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obert Franklin Williams (1925-1996) è stato una figura chiave del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti: attivista e scrittore, prima a Monroe, in North Carolina, città dove nasce, poi dall’esilio a Cuba e in Cina. Nel suo libro Negroes with Guns (1962) Williams ripercorre eventi e azioni chiave della sua vita politica: snodo essenziale è il diritto all’autodifesa armata contro la violenza razzista. Il testo è stato reso disponibile in italiano grazie alla traduzione Ne*ri con le pistole (2024), curata e pubblicata da Progetto Me-ti, di cui fa parte Viola Carofalo, attivista, politica e professoressa associata di filosofia morale all’Università degli Studi di Napoli.
Per prima cosa volevo partire dal contesto di questo libro e quindi chiederti di raccontare un po’ di Progetto Me-ti. Come è emerso? Come si è sviluppato? Ci sono altri aspetti, oltre a quello editoriale, che vi stanno a cuore?
Progetto Me-ti è stato fondato da un gruppo di attivisti e attiviste. La nostra esigenza era di darci uno spazio di dibattito su tre linee di discussione che sono fondamentali per noi: l’antirazzismo e l’antiimperialismo, connesso al tema della guerra; il rapporto fra i generi e il transfemminismo e l’emersione della contraddizione di classe, che dal nostro punto di vista attualmente è trascurata. La preoccupazione che ci muove è che nel dibattito fra gli attivisti, e in quello della sinistra radicale, queste discussioni prendono spesso una piega identitaria. Naturalmente i discorsi identitari giocano un ruolo importante – per esempio per quanto riguarda l’emersione della differenza – però, secondo noi, oltre a essere problematici da un punto di vista teorico, possono diventare pericolosi soprattutto dal punto di vista organizzativo, pratico e strutturante dei movimenti. Così, anche se non facciamo gli editori di lavoro e nessuno viene pagato, abbiamo messo su Progetto Me-ti. L’idea è che l’attività editoriale – tanto il
blog quanto il cartaceo – sia incentrata sull’attivismo per rafforzarlo. Williams è la nostra prima pubblicazione e a maggio sono usciti altri due testi:
Trame, un fumetto cui hanno lavorato attivisti che operano nel carcere di Poggioreale a Napoli, e
Alleanze ribelli, la traduzione di un testo pubblicato in Spagna quattro anni fa da un collettivo che si occupa di transfemminismo al di là della prospettiva identitaria e si concentra anche sulla
critica al punitivismo – tema importante in un momento come questo, in cui il rapporto fra questione carceraria, questioni di genere e sicurezza è diventato esplosivo. Il piano è quello di far uscire pochi testi e di portarli in giro e presentarli. E in questo c’è l’altro aspetto fondamentale di Me-ti, che è la formazione: fare incontri in tutta Italia – incontri di discussione e autoformazione dal vivo – oltre che online, dedicati soprattutto a persone legate al mondo dell’attivismo.
Ne*ri con le pistole rientra chiaramente, per un verso, nelle tre linee di interesse di Me-ti per come le hai appena descritte. Per l’altro, però, è un libro che ha ormai qualche anno. Al di là di voler rendere disponibile questo testo in italiano, come e perché lo avete scelto, al netto della distanza temporale?
