“C hissà che direbbe se fosse ancora vivo” si sospira pensando a tutti i grandi maestri che ci hanno lasciato e che, per un motivo o per l’altro, supponiamo avrebbero tanto da dire sulla nostra povera contemporaneità. L’idea è che i nostri tempi, che costoro non hanno fatto in tempo a vedere, portino il segno visibile delle loro intuizioni finalmente avverate oppure che presentino nuove sfide che sembrano fatte apposta per essere interpretate dalla loro cassetta degli attrezzi teoretica. Non sono il solo a pensare che entrambe queste affermazioni siano vere per René Girard, il grande filosofo e antropologo francese scomparso precisamente dieci anni fa, il 4 novembre 2015.
Non sono il solo a pensare che il mondo che abitiamo da quindici anni a questa parte sia particolarmente suscettibile di analisi girardiane, un mondo che Girard ha fatto in tempo a scorgere ma non a commentare: le sue ultime apparizioni pubbliche risalgono alla fine del primo decennio degli anni Duemila quando la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe costretto a parlare di “capro espiatorio” quasi ogni santo giorno era appena iniziata. Non sono il solo a pensare, infine, che proprio i social network siano, da un lato una sorta di piastra di Petri del pensiero girardiano, dall’altro un acceleratore di queste dinamiche che rende le sue riflessioni più attuali che mai.
Già ai suoi tempi Girard notò che la diffusione nella società della locuzione “capro espiatorio”, tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello quotidiano, comportava importanti conseguenze. A differenza di tanti pensatori che sono gelosissimi della loro ridefinizione tecnica di un concetto noto a tutti e passano la loro carriera a squalificare gli usi “barbari” di quella parola che è diventata il centro del loro programma teorico, Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune. Proprio da questa comprensione generale però, come vedremo, deriva secondo lui la progressiva perdita di efficacia del meccanismo e, allo stesso tempo, una proliferazione dei fenomeni ascrivibili allo stesso: di quelli veri e di quelli falsi.
La chiamo Teoria del tutto perché la teoresi di Girard non mancava certo di ambizione o di sistematicità. Spaziando tra antropologia, psicologia, sociologia e storia delle religioni, con un pugno di intuizioni debitamente sviluppate e interconnesse, Girard pretese di spiegare la condizione umana nel suo insieme e, quasi en passant, la natura di Dio stesso: di quello vero e di quelli falsi. Tanto sviluppate e interconnesse sono queste intuizioni ‒ e la Teoria del tutto che ne segue ‒ che è complicato introdurle quali strumenti di analisi del presente senza un approfondimento adeguato. Allo stesso tempo, l’originalità di queste intuizioni fa sì che un’esposizione a volo d’uccello dei principali assunti del pensiero girardiano risulterebbe, alla meglio, una cascata di affermazioni arbitrarie e, alla peggio, uno sproloquio da manicomio.
Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune.
L’omicidio collettivo fondativo
Freud e Girard si azzuffano nel fango. Volano botte da orbi retoriche. Il secondo accusa il primo di aver frainteso tutto quello che ha intuito, che il triangolo non è edipico, che i tuoi genitori non c’entrano niente, il triangolo è la base delle relazioni umane punto e basta (ci arriviamo). Rotolando per terra attraverso i secoli e i millenni, giungono all’alba dei tempi. Lì, in una radura poco distante, si sta consumando una scena incredibile e spaventosa: una dozzina di ominidi sta uccidendo a mani nude un loro simile. Il Padre della psicanalisi punta il dito ed esclama “Guarda! L’omicidio del Padre primordiale ad opera dei suoi Figli! La nascita della Civiltà”.
Le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che enunciarle rischia di scandalizzarvi e farvi scappare quanto più lontano possibile dal suo universo mentale.
