emozioni irriflesse e distruttive che trovano sfogo sui social, come la rabbia, la paura o la temibilissima invidia sociale. Per Colamedici e Gancitano la filosofia deve “ri-abituarci alla complessità del mondo” e deve liberarci dall’ignoranza che semplifica e “polarizza”. Questo proposito di educare alla complessità è in apparenza ammirevole, ma è anche curiosamente coerente con la svolta liberale che ha coinvolto le sinistre a partire dall’era Reagan-Thatcher, cioè dal momento della capitolazione degli ideali socialisti di fronte alla vittoria storica del capitalismo.
L’ultimo lavoro di Adam Curtis, Can’t Get You Out of My Head: An Emotional History of the Modern World (BBC, 2021), ricostruisce le tappe che hanno portato le sinistre di ispirazione socialista ad “abituarsi alla complessità” del mercato globale, accettandolo come realtà immodificabile e scegliendo di dismettere la parte più vitale, rischiosa e trasformativa dei propri ideali. Secondo Curtis, le teorie del complotto che affollano l’immaginario odierno sono l’esito patologico ma prevedibile del culto neoliberale della complessità economica e sociale e della conseguente rinuncia delle sinistre alla performatività del discorso politico. Dietro i successi politici dei sovranismi e dei populismi di destra c’è un bisogno di semplificazione direttamente proporzionale al senso di impotenza che ha travolto le masse elettorali delle democrazie liberali dopo la crisi finanziaria del 2008.
È ragionevole pensare che la pandemia che stiamo vivendo esaspererà il dramma dell’impotenza e la fame di risposte semplici, ma è davvero una male assoluto chiedere e dare risposte semplici in politica? Perché la risposta a una realtà “semplicemente” ingiusta deve essere complessa e immune dalle polarizzazioni? In fondo, io non ho bisogno di conoscere la complessità del sistema dei subappalti, di “vedere l’alterità” o di conoscere le ragioni oltre l’avidità degli sfruttatori e dei loro complici per rifiutare quel sistema e pretendere ora e subito il suo smantellamento. Curtis conclude il suo lungo viaggio documentario tra le tecnologie e i saperi con cui il potere ha gestito l’emotività delle masse e tra gli individui e i movimenti che hanno sfidato e combattuto questo potere con una citazione dell’antropologo David Graeber che ha la forza e la semplicità di un proclama rivoluzionario: “La verità ultima e nascosta del mondo è che è qualcosa che noi creiamo e che potremmo facilmente creare in modo diverso”. Se la complessità è diventata la misura dell’immodificabilità dell’esistente e delle sue ingiustizie, la lotta per un mondo più giusto deve, invece, passare attraverso una riaffermazione della semplicità e della facilità dell’immaginazione e della comunicazione politica: immaginare e pretendere un mondo più giusto non è difficile, anzi, dovrebbe essere la conseguenza di un rifiuto istintivo dell’ingiustizia e dell’infelicità in cui la maggioranza di noi vive.
All’inizio dell’era Tony Blair, lo studioso inglese Terry Eagleton scrisse ne Le illusioni del postmodernismo:Da un certo punto di vista il liberalismo è davvero contraddittorio, dato che le stesse condizioni intese a promuovere il viver bene servono solo a pregiudicarlo. Finché i diritti individuali includeranno basilarmente i diritti di proprietà […] lo Stato liberale genererà proprio l’ineguaglianza e lo sfruttamento che contrastano quel viver bene che intendeva promuovere. Non tutti, infatti, saranno in possesso dei beni primari occorrenti per aprirsi una propria strada verso la felicità. Alcuni saranno privi delle necessarie risorse materiali e spirituali, compresa quella stima altrui che può fondatamente considerarsi una componente essenziale del benessere umano
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Nella prospettiva politica delineata da Colamedici e Gancitano, l’ideale di giustizia è declinato sempre e solo nei termini di un’espansione continua e omogenea dei diritti individuali che non può e non vuole mettere in discussione il presupposto ideologico più solido delle democrazie liberali: il diritto intangibile della proprietà privata. Eppure, seguendo il buon senso e Terry Eagleton, poche cose sono in contraddizione con l’obiettivo di una “fioritura personale” per tutti come l’ineguaglianza economica. Non tutti i semi sono piantati in un terreno fertile e spazioso, molti sono sparsi su suoli troppo aridi o in vasi troppo piccoli per sviluppare radici sane e generare fiori. Per quanto l’aria e il sole delle idee astratte e straordinarie della metafisica siano “meravigliosi”, non possono nulla contro l’infertilità di una terra privata dei nutrienti minerali dall’avidità. Prima di piantare e di coltivare, i filosofi dovrebbero sradicare le piante infestanti, dissodare il suolo, farlo riposare e nutrirlo.