S ostiene Socrate nel Fedone che per i filosofi non vi è altra occupazione che quella della morte e del morire. Camus, nel Mito di Sisifo, ribatte che l’unico problema filosofico davvero rilevante è quello del suicidio. Per Edgar Morin la cultura e la filosofia hanno avuto inizio con la prima sepoltura. Adorno dichiarò una volta di aver cominciato a porsi domande filosofiche dopo che da bambino vide passare un carro ricolmo di cani morti. Si potrebbe continuare a lungo, con aneddoti e altri nomi. Il fatto è che per i filosofi quello della morte è un problema inaggirabile, fondamentale, per certi versi è il problema da cui derivano tutti gli altri. Perché si muore? Dove finiscono i morti? È possibile rivederli? Come si può vivere sapendo di dover morire? “Se la filosofia è certamente fin dalle origini un esercizio di morte”, osserva Ines Testoni nel suo nuovo Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg (Il Saggiatore, 2021), “è altrettanto vero che essa ha cercato in ogni modo di rispondere al perché non temerla e quindi non soffrire per il fatto di sapere di essere mortali”. Chiunque voglia sopportare la vita oppure viverla appieno, insegna la filosofia, cominci col disporsi ad accettare la morte, che della vita è come il punto di osservazione panoramico.
Anche Testoni racconta di aver scoperto “la più temibile degli oggetti di pensiero” da bambina, quando a casa di parenti emigrati in Brasile venne introdotta alla misteriosa presenza dei fantasmi. Col tempo quell’imprinting d’infanzia verso “la regina di tutti i terrori”, la morte delle cose che scompaiono ma poi riappaiono alla coscienza, si è trasformato per lei in un campo di ricerca empirica e speculazione teorica tra i più fecondi. Testoni è infatti professoressa di Psicologia sociale all’Università di Padova e direttrice del primo master europeo in “Death studies & the end of life”, anche se lei stessa preferisce definirsi semplicemente tanatologa. Del Grande libro della morte dice che è come un viaggio con la morte accanto, un itinerario ad ampio spettro tra maschere mortuarie, purificazioni e pianti rituali, sciamani necromanti, città dei morti, cadaveri plastinati, tanatoprassi e autodafé, suicidari folli o illuminati. Un saggio di filosofia della morte che giunge idealmente a completare una trilogia multidisciplinare cominciata con L’ultima nascita (2015), in cui Testoni proponeva un programma di educazione alla mortalità, e proseguita poi con Psicologia palliativa (2020), nel quale indagava interventi di supporto e pratiche relazionali di accompagnamento al morire.
Allieva di Emanuele Severino, la concezione della morte di Testoni figlia direttamente da quella del filosofo bresciano che per primo ha contestato un assunto pervasivo e nefasto, messo in circolazione già da Platone, in base al quale i viventi verrebbero dal nulla nascendo e vi tornerebbero morendo. Per Severino si tratta nientemeno che dell’essenza del nichilismo: ciò che viene dal nulla, e al nulla ritorna, che cos’è se non nulla esso stesso? Un equivoco che a suo modo di vedere avrebbe permeato l’intero sottosuolo filosofico dell’Occidente, dall’ex nihilo nihil di Melisso al to be or not to be di Shakespeare, fino all’essere-per-la-morte di Heiddeger e all’umano come animale morente di Philip Roth. A detta di Severino è stato quell’errore originario – la vita come brivido che percorre il nulla – a generare l’idea che il morire cominci già con il primo respiro e che il pensiero della morte debba perciò essere fonte di patimenti tantalici e paure esistenziali. Con l’intento di difendersi dal nichilismo prodotto dalla sua stessa cultura, aggiunge al riguardo Testoni, “l’Occidente ha costruito progressivamente uno scenario capace di eclissare la presenza della morte come evento concreto, per allestirne la rappresentazione all’interno di un immaginario funzionale alla rimozione collettiva”. La morte ci spaventa al punto da mantenerla tenacemente sigillata nell’ultimo dei tabù. Ho intervistato Testoni per capire come mai, e abbiamo finito per parlare di metafisica, nichilismo e ricordo degli eterni.
