

I n seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e di altre giovani donne, siamo stati inondati da una marea mediatica di approfondimenti, interviste a esperti, statistiche. Poi, quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito. Sempre in tv non sono mancati momenti di tensione, come quello in cui un filosofo italiano, impersonando la parte dell’intellettuale stizzito, ha affermato che l’ideologia patriarcale è in crisi da più di duecento anni, senza aggiungere nulla di significativo che potesse inquadrare il fenomeno della violenza sulle donne.
Dall’altra parte arrivava la voce pacata di Elena e Gino Cecchettin, che mai hanno perso la disponibilità a condividere il loro dolore, esprimendo la volontà di trasformare una perdita così dolorosa in un impegno sociale incrollabile (si veda la Fondazione Giulia Cecchettin). Proprio sulla scia delle parole di Elena Cecchettin, è stato usato il concetto di patriarcato come categoria interpretativa utile a rintracciare le cause della violenza di genere.
Premesso che le dinamiche patriarcali esistono ancora (eccome!), in effetti la parola “patriarcato” non basta a cogliere la natura dei gesti violenti o mortali commessi da uomini che difficilmente potrebbero essere definiti patriarchi. Sarebbe forse più corretto dire che sono figli di patriarchi? O essere più specifici affermando che sono figli di un sistema basato su un’idea della donna che proviene da retaggi culturali di tipo patriarcale?
In antropologia, il patriarcato corrisponde a un tipo di sistema sociale in cui vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Per estensione ‒ ed è il significato che ci interessa ‒ fa riferimento a un complesso di radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto dagli uomini, specialmente verso le donne.
Quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito.
Nell’articolo Ai lettori, dello stesso numero di MicroMega, si dichiara che il femminicidio di Giulia Cecchettin “ci riguarda tutti perché non è il frutto di una mente malata ma il depositato stratificato di secoli di oppressione, misoginia, violenza. In una parola patriarcato”. Sebbene la premessa ci trovi tutti d’accordo, la conclusione “in una parola patriarcato”, non è esaustiva. Sostenere che le orride motivazioni dei fautori di femminicidio scaturiscano soltanto dal depositato di qualcosa che abbiamo ereditato comporta il rischio di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente in cui viviamo e di non vedere i nuovi elementi che interferiscono con le strutture tramandate dal passato.
Bisognerebbe indagare, credo, quelli che Pierre Bourdieu definisce fattori di permanenza e fattori di cambiamento. Come scrive nel volume Il dominio maschile (1998), “non si tratta tanto di negare le permanenze e le invarianti, che fanno incontestabilmente parte della realtà storica” ma di affermare la necessità di storicizzare le strutture del dominio maschile. In altre parole, bisogna riscrivere “la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono ad assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare, nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni”.
È recente la notizia della morte di Martina Carbonaro, ragazza di quattordici anni uccisa dal suo ex fidanzato Alessio Tucci ‒ di quattro anni più grande ‒ perché “aveva deciso di troncare la relazione con lui”: sono le parole dell’assassino, riportate poi da tutti i media. E qui, forse, tocca fermarsi. Secondo la prospettiva della giudice Paola Di Nicola Travaglini, se ci fosse una “corretta tipizzazione del reato di femminicidio”, non leggeremmo “che una donna è stata uccisa da un uomo che non ha accettato la separazione”, ma “che un uomo ha ucciso una donna perché questa voleva essere libera e lui non glielo consentiva”. Alessio Tucci non voleva che Martina Carbonaro guardasse gli altri uomini e lei, come riportato dalle amiche, aveva cominciato a camminare con lo sguardo rivolto verso il basso.
Sostenere che il femminicidio scaturisca soltanto da qualcosa che abbiamo ereditato rischia di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente e di non vedere i nuovi elementi che interagiscono con le strutture tramandate dal passato.
Cosa ci dice il fatto che il femminicida Filippo Turetta dormisse con un orsacchiotto, secondo quanto rivelato dalla sua famiglia? Che fosse un bravo ragazzo improvvisamente diventato un assassino per un raptus di rabbia? No. Questo dettaglio ci dice, come scrive Laura Pigozzi nel suo libro Mio figlio mi adora (2019), che “rimanere infantili ci rende feroci”. Secondo la posizione di Pigozzi, oggi l’etichetta di patriarcato viene adottata come alibi per non parlare adeguatamente di quella istituzione chiamata “famiglia”, ambiente in cui i genitori crescono “figli dipendenti dalla disponibilità di un oggetto”, fattore che dovrebbe essere collocato nell’insieme delle specificità del contemporaneo più che in quello ereditato dal passato. Soprattutto tra i giovani, ci dice Massimo Recalcati, si nota una vita dominata dagli oggetti e dall’esigenza di ottenere un godimento immediato, perdendo la capacità generativa del desiderio (vedi Il complesso di Telemaco, 2015; Le nuove malinconie, 2019). Sullo stesso fenomeno ha scritto Éric Laurent, il quale ha parlato di una “mutazione antropologica del godimento”, dove la dimensione simbolica viene bypassata da pratiche immediate, tecnologiche, medicalizzate.