Più o meno così ci presenta Girard il suo confronto intellettuale con Sigmund Freud, in particolare con la sua opera maledetta Totem e tabù (1913). Maledetta perché, come ci riporta il nostro, già in quegli anni tutti i freudiani la evitavano come la peste. E se non potevano fare a meno di parlarne, lo facevano con mille mani avanti e esecrando il più scandaloso passo falso del loro maestro, questa idea ridicola e preoccupante che l’umanità sia sorta dall’omicidio di un Padre Primordiale da parte dell’Orda Primitiva composta dai suoi Figli coalizzati contro di lui. Girard, con una soddisfazione intellettuale che non riesce a nascondere, dice il contrario: buttate pure tutto Totem e tabù, se non l’intera opera freudiana, ma lasciatemi l’omicidio collettivo che è l’unica intuizione assolutamente geniale e assolutamente vera che egli ha avuto.
Anche questa intuizione, a dire il vero, la smussa e la radicalizza insieme. I legami familiari, dice, non c’entrano nulla. Ogni società è sorta sul cadavere di un individuo, un individuo qualsiasi, un capro espiatorio, ucciso da tutti i membri del gruppo che hanno convogliato su di lui tutta la violenza che li metteva gli uni contro gli altri, trovando finalmente unità. Questo evento non è accaduto una volta per tutte, come sembra credere Freud, ma più volte per ogni civiltà umana, in cicli che possiamo sintetizzare così: i rapporti in un gruppo si guastano progressivamente fino a giungere a un’ostilità diffusa che Girard chiama “crisi mimetica” (vedremo perché); una volta scatenatasi, questa violenza può avere due esiti: l’estinzione del gruppo stesso attraverso una catena di rappresaglie omicide senza fine, oppure l’omicidio collettivo di un membro scelto a caso che si assume, insieme, la colpa di tutta la violenza che correva per la società e il merito della pace che segue questa ritrovata unità: il capro espiatorio. Da questa pace sorgono tutte le istituzioni culturali che garantiranno la pace interna fino alla prossima crisi mimetica.
Ora vi chiederete: e Girard, tutte queste cose, come le sa? Risponde lui: analizzando le istituzioni stesse, su tutte i riti e i miti. È pacifico che questo fenomeno fondamentale non può più essere osservato direttamente ma, sostiene Girard, le tracce che ha impresso nella storia culturale dell’uomo sono chiarissime e univoche. Ogni rito è per lui una messa in scena della crisi originaria e dell’omicidio collettivo che l’ha risolto, che serve a sfogare la violenza e ripristinare le forze positive che l’hanno seguita “la prima volta”. Ogni rito, infatti, era in origine un rito di sacrificio, di sacrificio umano per la precisione, e solo modificazioni successive hanno trasformato la maggior parte di questi, prima in sacrifici animali e poi in rappresentazioni via via più allusive o giocose della violenza reale, come l’aggressione collettiva di fantocci.
I miti, dal canto loro, sono la narrazione mistificata di questo episodio omicida che informa i riti e, a cascata, tutte le istituzioni religiose e sociali, cioè il sacro stesso. A subire la violenza, nel mito, è un dio o un uomo in seguito divinizzato che paga per delle colpe che gli vengono attribuite nel racconto medesimo. Per Girard, infatti, ogni mito è il racconto di questo omicidio insensato ma narrato dal punto di vista dei persecutori stessi che si convincono della colpevolezza della vittima. Proprio come i riti, anche i miti vedono evoluzioni che marginalizzano o mistificano ulteriormente l’evento reale da cui traggono origine, trasformandolo in una disputa, un esilio o un allontanamento/suicidio volontario. Facile formulare un’obiezione ‒ che è stata effettivamente mossa ‒ a tutto ciò: Girard opera un cherry picking e/o un’interpretazione forzata dei materiali mitici e rituali al fine di affermare l’universalità della sua scoperta.
Ogni società è sorta sul cadavere di un individuo, un individuo qualsiasi, un capro espiatorio, ucciso da tutti i membri del gruppo che hanno convogliato su di lui tutta la violenza che li metteva gli uni contro gli altri, trovando finalmente unità.
L’eccezionalità del Cristianesimo
Duemila anni fa un uomo fu ucciso da persone che, a suo dire, non sapevano quello che facevano. Duemila anni dopo, oltre due miliardi di persone considerano quell’uomo figlio di Dio e tra queste c’era anche René Girard. In chiusura de La violenza e il sacro, la sua prima grande opera di taglio antropologico uscita nel 1972 e dalla quale ho estratto le nozioni che vi ho sintetizzato prima, Girard lancia al lettore una sorta di cliffhanger, anticipando che “l’ampliamento di tale teoria in direzione giudeo-cristiano” sarà rinviata a opere successive.
Niente suggerisce al lettore che la tradizione giudaico-cristiana farà eccezione all’unità di tutti i riti fin lì tratteggiata dall’autore. Immaginate lo stupore quando l’opera annunciata si intitola con una suggestiva frase estratta dal Vangelo. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo esce nel 1978. Da lì in poi, l’opera di Girard diventa ‒ o forse si rivela ‒ una serratissima apologetica cristiana che trae i suoi argomenti dalle precedenti ricerche antropologiche, sociologiche, psicologiche e letterarie.
Lungi dall’essere la riproposizione del mito del dio ucciso e risorto, per Girard il cristianesimo è la rivelazione della falsità del mito stesso, l’evento che una volta per tutte mostra le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, ovverosia la mistificazione sacrificale dell’omicidio collettivo. Sì, la storia è proprio la stessa ma per la prima volta è interpretata correttamente, viene cioè raccontata dal punto di vista della vittima innocente e non da quello dei persecutori. Questo è forse il boccone girardiano più difficile da ingoiare, soprattutto se il lettore fa parte di quei sei miliardi circa che non sono affatto convinti che quell’uomo lì fosse figlio di Dio. Eppure il centro del ragionamento girardiano non è quasi toccato dall’effettiva esistenza di un essere superiore, creatore del cielo e della terra ecc. La rivelazione cristiana per lui coincide con la rivelazione del meccanismo vittimario e può pertanto essere “accettata” anche da una prospettiva materialista. L’unico accenno di “argomento ontologico” a sostegno dell’esistenza di Dio si trova in pochi e frettolosi passaggi che stabiliscono, sulla logica degli altri argomenti ontologici, che solo un essere superiore avrebbe potuto svegliare gli uomini e rivelare loro la radice della propria violenza, attraverso la croce.
In questo senso, l’eccezionalità cristiana in Girard può essere ricevuta come la pars construens della sua proposta teorica, il Che fare? di fronte a tutta la violenza del mondo che per Girard coincide con l’aspetto di radicale non-violenza del messaggio evangelico. Se la Passione racconta per la prima volta in modo veritiero cos’è un capro espiatorio, colui che viene “odiato senza ragione”, l’insegnamento di Cristo è tutto orientato a scongiurare con ogni mezzo l’insorgere di questa violenza. Porgi l’altra guancia; chi è senza peccato scagli la prima pietra; non giudicate, per non essere giudicati; e infine “Voi avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico’. Ma io vi dico: ‘Amate i vostri nemici’”: Girard legge la novità evangelica come questa profilassi estrema contro l’innesco della violenza, un pacifismo così radicale da essere inaccettabile e infatti inaccettato tutt’ora, duemila anni dopo la rivelazione.
La rivelazione cristiana per lui coincide con la rivelazione del meccanismo vittimario e può pertanto essere “accettata” anche da una prospettiva materialista.
Il desiderio mimetico
L’estate scorsa, per un paio di settimane, l’opinione pubblica si è scandalizzata per un gruppo Facebook chiamato “Mia moglie” in cui decine di migliaia di mariti italiani pubblicavano foto delle loro consorti ‒ sembra quasi sempre senza consenso ‒ affinché venissero rese oggetto del desiderio di una folla di altri uomini sconosciuti. Lo scandalo si è giustamente concentrato non tanto sul gioco erotico in sé quanto sulla diffusa assenza di consenso al gioco stesso da parte delle donne coinvolte loro malgrado. Stupisce però che quasi nessuno si sia comunque interrogato sul perché questi ormai mitici trentaduemila uomini italiani si trovassero tutti a loro agio in una perversione apparentemente così specifica e marginale che non ha neppure una vera e propria traduzione nella nostra lingua ‒ il cuckolding. Quasi nessuno eccetto un’autrice che, proprio su queste pagine, ha correttamente parlato di “classica diffrazione di stampo girardiano” per descrivere ciò che stava avvenendo lì.
E infatti non sarebbe poi così esagerato indicare il cuckolding come forma universale del desiderio secondo Girard. Di questo stavano litigando lui e Freud mentre si rotolavano nel fango. Il Padre della psicanalisi ha introdotto il triangolo con il complesso d’Edipo mentre per Girard il triangolo è la forma di tutte le relazioni e quella edipica è solo la prima di queste ma non ha nessun primato epistemologico nella genesi del desiderio. Nella sua prima opera, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), analizzando un pugno di classici moderni ‒ Cervantes, Stendhal, Flaubert e Dostoevskij ‒ Girard individua la struttura fondamentale del desiderio nella triangolazione tra un soggetto, un mediatore (in seguito chiamato anche modello/ostacolo) e un oggetto. Il desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni violenza.
Se tutto questo sembra astratto, ritorniamo a ciò che succedeva in quel gruppo: i mariti tornano a desiderare le proprie mogli solo se le vedono desiderate da altri e, forse ancora più sconvolgente a ben guardare, gli altri desiderano queste donne che intravedono in fotografie pessime e male inquadrate solo perché gli viene detto che appartengono a qualcun altro. Il desiderio degli “aspiranti bull” del gruppo è, paradossalmente, molto più strano del desiderio dei “cuck” che cedono la loro donna alla massa. In un mondo in cui la pornografia più esplicita è ovunque, costoro si eccitano alla vista di mezzo corpo femminile in costume solo perché un mediatore sconosciuto gli dice: “Questa è mia moglie”. Non concepisco migliore argomento in favore dell’esistenza del desiderio mimetico girardiano nella sua purezza che questo.
Il desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni violenza.
Ma non va sempre così, anzi, quasi mai. Girard afferma che l’oggetto del desiderio tende sempre a eclissarsi ma per lasciare spazio a una rivalità che odia senza neanche più bisogno dell’invidia o della gelosia: è la crisi dei doppi. I due contendenti, ormai dimentichi dell’oggetto della contesa, si recriminano l’un l’altro le stesse colpe, le stesse accuse. Niente più li distingue. Un tipico oggetto del desiderio che, molto più delle mogli, si presta a questa repentina scomparsa è l’onore. Chi ha offeso chi? Chi per primo, chi per secondo, chi ha esagerato nella risposta a un’offesa che non era poi così grave? La disputa verbale precede quella fisica e si allarga a macchia d’olio in tutta la società: è la crisi mimetica.
Solo una cosa può risolvere questa crisi, già lo sapete, ma ora sapete anche perché: il capro espiatorio assume su di sé tutte le recriminazioni, tutte le colpe, tutta la catena di accuse ormai inestricabile che aveva diviso la collettività. Lui e solo lui è l’origine dell’odio, della frustrazione, della gelosia che proviamo. Una volta che lo abbiamo ucciso tutti insieme, ci ritroviamo in pace: “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”.
Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca è il vero motore dell’ominizzazione, ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto il processo. Imitandosi a vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio istintuale”, accedono a una nuova classe di desideri e quindi di conflitti. Si scatena la violenza e uccidono uno di loro. Si calmano. Lo seppelliscono con un cumulo di pietre: una piramide rudimentale, priva di punta, proprio come le più antiche tombe di cui abbiamo testimonianza. Da qui, attraverso numerosi cicli, nasce la civiltà con i suoi riti, i suoi miti, le sue istituzioni.