Sai, ci eravamo inciampati dentro tante volte. Anche se Williams non è molto conosciuto in Italia, e infatti non lo aveva ancora tradotto nessuno, è un teorico importante dell’autodifesa ed è un riferimento centrale del Black panther party. Per noi il Black panther party è un esempio fondamentale di pratica e teoria politica, soprattutto per quanto riguarda il tema del mutualismo. Quello che ci interessa non è solo la lettura che Williams e il Black panther danno del razzismo, ma anche e soprattutto il discorso sulla comunità, sul mutualismo e in particolare sul mutualismo conflittuale, cioè che va oltre la dimensione dell’associazionismo e del supporto. Williams trascende l’antirazzismo e racconta di come si possono costruire, anche a partire da mezzi scarsissimi e in notevoli condizioni di repressione, organizzazione comunitaria e forme di politicizzazione. Lo fa peraltro in un contesto simile a quello in cui ci troviamo ad agire noi come attivisti: nei contesti spuri del cosiddetto sottoproletariato urbano, in cui il tema della razzializzazione esiste in un modo specifico. Sia a Napoli, dove mi trovo io, sia a Padova, Milano e Roma, dove si trovano gli altri del gruppo, lavoriamo in termini di supporto diretto, cioè non solo di dibattito culturale, con persone che vivono una contraddizione forte, legata alla discriminazione razziale, e che allo stesso tempo sono una parte marginalizzata di lavoratori e lavoratrici, che noi consideriamo proprio in quanto tali: con il diritto di avere un accesso ai servizi, a un lavoro decente, eccetera. È su questo piano che vogliamo convogliare il lavoro teorico, e Williams per questo è molto utile.
E in effetti nel libro molto spazio è legato al contesto specifico, la cittadina di Monroe, così come agli eventi contingenti e autobiografici della storia di Williams che poi sfociano nella vita politica. Come leggi questa commistione fra l’aneddotico, l’autobiografico, gli eventi contingenti, da un lato, e poi il riferimento a un piano teorico più forte, più universale, dall’altro?
Parto da quello che dicevi, che è un testo autobiografico – in realtà, chiaramente, non è soltanto così. Naturalmente il Black power ha una tradizione di autobiografia enorme. Si scrivono principalmente testi autobiografici in quel contesto. Ti faccio una digressione che è un mio pallino. Io credo che il tema dell’autobiografia sia fondamentale per comprendere anche il modo di raccontare in modo intersezionale le cose. È un ottimo strumento, che io per ragioni di lavoro studio in campo femminista, perché consente costantemente di passare dal particolare al generale producendo forme di rispecchiamento diretto. Banalmente dici: questa cosa è successa anche a me, la capisco perché la ho vissuta. Quindi non parliamo solo di autobiografia nel senso di racconto di una vita singolare, ma di autobiografia come qualcosa che si inserisce in una storia con la S maiuscola.
Williams, secondo me, racconta la sua vita, per un verso straordinaria, per un verso simile alla vita di tanti attivisti neri di quell’epoca, con una potenza diversa e con una capacità teorica diversa. Ed è importante però che Ne*ri con le pistole sia anche un’autobiografia. Se Williams avesse scritto un saggetto su come organizzare una comunità, probabilmente sarebbero state tre righe in cui dice: ragazzi, bisogna essere spregiudicati, punto. Perché poi, secondo me, questo è il precipitato maggiore: essere spregiudicati, usare tutti i mezzi necessari, un po’ alla Malcolm X, e provare a rimanere in connessione coi nostri, con cui abbiamo vissuto. L’autobiografia riesce a rendere questo tipo di ragionamento, che è semplice ma non banale, e a trasmettere la visione politica di Williams, che è molto chiara, di classe e antirazzista, in modo assolutamente leggibile e alla portata di tutti. La scrittura è felice in questo senso, anche se a volte difficile alla traduzione: a volte sembrava di tradurre il dialogo di un poliziottesco. La resa generale però è quella di un discorso comprensibile, che va dritto al punto, e che ha più chiavi di lettura.
Primo, si fa con quel che si ha – questo è il livello della spregiudicatezza. Secondo, la profondità teorica: pur non essendo in prima linea un teorico – a differenza di Malcolm X, per esempio, o di altri esponenti del Black power che avevano avuto anche solo in carcere una maggiore formazione – Williams raggiunge una profondità concettuale notevole. Terzo, per me è importante che una persona così legata alla comunità riesca a essere così fortemente internazionalista, che una persona così legata alla questione razziale, per ovvie ragioni, subendo la discriminazione in maniera così potente, riesca contemporaneamente ad avere una prospettiva trasversale e di classe, e che una persona così violentemente oppressa nel modo più immediato – lo perseguitano per tutta la vita – riesca sempre a inventarsi dei metodi molto furbi per continuare a fare politica. Mi fa sempre sorridere che Williams continuamente telefoni all’autorità di turno: “guardate che qui sta succedendo questa cosa,” perfettamente consapevole che non verrà ascoltato né supportato. Per me è come se dicesse implicitamente: “faccio tutti i passaggi, nessuno mi dirà che ho usato strumenti illegali prima di aver usato tutti gli altri strumenti a disposizione”. Riesce sempre a infilarsi fra le maglie e le contraddizioni. A me piacciono questi eroi pragmatici, anziché gli eroi romantici, che magari sono più affascinanti. Però gli eroi pragmatici, forse, sono più utili.
Telefonate con l’autorità che finiscono anche con “com’è che non sei ancora morto?”, per dirlo esplicitamente. Ma parliamo di questo aspetto di spregiudicatezza e pragmatismo, che è molto forte e molto interessante nel libro, e rispecchia anche un po’ una fissazione mia. Secondo te c’è un elemento quasi utilitarista in Ne*ri con le pistole? In testi più marcatamente teorici, meno incentrati sull’attivismo, i punti di vista privilegiati sono spesso l’autonomia, il riconoscimento, la giustizia, ecc., mentre l’utile e il pragmatico vengono un po’ messi in sordina. Cosa pensi di questi elementi, sia nel testo che nell’attivismo in generale?
Rispetto a questo tema, io credo che per Williams sia forte, perché è forte per tutto il Black power, l’influenza – nel suo caso indiretta – del maoismo. È sempre
Mao che rispunta fuori e che, per noi, è sempre scisso. Perché in Europa è letto in un modo ma nei contesti coloniali, di colonia interna o di colonia esterna che sia, è letto in un altro. Mao ha intrinsecamente alla sua visione questa prospettiva pragmatica e credo che questo aspetto in Williams venga da lì. E credo anche – e questa è un’altra ragione per cui Williams mi è simpatico – che questa prospettiva sia invece molto trascurata nell’attualità, anche nell’attivismo contemporaneo. La ragione che io mi do per l’abbandono di questo riferimento immediato all’utile è l’introiezione della sconfitta e della resa. Cioè, Williams e i suoi non si arrendono e proprio per questo usano tutto quello che hanno per generare un beneficio per la comunità. Quando invece introietti la resa, e ne fai quasi una bandiera, un manifesto, tutto ciò che rimane è un piano morale: ha il suo lato positivo e con il suo lato negativo, ma rimane una forma di purificazione.
Williams invece è assolutamente spurio: le usa tutte, tutti gli strumenti, tutte le possibilità. Anche per questo l’insistenza che abbiamo inserito nell’apparato critico: con ogni mezzo necessario non vuol dire con il mezzo più violento o con il mezzo più radicale. Vuol dire con tutto, con tutto ciò che è funzionale, che serve. Perché noi questo oggi lo facciamo meno? Perché questa prospettiva è intrinsecamente legata all’idea che si può vincere e che si può trasformare. E, se si può vincere, allora con cosa lo faccio? Con gli strumenti che ho a disposizione. E per noi oggi questa prospettiva è molto lontana. Credo che la nostra sia una prospettiva di purezza, come se ci chiedessimo: come posso essere una persona migliore, come posso fare sì che le persone intorno a me siano migliori?
Non Williams, ma altri attivisti del Black power erano persone terribili per tanti versi, con delle biografie ambigue, con percorsi tortuosi, che avevano fatto violenza non solo per sfamarsi, anche con storie di stupri, che insomma avevano fatto cose orribili e inaccettabili. E però in questo magma provavano sempre a dire: c’è qualcosa d’altro da fare. Sicuramente il loro problema non era quello di essere persone migliori, o che fossero circondati da persone migliori. Ci sono piuttosto i temi della sopravvivenza e della trasformazione, che sono intrecciati.
Rimaniamo su questo aspetto di ambiguità, che è molto interessante. Sembrano esserci due tendenze nel testo. Per un verso Williams rivendica sempre la dimensione del bisogno, della comunità locale e anche dell’individuo (quella che chiama la necessità di una “vita decente”). Per l’altro scrive anche: “Ci interessa essere liberi”. Questo rapporto fra il bisogno e il massimo sistema della libertà è un’ambiguità o le due cose vanno insieme?
Secondo me rappresenta un’ambiguità per noi oggi. Non credo fosse ambiguo allora. La mia impressione – altra ragione per cui mi piace la scrittura degli esponenti del Black power – è che in realtà parlare di vite vivibili, di vite degne, è esattamente l’unione di quelle due cose. Cioè, mi sembra il lato migliore di quel “pane e pace” della Rivoluzione d’ottobre. Richiama alla materialità della sopravvivenza: non vogliamo andare in guerra, vogliamo il pane, punto. Non stiamo raccontando di quali sono le ingiustizie dal punto di vista geopolitico, ma afferiamo di voler perseguire il nostro interesse. E il nostro interesse è non andare a morire, il nostro interesse è mangiare. Tuttavia, sappiamo anche che il nostro interesse di non andare a morire e di mangiare non è disgiunto da una trasformazione che è più complessiva. Quelli di Monroe, insieme con Williams, sanno che la loro sopravvivenza è necessariamente legata a una trasformazione sociale. Non può essere legata semplicemente a una capacità individuale di cavarsela o a una possibilità, anche molto ridotta, della comunità di chiudersi in sé stessa e provare così a sopravvivere. Sanno che o si spezza il meccanismo della violenza razzista o le loro vite continueranno a essere vite che valgono di meno, che non hanno valore.
Ancora una volta, io trovo in questo ragionamento il pragmatismo, nella concretezza la capacità di raccontare il grande ideale. Mi sembra a volte stucchevole, quando parliamo di macro-questioni, il riferimento esclusivo alle alte sfere, senza capire poi che la trasformazione di cui parliamo non è poi altro che la trasformazione della nostra quotidianità, del nostro ordinario. A Monroe c’era molta consapevolezza di questo, forse proprio perché le contraddizioni erano così esplosive. C’era molta consapevolezza del fatto che il macro e il micro erano la stessa cosa. Un ragazzo muore investito da una macchina perché manca un semaforo – celebre episodio fondativo del Black panther party –, allora andiamo a mettere il semaforo. Ma perché è stato investito quel ragazzo? Perché quella vita vale di meno: nessuno si è preoccupato di mettere lì un vigile urbano, un semaforo, qualcosa, perché non ce ne frega nulla, c’è stato uno stato di negligenza assoluta rispetto a quelle vite. Quindi anche il semaforo diventa simbolo del razzismo sistemico, dell’assenza di protezione, di supporto, di sostegno. Proprio per questo non è sempre necessario e utile un profilo teorico alto, riagganciarsi alla teoria in senso stretto, per comprendere la dinamica e la dialettica politica – che Williams capisce benissimo.
Dicevi del rapporto fra dimensione individuale e dimensione generale. C’è un passo del libro in cui Williams lamenta il fatto che a Monroe manca la legge. Non ne va soltanto della partecipazione al processo democratico ma, a monte, del fatto che le leggi che dovrebbero tutelare lui e la sua comunità non vengono considerate. Perciò cerca delle pratiche efficaci in questa situazione, che è precedente o almeno laterale rispetto alla partecipazione democratica. Come ti sembra il rapporto con le istituzioni, per come emerge dal libro?