Se torniamo alla tesi di Pigozzi, scopriamo che il femminicidio è responsabilità di un “soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé”. La donna “viene uccisa non in quanto donna, cioè come rappresentante del genere femminile, ma come colei che occupa in lui un posto psichico a cui non riesce a rinunciare”. Secondo la psicoanalista e saggista, la “questione implicata nel femminicidio non è il genere ma la dipendenza” (Mio figlio mi adora).
Forse bisognerebbe correggere in “non è solo il genere”, perché senza dubbio questo ha un peso primario. L’idea della coppia come simbiosi porta a relazionarsi all’altra/o come “oggetto d’uso da consumare per sentirsi esistere”. Una prospettiva simile trapela da alcune analisi elaborate a seguito del femminicidio di Martina Carbonaro. In un articolo di Maria Novella De Luca su la Repubblica del 29 maggio ‒ giorno successivo al femminicidio ‒ si legge che per l’assassino “avere Martina vuol dire avere status, esistere in un mondo fatto di video e selfie”. Anche se questa analisi è convincente, bisogna tenere conto di un punto di vista che invece rimarca la prospettiva di genere. Cito ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la quale nel dossier Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, pubblicato dalla rivista Sistema penale (2025, 5), fa riflettere sul fatto che, innanzitutto, il femminicidio è “un crimine di potere come tutti i delitti di violenza maschile contro le donne”.
Voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga che germina a partire dal nucleo famigliare. In Italia si osserva però una sfiducia profonda nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico.
Di potere ha parlato Recalcati nell’approfondimento Origini psicopatologiche e culturali della violenza femminicida (2023), trasmesso da Radio1 per commentare il femminicidio di Giulia Tramontano e l’infanticidio del figlio che portava in grembo. Lo psicoanalista ha invitato a riflettere su un’altra nozione centrale: il limite. Secondo la sua analisi, si è verificato un esempio di “esercizio brutale del potere che non accetta nessuna esperienza del limite”, che in questo caso sarebbe connesso alla responsabilità della paternità. Allargando il discorso, dichiara che in quasi tutti i casi di femminicidio la violenza deriva dalla frustrazione generata dalla libertà della donna quando questa dichiara di non amare più il proprio compagno. Nella logica maschilista, “che è un derivato della logica patriarcale”, la donna viene percepita come un “oggetto” o “proprietà del corpo dell’uomo” (Eva che nasce da una costola di Adamo ne rappresenta il mito fondativo).
Inoltre, l’esercizio della violenza subentra laddove viene a mancare “la portata simbolica della parola”. La situazione conflittuale o dolorosa non viene risolta con la parola, ma attraverso il gesto violento o criminogeno. A questo punto la conduttrice del programma pone una questione centrale chiedendo quale sia il peso del vissuto familiare nell’esperienza psichica e relazionale dei giovani. Con ottimismo, e con la premessa che “stiamo assistendo agli ultimi rantoli del patriarcato”, Recalcati afferma che “il ruolo della famiglia dovrebbe essere quello di disinnescare la tentazione alla violenza” dando esempio ai figli non attraverso “attività persuasive” ma attraverso i comportamenti: se un padre umilia la madre, questo diventa un messaggio ‒ sbagliato ‒ che ribadisce la superiorità del maschio sulla femmina. Tuttavia, aggiunge, “non c’è un nesso deterministico tra il disfunzionamento della famiglia e il passaggio all’atto criminogeno”. Se nella famiglia, conclude, “il messaggio passa attraverso gli atti, nell’istituzione scolastica in primo piano vige la legge della parola”, nel senso che il conflitto viene simbolizzato attraverso dispositivi verbali. Secondo Recalcati ‒ ed è forse questo l’aspetto più complesso da sviscerare ‒ non esiste una “dimensione sistemica del patriarcato”, ma “espressioni erratiche di una visione maschilista e sessuofoba”.
Ma è davvero possibile definirle “erratiche”? Probabilmente, queste manifestazioni maschiliste e sessuofobe, sebbene introiettate, appaiono nel contesto famigliare meno evidenti o ingombranti, per rivelarsi di fatto più subdole, dunque difficili da decriptare. Servirebbe un’educazione allo svelamento della violenza simbolica – suggerisce ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini – invitando a «disvelare le forme simboliche del dominio maschile» perché senza questa operazione, si rischia di minimizzare la violenza aperta ed esplicita. Come non ricordare, qui, Carla Lonzi che in Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) aveva definito il patriarcato come “sistema simbolico e culturale totalizzante”?
Il femminicidio è responsabilità di un “soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé”.
Durante una lectio magistralis tenuta in memoria di Silvia Gobbato, praticante avvocata assassinata nel 2013 a Udine mentre correva nel Parco del Cormor, Di Nicola Travaglini afferma che “solo chi legge e riconosce l’apparato simbolico di questo potere discriminatorio sarà in grado di riconoscere la violenza”. Il discorso vale soprattutto ‒ afferma ‒ per i giudici che, in primis, devono affinare gli strumenti culturali per decriptare queste strutture di potere, per non correre il rischio di delegittimare le testimonianze o derubricare, per esempio, la violenza sessuale a raptus o impulso sessuale incontenibile.