Se esiste davvero un universale culturale in antropologia, un comportamento riscontrabile in qualsiasi società, è forse quello delle pratiche funebri, cui lei dedica la prima parte del suo libro. Ogni cultura – in ogni tempo e in ogni spazio – ha allestito dei propri riti (protocolli condivisi per disporre del corpo dei defunti e rendere giustizia al trapasso) e dei miti (sistemi di credenze per vincere la morte o farsene una ragione). Ritualizzare il termine della vita ed elaborare collettivamente il lutto sono universali culturali che nel corso della storia si sono ramificati in un eccezionale pluralismo di forme al confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, in quello che lei chiama il limen tra visibile e invisibile. Oggi però la morte si è quasi del tutto secolarizzata e vanno dissolvendosi le manifestazioni sacre del congedo, col morire sempre più medicalizzato, espulso dalla vita domestica e rimosso dall’orizzonte del pensabile. Quel sistema di riti e miti ha perso tutta la sua carica consolatoria. Ci mancano le parole per esprimere la morte, scrive lei: “i riti funebri tradizionali non dicono quasi più niente, neppure ai credenti”. Di fronte al morire ci ritroviamo soli e muti, perché?
L’evoluzione del pensiero occidentale può essere divisa in due grandi fasi: la prima fase è quella del pensiero epistemico della metafisica che spiega il mondo a partire dalla differenza ontologica tra essere divino (eterno e immutabile) ed esseri divenienti (gli “abitatori del tempo” che oscillano tra essere e nulla). Su questa metafisica hanno sviluppato le proprie argomentazioni razionali le religioni abramitiche che concepiscono il mondo come creato e annientabile secondo la volontà onnipotente di Dio.
La seconda fase è invece quella del pensiero contemporaneo, o “critico” e “del disincanto”, che stabilisce che se qualcosa è creabile e annientabile, come dimostra di saper fare la tecnica, non c’è alcun bisogno di Dio per spiegare il mondo. Prima della crisi sostanziale delle religioni metafisiche la morte significava passaggio all’ulteriorità. Dopo, ha finito per significare annientamento ultimo delle cose.
L’idea che prima, dopo e intorno all’essere vi sia il nulla assoluto ha determinato inevitabilmente il tracollo teoretico di qualsiasi tipo di fondazione metafisica, e quindi di qualsiasi credibilità razionale di ciò a cui si appigliava la fede religiosa, vale a dire il credere di sapere che cosa ci aspetti dopo la morte. I riti e i miti della tradizione religiosa hanno subito così un collasso irreversibile, e questa è la ragione per cui oggi quegli stessi riti e miti non funzionano più, non sono più autenticamente consolatori. Quando ci si pone al cospetto della salma di un defunto, quel che si vede oramai è qualcosa che non apre più alcuna porta ermeneutica verso ciò che sta oltre. La salma ci ricorda soltanto che anche noi finiremo un giorno così, e ciò produce una grandissima ansia, un’angoscia abissale. Non esiste più alcun “sacro illuminante” che ci indichi un’ulteriorità oltre i perimetri del visibile.
Lei dedica diversi capitoli del libro proprio a Severino, che si è opposto al nichilismo a suo giudizio imperante nella storia della filosofia occidentale. Nel creazionismo come nell’evoluzionismo, nel sapere mitico come in quello scientifico, permane infatti l’idea che le cose vengano dal nulla e al nulla ritornino, con questo nulla a rappresentare l’assoluto perfetto, sia esso Dio oppure il cosmo. La morte ci spaventa perché ce la figuriamo come l’annientamento ultimo delle cose, il diventare nulla cui sono destinate, e a cui abbiamo tentato di sottrarle inventando mondi iperuranici e princìpi immutabili. Severino è considerato un pensatore radicale perché ha messo in questione proprio questa direzionalità nichilista del divenire – il movimento dall’essere al nulla – postulando la tesi che gli “essenti” siano tali anche quando non sono ancora e anche quando non sono più: gli essenti sono tali e basta, quindi sono eterni. Per Severino, questa consapevolezza degli eterni consola dalla morte più del mito. “La salvezza”, aggiunge lei al riguardo, “prende dunque congedo dalle cosmologie mitiche per essere garantita solo dal culmine della sapienza”. Eppure ci riesce difficile percepirci infiniti, eterni nel senso di Severino. Come si arriva al “culmine della sapienza”?