Mi rendo conto ora che forse, ancora più di Cristo morto e risorto, sia questo il boccone girardiano più ostico, l’idea che la mimesi sia allo stesso tempo il vero motore del salto compiuto dall’Homo sapiens sapiens e la realtà ultima di ogni nostro desiderio. Anche qui possiamo però ridurre la portata universale dell’affermazione girardiana dirigendo l’attenzione su quanti dei nostri desideri sono mimetici senza che ce ne rendiamo conto. Fino alla fine, da Menzogna romantica e verità romanzesca in poi, Girard ha difeso la tesi per cui ogni desiderio è mimetico e il desiderio oggettuale è relegato all’ambito del “montaggio istintuale”, malamente definito e ricondotto ai più bassi gradini della piramide di Maslow. Senza cercare di dimostrare l’inesistenza totale del desiderio oggettuale, noi possiamo fare a meno di questo assolutismo e ipotizzare che il mimetismo sia una componente fondamentale di tanti nostri desideri che raramente mettiamo a fuoco. Ora siamo pronti per affrontare la contemporaneità da girardiani scettici.
I fondamenti dei nostri capri espiatori
In questi ultimi dieci anni tanti hanno evocato Girard, spinti da un mondo che sembrava sempre più ostinato a dargli ragione. Spesso, però, è stato evocato superficialmente, senza cioè integrare i fondamenti della sua teoria che, abbiamo visto, non è d’altronde facile da comunicare. Di fronte al moltiplicarsi di fenomeni quali le shitstorm, la call out culture, la cancel culture, il politicamente corretto, a tanti saliva alla bocca la parola “capro espiatorio” e, con questa, il nome del grande studioso che ci ha intitolato la sua opera più famosa. All’interno di queste riflessioni, però, il ruolo di Girard si riduce spesso all’averci genericamente “messo in guardia” contro un fenomeno brutto e cattivo ‒ il capro espiatorio ‒ che si è stranamente moltiplicato nella nostra società, chissà perché. Tanto più grande è stato Girard da averci dato gli strumenti per interpretare le cause profonde del fenomeno e cioè quel meccanismo di cui abbiamo appena parlato, chiamato mimetismo. Se tutti riconoscono che i capri espiatori si sono moltiplicati grazie all’imporsi del social network, Girard ci fornisce la chiave per decifrare che tipo di tendenze sono incentivate da queste nuove forme di socialità e come queste portino a fenomeni di capro espiatorio.
Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca è ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto il processo. Imitandosi a vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio istintuale”, accedono a una nuova classe di desideri e quindi di conflitti.
E se il social network comportasse la confusione e il collasso di mediazione esterna e mediazione interna? I modelli sul social network siamo tutti noi, gli uni per gli altri, conosciuti e sconosciuti. Mediatori interni e mediatori esterni sono posti sullo stesso piano, tutti su quel piedistallo chiamato “profilo” che attira sguardi, attenzioni, amori, odi e invidie. Più di ogni altra cosa approvazioni pubbliche, quel pulsantino fondamentale nell’economia del social network chiamato “like” che altro non è che un indice di gradimento, un indice che indica cosa desiderare, in quanto già desiderato. Il sociologo Niklas Luhmann chiamava queste dinamiche “osservazione di secondo ordine” e, in tempi recenti, il filosofo Hans-Georg Moeller ha adoperato la categoria per descrivere come “profilistica” la nuova tecnologia dell’identità inaugurata dal social network. In ottica girardiana, il social network è la più perfetta macchina mimetica perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci.
Sul social network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro.
Insomma, se abbiamo assunto che i fenomeni di capro espiatorio si sono moltiplicati per via dei social network e possiamo dimostrare indipendentemente che sono anche uno degli ambienti più mimetici in cui l’umanità si sia trovata a vivere, possiamo persino rovesciare la domanda e dire che ciò che abbiamo davanti agli occhi conferma l’intuizione girardiana: il social network è la prova del nesso tra mimesi e capro espiatorio, la piastra di Petri che rivela la connessione profonda tra una società che si imita senza sosta e che senza sosta si ritrova ad odiare collettivamente alcuni membri della società stessa.
L’inconsistenza dei nostri capri espiatori
Abbiamo anticipato che, già nel corso della sua vita, Girard osserva un duplice e paradossale movimento dei capri espiatori: si moltiplicano ma non funzionano più. Le ragioni che individua sono due e complementari. Intanto, sempre più raramente uccidiamo i nostri capri espiatori e quindi non accediamo al momento catartico che segue un vero e proprio omicidio collettivo, ma se uccidiamo sempre più di rado è proprio perché non ci crediamo più fino in fondo. La diffusione del termine “capro espiatorio” testimonia proprio questo: la (lenta) presa di coscienza che l’umanità sta facendo del suo meccanismo fondatore. Anche la più approssimativa comprensione del termine rimanda a una violenza che si scatena senza ragione su un singolo o su un gruppo come “diversivo” o “sfogo” di determinate energie.
In ottica girardiana, il social network è la più perfetta macchina mimetica perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci. Sul social network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro.
Altri, ancora più interessanti, fanno parte della cerchia dei persecutori. A differenza della folla anonima che lapida e che ritrova l’unità in questo gesto collettivizzante, i persecutori del social network hanno nomi e cognomi, profili ricchi di storia e contraddizioni, facilmente accessibili. “Come si permette LUI di parlare?” si chiede a un certo punto qualcuno che sposta lo sguardo dalla vittima selezionata a un suo collega con la pietra in mano. Pervertendo il senso ultimo della parabola dell’adultera, ovverosia comprendendolo solo parzialmente, il lapidatore virtuale scopre che nessuno è senza peccato, nessuno può scagliare la prima pietra tranne, guarda caso, sé stesso. Il colmo si raggiunge quando, durante questo spostamento, il persecutore che ha selezionato una vittima secondaria arriva persino a condannare il meccanismo di “capro espiatorio” per meglio colpevolizzare il suo nemico, senza rendersi conto di averne appena eretto un altro. La conoscenza del meccanismo di “capro espiatorio” indebolisce la pratica ma viene contemporaneamente messa al lavoro per individuare la vittima perfetta, il colpevole assoluto che finalmente e una volta per tutte chiuderà il ciclo della violenza. Ma chi è questa vittima?
L’incertezza dei nostri capri espiatori
L’omicidio fondativo, l’eccezionalità cristiana, la mimesi di ogni desiderio: abbiamo visto che nel pensiero girardiano ce ne sono di affermazioni che un tempo avremmo definito “problematiche”, prima che questa parola prendesse a significare “offensive per qualcuno”.
Ma c’è n’è una che potrebbe essere la più problematica di tutte e la sua problematicità ha a che fare direttamente con una certa permalosità generalizzata che Girard stesso vedeva crescere già nel suo tempo. Proprio colui che ha dedicato la sua vita di studioso al riscatto delle vittime sulle quali abbiamo fondato la civiltà, sin dagli anni Novanta, osserva attorno a sé una propensione ad occupare il ruolo della vittima in modo indebito. L’idea non suonerà nuova al lettore italiano perché è la tesi centrale del saggio nostrano più discusso sul tema, Critica della vittima di Daniele Giglioli, uscito ormai più di dieci anni fa. Per Girard, questa tendenza a posizionarsi all’interno di quello che Giglioli chiama “paradigma vittimario” accompagna e cresce insieme alla consapevolezza generalizzata sul meccanismo del capro espiatorio. Il ragionamento è semplice: quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza ragione e poi riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in costoro e vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia.
E a questo punto, sia in Girard sia in Giglioli, compare l’idea problematica che rischia di squalificare l’intero discorso: la distinzione tra vittime false e vittime vere. In più punti Girard intrattiene l’idea dell’assoluta innocenza della vittima quando si trova effettivamente perseguitata. Oltre a Cristo ‒ che lo è per dogma ‒, lo stesso viene detto di Giobbe, di Edipo, degli ebrei nelle persecuzioni medievali. In Giglioli, che sembra criticare la posizione della vittima in quanto tale, compaiono qui e lì delle vittime dichiaratamente false che sembrano alludere all’esistenza delle vittime vere, o perlomeno “più vere”: c’è Silvio Berlusconi e la sua persecuzione giudiziaria come simbolo universalmente condiviso dai suoi lettori di sinistra di vittima falsa, ma anche il popolo ebraico (di nuovo) che oggi eredita la posizione vittimaria dai “titolari effettivi”, cioè le autentiche vittime dell’Olocausto.
Quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza ragione e poi riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in costoro e vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia.
A riprova dell’attualità di Girard, a pochi anni dalla sua morte, si è diffuso uno slogan che ha segnato il rapporto irrazionale che stavamo instaurando con il concetto di vittima, sempre più confusi dal proliferare dei capri espiatori. “Credere alla vittima” è infatti un’assurdità logica ancora prima di un’aberrazione etica. Di per sé, non vuol dire nulla. È una delle più brevi petizioni di principio formulabili. Non puoi chiedere di credere alla vittima poiché dal momento che la definisci tale, già le credi. Se riusciamo ad attribuire un senso alla frase, se l’abbiamo fatta operare nel mondo come significasse qualcosa di compiuto, è perché la vera affermazione al lavoro era ben più sinistra: credi all’accusatore. Credi a chiunque si presenti come una vittima di un torto subito, credi alla colpevolezza di colui che indica. Girard aggiungerebbe qui “senza fare inchieste”, la frase che più lo inquieta nella sua già citata rilettura del Libro di Giobbe in L’antica via degli empi. Ad agire “senza fare inchieste” è il dio del massacro che gli accusatori mobilitano contro Giobbe, ovverosia la folla linciante che si scatena sul primo malcapitato. Giobbe, dal canto suo, mobilita un avvocato difensore che interceda per lui presso l’Altissimo, un Paraclito, il vero Dio dei Vangeli che è il Dio delle vittime.
Sebbene Girard mostri con quanta insistenza le Scritture pongano Satana nel ruolo dell’accusatore e Cristo in quello del difensore, non stiamo qui affermando che l’accusa ha sempre torto e la difesa sempre ragione ma che questa dialettica deve quantomeno darsi per evitare che l’umanità risolva la propria violenza a spese di una catena di capri espiatori, più o meno innocenti, più o meno colpevoli, selezionati “senza fare inchieste”. Il luogo in cui questa dialettica dovrebbe avere luogo esiste già ed è ovviamente il tribunale, metonimia dello Stato di diritto, la cui elaborazione nel corso dei secoli, dall’habeas corpus alla presunzione di innocenza, può essere letta come la progressiva tutela di tutti i potenziali capri espiatori dalle grinfie della folla.
Da qui viene la violenza per Girard: non da una generica “aggressività animale” ma da un reciproco senso di ingiustizia subita. Così in Girard la posizione della vittima è sia quella di colui che viene infine accerchiato ma anche quella di coloro che l’accerchiano, i quali si sentono soggettivamente vittime della sua azione.
Girard ci ha lasciato un problema con due corni: l’assoluta certezza dell’esistenza delle vittime e il necessario sospetto verso chiunque si presenti come vittima, poiché farlo è il primo passo per esercitare la violenza. Eppure non ci ha lasciati privi di strumenti. Con un anticipo spaventoso sui tempi, mentre siamo immersi in uno Zeitgeist che ci intima di rintracciare nella nostra storia personale tutti i modi in cui siamo stati vittime per rinfacciarli al prossimo, Girard afferma che la conversione cristiana è una cosa semplicissima, quella cosa accaduta a San Paolo sulla famosa via: riconoscere sé stessi in quanto persecutori.