Anche qui l’aspetto che io trovo interessante è la convivenza del piano immediato e del piano generale. Mi spiego. Sarebbe stato semplice per uno come Williams dire: non ce ne frega niente delle leggi, lo Stato di diritto è pura formalità e la democrazia è puramente nominale, sappiamo che nella legge e sotto il suo ombrello non posso ritrovare alcuna tutela, alcuna garanzia. E invece il suo ragionamento è un altro. Lui sa che in uno Stato profondamente razzista come gli Stati Uniti d’America non verrà mai tutelato dalla giustizia formale, perché sarà sempre sostanzialmente altro da ciò che si vuole tutelare. Sa che, anche con delle leggi totalmente egualitarie, non segregazioniste, non razziste, quando va in tribunale il giudice lo vede, è nero, e lo tratta in maniera diversa. In questa consapevolezza però non è un massimalista, non pensa: tanto vale mettere tutto sottosopra. Piuttosto ci mostra, intelligentemente: io la rivoluzione nel frattempo la vorrei fare, ma intanto combatto per guadagnarmi degli spazi di vivibilità e di uguaglianza che passano anche per l’uguaglianza formale. Quindi anche il picchetto per la piscina non segregata – e chi se ne frega, no?, è una cosa piccolissima – io lo vado a fare. Perché quel picchetto diventa occasione per raccontare come il mio bisogno sia un bisogno politico, per aggregare persone intorno a quel bisogno, per conquistare uno spazio di visibilità. Chiaramente lo stesso vale per gli interventi di carattere giuridico antisegregazionista. Pur nella consapevolezza che tutto questo non mi porta a una trasformazione radicale, non lo butto via. Anche questo a me sembra un aspetto pragmatico – torniamo sempre lì – molto importante.
In diversi momenti della sua attività politica, Williams chiama in causa o coinvolge anche attori da quello che oggi chiamiamo il Nord globale. Leggi questa iniziativa negli stessi termini di cui hai appena parlato?
Sì, e anche questo è un segnale di grande spregiudicatezza. Altri esponenti del nazionalismo o del separatismo nero hanno avuto per esempio l’impostazione per cui l’intellettuale che sta a Parigi, a Roma, ad Amsterdam non viene convocato, perché rappresenta il nemico. Invece Williams fa un ragionamento di triangolazione, passando per l’Europa – ma anche per la Cina e per il Vietnam –, e in questo emerge la tattica per così dire militare del suo approccio politico. Se avesse agito frontalmente, solo negli Stati Uniti, non avrebbe ottenuto gli stessi risultati, i suoi tentativi sarebbero stati molto probabilmente vanificati. E invece lui si rende conto che, se ad Amsterdam o a Roma si parla per esempio del “
caso del bacio”, allora negli Stati Uniti non lo si può più ignorare.
Questo scarto non è semplice, perché la cosa più immediata da fare è rivolgersi alla propria comunità, senza interessarsi degli olandesi, degli italiani, dei francesi. Williams invece si chiede: chi è che può servire, chi è che può contribuire? E non dà mai patentini. Questo riguarda proprio la logica identitaria. Per me – ed è un’impressione che ho sempre quando leggo scritti legati al Black power – è incredibile come un movimento che potrebbe benissimo inscriversi all’interno di quella logica, proprio perché parte da una dimensione comunitaria, di riconoscimento a partire dal processo di razzializzazione, dalla storia della schiavitù, ecc., in realtà è sempre stato estremamente trasversale, ha sempre provato alleanze diverse.
La domanda di Williams è sempre: contribuisce alla causa, può farne parte? Bene, allora è con noi. Poi certo prende anche in giro gli studenti bianchi che provano ad aiutare e invece fanno guai. Ma in quel caso è più lui che registra una difficoltà per queste persone a stare in contesti che sono estranei, non rendendosi conto, per esempio, che la relazione con le forze dell’ordine non è quella che loro immaginano. Però in generale non c’è mai una preclusione, non c’è l’idea: non sono come noi, quindi non sono dei nostri.
Infatti, lui passa sempre dal chiedersi: “quali bisogni particolari sono condivisi, su quali riesco a collettivizzare?”, uscendo dalla dinamica dell’incasellamento o del patentino, come dicevi. Passando a un altro tema centrale del libro invece, quello dell’autodifesa, volevo chiederti in un modo un po’ provocatorio: da una parte leggiamo di Ne*ri con le pistole, dall’altro viviamo nell’Europa che si riarma. C’è una differenza fra le due cose. Cosa impariamo da Williams in questa prospettiva?
Al netto della fascinazione o della repulsione che si può avere all’idea di qualcuno che impugna una pistola, della strana romantica nostalgia per stagioni passate o della repulsione perché non ci si riconosce in quelle stagioni, il succo o la radice dell’autodifesa sta nella lettura della struttura in trasparenza. Mi spiego: chi ha postulato l’autodifesa fa un ragionamento di sopravvivenza, cioè un ragionamento che è anche spiccio. La posizione di Williams va poi collocata negli Stati Uniti, dove portare le armi o non poterle portare ha, per le persone razzializzate, un preciso significato e una precisa storia. Ha un significato anche politico e simbolico.
Sottolineo questo non per sminuire o cancellare il fatto che talvolta queste armi venivano utilizzate. Ma prima di essere utilizzate venivano portate e mostrate. Mostrare le armi significa “io posso rispondere”, non “io risponderò” o “io ho risposto”. E prima ancora, dal punto di vista proprio del processo di soggettivazione, significa: “io sono un essere umano come te”. La radice dell’autodifesa per il Black power era un modo come un altro per sottolineare che, se mi è vietato portare le armi, a partire dal Code noir francese, passando alle leggi sull’autodifesa negli Stati Uniti, allora non vengo trattato come un essere umano – e per affermare, invece, il contrario. Quindi c’è un elemento simbolico importante. Poi non voglio tralasciare quello pratico: il poliziotto bussa al finestrino e Williams può rispondere: “guarda, sono armato anche io, vedi tu cosa fare”.
Però appunto c’è anche tanto altro. L’aspetto interessante che invece vale per noi riguarda la persistenza della violenza, che è quello che ti dicevo prima: l’autodifesa è un disvelamento del fatto che la violenza è la struttura che dà forma alla nostra società, ai rapporti di forza nei quali siamo inseriti. Da questo punto di vista, dunque, parlare di autodifesa non significa parlare di pistole, significa parlare di tante cose. Quando Williams e i suoi prendono le armi riaffermano di poter rispondere, di avere un potere. In maniera traslata, questo ha perfettamente a che fare con la politica contemporanea. Siamo in grado di fare qualcosa, cioè di non essere soltanto agiti dagli altri? Questo è il grande tema.
Riguardo invece al riarmo europeo – al netto di discorsi surreali, Vecchioni che parla di Kant e le sacre radici dell’Europa, cose che ci fanno un po’ sorridere perché sembravano discorsi novecenteschi e superati e invece evidentemente, nella scarsità di argomenti, vengono recuperati, ricorda quasi T.S. Eliot che parla di Virgilio e dell’Europa meravigliosa dei popoli mentre intanto c’è la Seconda guerra mondiale e questi si stanno scannando – al netto insomma di questo aspetto grottesco, la guerra e l’attrezzarsi per la guerra hanno anch’essi un aspetto rivelatore e quasi tragico. Ti mostrano che la dimensione geopolitica, diplomatica, economica, del dialogo e del dibattito politico, si appoggiano su un rapporto di forza materiale che è il più bieco e il più banale, come dire, il più antico che si può immaginare: quello della forza pura. A chi oggi argomenta – e su questo io sono pacifista integrale – dicendo: sì, però bisogna stare attenti, perché se non ci armiamo lo faranno gli altri e ci attaccheranno, rispondo che a me questa sembra da sempre la retorica che sottende al nazionalismo. È insomma un’altra prospettiva rispetto a quella di Williams. La violenza nelle sue varie forme, che non sono solo quelle della guerra, permea la nostra società completamente. I discorsi per cui dovremmo tifare per l’Europa invece che tifare per Trump o per Putin mi lasciano, ecco, un po’ fredda.
Proprio sul tema della violenza razzista, c’è un passaggio nel libro in cui Williams parla del razzismo come “psicosi di massa”. Come hai già ribadito più volte, Williams ha chiaramente davanti agli occhi lo stretto rapporto fra contraddizione di classe e processi di razzializzazione. Perché usa allora questi termini, che sembrano andare in un’altra direzione e rischiano di interpretare il razzismo come una sorta di condizione psichica?
È un discorso molto scivoloso e il passaggio che citi è uno di quelli per cui ho avuto più timore che si potessero fraintendere. Perché di solito, quando si parla di “psicosi di massa” – e questo vale per tutte le forme di marginalizzazione o di violenza –, tendiamo a parlarne da un punto di vista culturalista e spesso individualizzante. Per cui la psicosi avrebbe a che fare con il singolo individuo e con la sua incapacità di adattamento oppure, se parliamo di un fenomeno di massa, stiamo alludendo a una tradizione culturale o a un universo simbolico nel quale siamo collocati e dal quale non ci riusciamo a districare. Secondo me attribuire questo tipo di visione a Williams sarebbe contraddittorio rispetto al resto dell’opera. Io credo che lui lì – riprendendo un dibattito che esisteva e che esisterà ancora di più negli anni successivi del Black panther sulla scorta degli scritti di
Frantz Fanon – stia facendo una riflessione su quanto pervicace è il razzismo. Insomma, sta suggerendo che, come le persone che hanno un forte disagio mentale, i razzisti vedono come naturale ciò che è innaturale, vivono il rovesciamento completo di logiche umane come qualcosa di assolutamente naturale.
In questo linguaggio – che poi si alterna al linguaggio poliziottesco e anche a un linguaggio più aulico, a volte di carattere religioso, un altro registro tipico di quel mondo – lui ci sta dicendo che i razzisti sono marci, sono totalmente invischiati in quel tipo di mentalità. Sono irrecuperabili. E a questo punto però dobbiamo anche chiederci: di chi sta parlando? Di tutti i bianchi? Non credo, proprio perché la pratica politica che mette in campo è diversa. Io penso che lui parlasse di chi attivamente si avvantaggia della violenza razziale, di chi attivamente propugna quel tipo di modello. Perché, se invece parlasse dei bianchi in quanto tali, poi non si spiegherebbe la sua apertura a comunità che non sono la sua, a persone che non sono razzializzate. Credo che la malattia mentale sia un modo, semplicissimo per alcuni versi, efficace per altri, per parlare di un universo simbolico nel quale siamo completamente invischiati. Ma d’altro canto Fanon parla in questi termini per i colonizzati stessi, come totalmente invischiati nella malattia della colonizzazione – e sta parlando dei suoi. Se non ci stupisce quello, forse non ci può stupire nemmeno Williams che lo dice in merito al Ku Klux Klan, a chi compie effettivamente violenze efferate.
Sì, hai ragione, forse parla proprio di quegli individui che escludono già il rapporto fra soggetti, affermandosi solo nei termini di “io voglio esercitare violenza, sopraffare”.
Ti dico un’altra cosa, che forse non c’entra niente, ma la ho sempre ricollegata a questo tipo di discorso che fa Williams. Dire che qualcuno è irrecuperabile, secondo me, è meno un problema proprio se si ha un approccio pragmatico. Un approccio umanista puro, la palingenesi dell’umano, per cui il superamento del razzismo e il superamento del classismo riguardano necessariamente tutti, rischia di consumarci nell’educazione o nella trasformazione di soggetti che ‒ in maniera volontaria e consapevole o in maniera estremamente profonda e radicata, e l’effetto poi è lo stesso ‒, finiscono per abbracciare il meccanismo simbolico e pratico della violenza di classe, della violenza razziale, della violenza di genere.
Faccio un paragone. Leggo spesso in questi giorni, per ovvie ragioni, dei noti fatti di cronaca legati alla violenza di genere. Leggo espressioni di rabbia, anche violenta, nei confronti degli uomini, perfettamente legittime e comprensibili. Tuttavia, continuo a pensare che bisogna allearsi con gli uomini. Consolarsi dicendo che le giovani donne sono più a sinistra, più radicali, più capaci di smantellare l’apparato patriarcale penso sia una magra consolazione, se poi dall’altra parte ti trovi una radicalizzazione in senso opposto. Per un verso, gli uomini sono gente che dobbiamo riconquistare alla nostra causa. Ma, per l’altro, dobbiamo chiederci: proprio tutti gli uomini? Cioè, io posso passare la mia vita di attivista a convincere tutti?
Credo che esista una misura fra pensare che io non debba educare nessuno, coinvolgere nessuno, allearmi con nessuno, che devo stare fra i miei – e questa è la morte della politica e dell’attivismo –, e poi l’idea che io allora debba coinvolgere tutti. Ci sono alcune persone radicate nelle loro idee, che attivamente promuoveranno quelle idee, e convertirle non è il mio compito. Il mio compito non è la conversione, al limite è l’emersione dei punti e degli elementi comuni. Williams non è che vuole convertire quelli del Ku Klux Klan: li vuole rendere inoffensivi, li vuole sconfiggere, rendere illegali. Vuole però far emergere i punti comuni, materiali, che partono dai bisogni, dalle condizioni di vita, con i bianchi poveri che incontra o con i bianchi sensibili alla sua causa. Non è una posizione ambigua questa. Non so se siamo andati fuori strada rispetto al discorso, però, secondo me, sta tutto lì: non essere moralisti. Perché c’è un moralismo che sta nel dire: io sto solo con chi è già come me – per vissuto, condizione, consapevolezza –, e poi c’è l’altro moralismo che dice: devo stare con tutti, devo convertire tutti. In mezzo c’è la politica. Io devo allearmi con chi può produrre un’alleanza utile, trasformativa. E Williams questo lo fa molto bene. Parla dei bianchi contemporaneamente come irrecuperabili e come alleati perché non sono gli stessi bianchi. I bianchi di cui parla non sono un gruppo omogeneo, come nessun gruppo è omogeneo.
E invece c’entra molto e ci riporta al discorso che facevamo prima. Scegliamo gli assunti di principio o scegliamo la prassi politica? Identifico qualcuno in quanto mi ci devo assolutamente alleare o confliggere, o cerco quali sono i processi materiali che mi permettono di fare resistenza e collettivizzazione su aspetti determinati? A questo punto, per concludere, vorrei chiederti se ci sono aspetti del lavoro di Williams di cui vorresti parlare e che non abbiamo discusso.
In realtà più che di Williams proprio del libro nel complesso. Abbiamo fatto tanto apparato critico perché è importante recuperare la storia del Black power non come feticcio. Ci sembra che sia storia attuale che parla: dal punto di vista del mutualismo conflittuale, dal punto di vista dell’intersezionalità e dal punto di vista dell’emersione del tema di classe. Ribadisco questi tre punti perché Williams scriveva in un momento nel quale probabilmente non era così necessario esplicitare questa convergenza. L’apparato critico ci è servito per costruire un ponte pratico e teorico: come costruire le alleanze? Cosa significa internazionalismo? Perché il tema di classe, quello razziale e quello di genere sono intersecati? Forse lui non aveva bisogno di dirlo, non aveva bisogno di usare le parole che noi usiamo e che neanche esistevano ancora all’epoca, o forse semplicemente parlava con un pubblico, peraltro spesso incolto, che non era fatto da persone intellettuali come ce le immaginiamo e che però, vivendo in quel contesto, già avevano accesso a questi problemi.
Con l’apparato abbiamo anche voluto ricostruire quel contesto, raccontare cosa è successo nel frattempo, quali erano le radici teoriche e le radici politiche del Black power. Non si tratta qui di portare alla luce un reperto archeologico che in Italia non era emerso, metterlo in una teca e aggiungere gli scritti di Williams a quelli di Eldridge Cleaver e di Angela Davis. Per noi era importante Williams vivo, ma senza farne il calco – perché non c’è niente di peggio che pensare che un classico può restituire una risposta non mediata alle nostre domande. Volevamo mostrare come in nuce ci fosse, in Ne*ri con le pistole e nell’attivismo che racconta, già tutta una serie di problemi che sono i problemi con cui noi oggi ci troviamo ad avere a che fare.