Per non parlare del fatto che nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli, madri, figlie. Oltre che per una necessità derivante dagli “obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese”, l’introduzione nel nostro codice penale del delitto di femminicidio deriva anche “dall’urgenza che la comunità dei giuristi, grazie a nuove strutture interpretative, acquisisca la consapevolezza che i delitti di violenza maschile contro le donne sono fondati su una relazione di potere strutturalmente discriminatoria e diseguale ad oggi mai nominata e, anche per questo, mai rimossa”, si legge nel dossier citato prima. Per ricapitolare, il femminicidio “si fonda su radicati stereotipi socioculturali che non consentono al genere femminile l’esercizio delle libertà fondamentali in condizioni di parità rispetto agli uomini in ogni contesto, soprattutto familiare (le donne hanno obblighi di cura e le loro ambizioni devono retrocedere rispetto a questi) e lavorativo”.
Nel magnifico La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (2004) bell hooks si presenta come strenua sostenitrice della necessità di continuare a usare il termine “patriarcato” dedicando alla questione il capitolo Capire il patriarcato: “sono più di trent’anni che tengo conferenze sul patriarcato. È un termine che uso quotidianamente e gli uomini che mi sentono usarlo spesso mi chiedono che cosa intendo dire”. Messo l’accento sul bisogno di associare al termine degli attributi più specifici, hooks racconta di preferire ‒ siamo nel contesto americano ‒ l’espressione “patriarcato capitalista suprematista bianco imperialista” per descrivere meglio “l’interconnessione tra i sistemi che sono alla base della politica in America”. Ci sono persone capaci di criticare il patriarcato, scrive, ma incapaci di agire in modo antipatriarcale.
In linea con l’intuizione di molti esperti qui citati, bell hooks sostiene che le forme più comuni di violenza patriarcale sono “quelle che avvengono in casa tra genitori e figli” dove è più facile mantenere (omertosamente, aggiungo io) “i segreti del patriarcato, proteggendo così il dominio del padre”. Questa regola del silenzio, continua l’autrice, “favorisce la negazione delle dinamiche patriarcali”. Il grande contributo di hooks consiste nel sottolineare che anche gli uomini sono delle vittime del sistema patriarcale quando gli si nega il diritto a parlare di emozioni o a dare sfogo al dolore. Infine, ci suggerisce hooks, le donne hanno creduto erroneamente di poter “salvare gli uomini della loro vita dando loro amore, che questo amore sarebbe servito come cura per tutte le ferite inflitte dagli attacchi tossici al loro sistema emotivo”. “Il nostro amore li aiuta, ma da solo non li salva”. È infine necessario, suggerisce hooks, evidenziare il ruolo che le donne svolgono “nel perpetuare la cultura patriarcale” per poter infine “riconoscere il patriarcato come un sistema che donne e uomini sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante”.
Nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli, madri, figlie.
Come chiarisce il professor Marco Scarcelli su Il Post, “il fatto che questo genere di discorso attecchisca tra i giovani non è dovuto soltanto al fatto che vengano esposti spesso e volentieri a contenuti attinenti alla manosfera online, ma anche al fatto che il terreno è già fertile”. Contrariamente a quanto si pensi, i giovani non devono essere considerati “menti innocenti che vengono traviate”; abbiamo a che fare con “convinzioni già ben radicate nella nostra cultura, che circolano da decenni”. Convinzioni sessiste e teorie misogine, provenienti da queste comunità online, arrivano anche a Jamie, protagonista della serie TV Adolescence.
Nonostante sia per ora complicato disegnare filologia e sviluppo della manosfera, sappiamo che all’inizio questi forum sono nati come spazi in cui gli utenti si scambiavano consigli, incoraggiamenti, convinzioni. Negli anni Settanta il nascente movimento per i diritti degli uomini cominciò ad attribuire i problemi degli uomini al femminismo e all’emancipazione delle donne. Il pilastro ideologico di tutti i gruppi si fonda sulla convinzione che i movimenti femministi abbiano delegittimato la mascolinità e contribuito a creare un clima d’odio contro gli uomini. Prendere la pillola rossa, metafora tratta dal film Matrix, vuol dire riconoscere questa verità, accettare questo stato di cose.
“Quella rossa vuol dire vedo la verità” ed “è un invito da parte della manosfera”, rivela Adam al padre poliziotto nel secondo episodio di Adolescence. Il padre, disorientato, chiede al figlio di spiegargli. Così, quest’ultimo riassume il principio 80-20, secondo cui l’80% delle donne sarebbe attratto da un ristretto numero di maschi (il 20%). Allora, “sei obbligato a ingannarle, altrimenti non riuscirai a conquistarle” aggiunge Adam. L’altra idea alla base di questi blog misogini ‒ più subdola ma più pericolosa ‒ è che avere una donna sia un diritto inalienabile per un uomo. Pertanto, la violenza è giustificata se finalizzata a ristabilire questo diritto. Questo è il centro focale da cui bisognerà ripartire.
Per capire occorre rigettare qualsiasi approccio fondato sulla purezza interpretativa, accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche, linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche.