A ncora ignari su quanto diverso si sarebbe presto rivelato il nuovo decennio, nelle ultime settimane del 2019 abbiamo assistito a un proliferare di classifiche, liste e bilanci di quello precedente che stava per finire. Esercizi di sintesi con cui abbiamo provato a fare i conti con quanto crediamo resterà della cultura di quei dieci anni appena trascorsi. Ed è interessante notare come, tra classifiche di dischi, libri, film e serie tv, uno spazio importante nei bilanci di fine decennio lo abbia avuto anche il nostro rapporto con la tecnologia.
Gli anni Dieci del 2000 si sono aperti nel segno delle tecnologie di comunicazione e dei social media che, all’epoca, stavano cominciando a muovere i primi passi, a definire le caratteristiche comuni del loro design e i modelli di business che ne avrebbero supportato la crescita e l’affermazione negli anni immediatamente a venire. Se mi venisse chiesto di scegliere quale evento abbia, a mio parere, caratterizzato meglio lo spirito di quegli anni, le aspettative e le speranze con cui si sono aperti, non avrei problemi a rispondere. Quell’evento sono, senza dubbio, le Primavere Arabe. Questo perché la rappresentazione che i media occidentali hanno dato di quegli importanti movimenti di liberazione – che ebbero la capacità di squadernare equilibri geopolitici che sembravano immutabili – li ha legati, almeno nel nostro immaginario, a doppio filo con le emergenti tecnologie della comunicazione globale. A dispetto delle condizioni materiali che produssero quei movimenti, per lo sguardo occidentale, le Primavere Arabe sono state e ancora sono le rivoluzioni di Facebook, Twitter, YouTube. Una visione “occidentalista”, per rovesciare Edward Said, che esprime perfettamente quanto, almeno per un istante, tutti noi avessimo creduto alla possibilità che gli assetti di potere che governano il mondo sarebbero potuti essere modificati non più dal conflitto sociale, bensì dall’intervento di un deus ex machina la cui effige, in quei mesi, aveva le sembianze di un logo aziendale.
Poi sono arrivati il Datagate, Cambridge Analytica, i sistemi di credito sociale, l’elezione di Donald Trump e la Bestia di Matteo Salvini. Tutti noi abbiamo preso coscienza che la promessa di libertà che le tecnologie digitali avevano fatto al mondo si era trasformata (o forse lo è sempre stata) in un incubo fatto di propaganda, controllo, discriminazione e sorveglianza, collegate con la messa a valore di ogni aspetto della nostra esistenza.
Sono stati in molti ad aver riflettuto su questa “perdita dell’innocenza” e, tra i tanti interventi in merito, uno in particolare credo meriti di essere approfondito con una certa attenzione. Si tratta di L’amore è fortissimo, il corpo no, la lunga riflessione in due parti (parte uno e parte due) con cui il collettivo Wu Ming ha tracciato il bilancio del suo ultimo decennio di presenza digitale, ricostruendo da una parte l’evoluzione delle piattaforme del capitalismo digitale, per mostrare come esse abbiano, col tempo, accentuato tutte quelle soluzioni progettuali necessarie a consentire l’estrazione di valore attraverso la produzione di dati, e, dall’altra parte, inaugurato una nuova fase, tracciando una proposta concreta e operativa per ricostruire l’identità e la presenza digitale di chi si pone, come obiettivo politico e culturale, la creazione di un’alternativa allo stato di cose esistente. Non è un caso che sia stato proprio Wu Ming a impegnarsi nella stesura di un testo così fecondo. Il collettivo bolognese ha integrato molto presto l’utilizzo della rete e delle tecnologie digitali nel proprio percorso di ricerca e, come è prassi per ogni strumento che sceglie di usare, ne ha condotto e conduce un’analisi serrata.
Le Primavere Arabe hanno caratterizzato al meglio lo spirito degli anni Dieci, perché la rappresentazione che i media occidentali ne hanno dato le ha legate a doppio filo con le emergenti tecnologie della comunicazione globale.
Wu Ming, ovviamente, non è stato l’unico ad adottare un approccio molto critico, capace di problematizzare il modo in cui si è evoluto il nostro approccio con le tecnologie digitali nel corso dell’ultimo decennio. La rilevanza che hanno avuto nel dibattito culturale libri come Il capitalismo della sorveglianza di Shoshanna Zuboff, Nuova era oscura di James Bridle o Scansatevi dalla luce di James Williams mostrano come la riflessione critica sul nostro rapporto con le tecnologie digitali sia oggi una tematica centrale per le persone.
Questo però non è il solo approccio possibile, tanto meno l’unico che è emerso. Accanto a esso – e sintomatico del fatto che, al volgere degli anni ‘10 del 2000, c’è qualcosa di irrisolto nel nostro rapporto con le tecnologie digitali – è emerso un altro filone di riflessione. Penso sia corretto definirlo “nostalgico”, dato che ne accomuna le principali espressioni una sorta di rimpianto per l’innocenza perduta dell’internet delle origini. Ne fanno parte pezzi come The Decade the Internet Lost its Joy, di Clio Chang, Rise and Fall of the Reblog: 10 years of Tumblr di Marianne Eloise o We Found Love in a Fictional Place, di Emma Madden. Il primo dei tre articoli citati è una sorta di ponte tra l’approccio critico e il filone nostalgico di riflessione sugli ultimi dieci anni di internet. Lo è perché anch’esso riflette sui cambiamenti che hanno caratterizzato il design delle piattaforme su cui passiamo la maggior parte del nostro tempo ma, a differenza degli approcci più critici, mette al centro della sua preoccupazione la perdita di quel divertimento che era una parte consistente e costitutiva dell’esperienza di navigare in rete. Non è un caso che il divertimento – le emozioni nel complesso – siano al centro anche degli altri due articoli.
Il secondo ricostruisce la parabola di Tumblr, una piattaforma di microblogging capace di costruire una base di utenti caratterizzati da approcci peculiari alla costruzione dell’identità digitale, allo humor e alle tematiche di giustizia sociale. Caratteristiche che hanno fatto di Tumblr un luogo molto amato, proprio in ragione delle differenze che lo caratterizzavano rispetto alle piattaforme concorrenti. Differenze che sono state livellate nel corso di vari passaggi di proprietà, il cui effetto è stato quello di cancellarne l’essenza. Un segno di quanto le piattaforme social siano una sorta di forma di vita cannibale, capace di sopravvivere solo a costo di sottrarre ossigeno e spazio vitale a tutto ciò che prova a distinguersi dal loro modello di design e di business.
Il terzo articolo è un’ode a GeoCities, il servizio di web hosting di Yahoo, descritto come servizio pionieristico, simbolo di un’era di internet al cui centro c’era il gioco con le identità e la libera espressione del proprio io, modulata attraverso interfacce primitive, caratterizzate da un’estetica ben precisa e riconoscibile. Anche qui, fin dal titolo, sono le emozioni di un internet-che-non-è-più a rappresentare il cuore dell’argomentazione. GeoCities contrappone dunque il calore dell’innamoramento, reso possibile dal suo carattere apertamente finzionale, alla freddezza delle piattaforme estrattive di oggi, tutte costruite intorno a un’ingiunzione di verità e autenticità che è funzionale soltanto alla messa a valore delle nostre vite.
Le riflessioni nostalgiche su Internet mettono al centro della loro preoccupazione la perdita di quel divertimento che era una parte consistente e costitutiva dell’esperienza di navigare in rete.
Tutto questo, riconosce l’autrice, rende la nostalgia di quell’epoca dell’internet, un sentimento incredibilmente seducente. Ne è la prova la sopravvivenza di realtà all’apparenza anacronistiche, come il metaverso di Active Worlds. Uno spazio virtuale navigabile che è ancora popolato da un numero considerevole di utenti che cercano di ricreare l’atmosfera della rete di un decennio fa, ritirandosi in uno spazio protetto, ma residuale.
Nel suo The Future of Nostalgia, Svetlana Boym distingue due tipi diversi di nostalgia. Definisce restorative (ricostitutiva) la prima e reflective (riflessiva) la seconda. La nostalgia ricostitutiva evoca una dimensione nazionale e collettiva del passato e del futuro. Si basa sulla credenza che un’entità ostile – più o meno identificata, più o meno reale – sia responsabile della distruzione di un passato dai tratti edenici e idilliaci, che deve essere ricostruito, identico, nel presente. È un sentimento pregno di complottismo, paranoia e senso di accerchiamento. Al contrario, la nostalgia riflessiva è più incentrata sulla dimensione individuale e culturale della memoria. Piuttosto che invocare una ricostruzione, la nostalgia riflessiva abbraccia i frammenti distrutti della memoria e conferisce tempo agli spazi. È un atteggiamento ironico e scanzonato, innamorato della distanza che lo separa da quel posto mitico che viene chiamato “casa”. Chi lo adotta si installa della distanza tra il presente e il passato verso cui prova nostalgia, con l’obiettivo di trascinarne l’immagine verso il futuro.
Oggi che ci troviamo a riflettere sulle trasformazioni che hanno rimodellato le rete e il nostro rapporto con essa negli ultimi dieci anni, una riflessione come quella di Boym è di straordinaria utilità per affrontare il trauma che questi cambiamenti sembrano aver prodotto in noi e che la produzione culturale degli ultimi mesi sta registrando. Se questa nostalgia, piuttosto che nella possibilità di progettare il futuro, si incanala verso quella tensione che patrocina un impossibile ritorno al passato corriamo il rischio di trovarci di fronte a un sentimento di rabbia, frustrazione per qualcosa che non esiste più e non potrà esistere ulteriormente. Ma se, al contrario, sapremo dare a quella nostalgia una dimensione riflessiva, avremo a disposizione uno strumento straordinario per trasportare verso il futuro quelle immagini di libertà e calore che rendevano l’internet del passato così divertente e significativo.
Chi adotta la nostalgia riflessiva si installa nella distanza tra il presente e il passato verso cui prova nostalgia, con l’obiettivo di trascinarne l’immagine verso il futuro.
È di un modernismo digitale che abbiamo bisogno oggi. Una sensibilità etica ed estetica capace di rompere con le regole del design delle piattaforme, di creare frizione nelle interazioni, per farci avvertire la presenza dell’apparato di controllo e valorizzazione che scorre al di sotto delle interfacce che danno forma al nostro mondo. Costruire un rapporto sano con la memoria e il passato è un passaggio fondamentale per dare vita a questa sensibilità.