Secondo Severino è indubbio che per disinnescare l’angoscia della morte si debba compiere un lungo percorso di comprensione dell’evoluzione del pensiero occidentale. Un percorso al termine della quale si può arrivare a cogliere l’erroneità del nichilismo, che per altro non è sempre identico a se stesso, ma assume forme storicamente diverse. C’è ad esempio il nichilismo metafisico. Poi c’è il nichilismo radicale di Nietzsche, Leopardi e Gentile, per intenderci: le tre cuspidi della filosofia occidentale, coloro che hanno smantellato definitivamente ogni metafisica. Infine c’è il nichilismo della scienza. Severino si pone il problema di cosa sia davvero evidente: come possiamo percepire il contrario del nichilismo, ossia l’eternità degli essenti? La risposta che dà è di stampo iper-razionale, ultra-logico: il nulla non appare se non come parola astratta, che non indica alcunché dell’essere. È una parola che logicamente si oppone all’essere e non lo intacca minimamente.
Io intervengo in questo schema di ragionamento introducendo la dimensione psicologica, nella quale si rende possibile la percezione dell’eterno. Se noi stiamo bene in noi stessi – intendo dire bene profondamente, come può accadere con la meditazione o con altre esperienze di apertura verso ciò che sta al di là del percepibile concreto – si può anche arrivare a percepirsi “immortali”, vale a dire non destinati al nulla.
La società ci educa quotidianamente a crederci destinati al niente, e così anche la religione e l’economia, che traggono vantaggio e potere e ricchezza dalla nostra paura nichilistica di morire. In questo senso io mi sento di rappresentare l’ala sinistra e progressista del pensiero di Severino, per così dire, un po’ come Marx ed Engels rappresentavano l’ala sinistra del pensiero di Hegel. Pur all’interno della prospettiva nichilistica, cos’hanno infatti dimostrato Marx ed Hegel? Che non esistono gerarchie ontologiche fra gli esseri umani: siamo tutti fatti della stessa materia, e la materia può evolvere storicamente. Quello che dobbiamo fare oggi è un passo ulteriore, andando oltre la materia che pensiamo di essere. Noi siamo sicuramente materia, non fraintendiamoci, ma percepiamo anche un ulteriore, che ci è inconscio e non è annientabile. Questa consapevolezza ci rende meno ricattabili, sul piano sociale come su quello morale, di fronte alla morte e al morire.
Continuiamo a battere la pista tracciata da Severino, in base alla quale saremmo ancora intrappolati nell’errore originario di Platone, in base al quale i viventi verrebbero dal nulla nascendo e vi tornerebbero morendo. La morte continua perciò ad angosciarci, le grandi narrazioni sono crollate assieme ai loro polverosi apparati di spiegazione della finitudine della vita, non c’è alcun Dio a prometterci la salvezza. La simbologia religiosa non basta più a rassicurarci di fronte alla morte, la sapienza filosofica ci è ancora preclusa, rimane solo la tecnica.
Per i transumanisti – movimento culturale a cui lei dedica alcune pagine del suo libro e che vorrebbe utilizzare la tecnologia per superare i confini della condizione umana – la tecnica punta oggi dritta alla bioestensione, alla rigenerazione cellulare, al backup del cervello: in breve, alla procrastinazione della morte e se possibile alla sua sconfitta. Lei sembra sposare la visione di Severino sull’inesorabilità dello sviluppo tecnico, e sembra aderire anche al postumanismo affermativo di Rosi Braidotti quando parla di liberazione della tecnica contro le forze bioconservatrici. Poi però, nelle pagine finali del libro, scrive che “il superamento delle mitologie grazie al sapere scientifico non è l’ultimo passaggio apocalittico al quale la nostra coscienza accede”. Abbiamo abbandonato i miti della tradizione, stiamo consegnando la morte per intero alla tecnoscienza, e poi? Cosa viene poi?
Però attenzione: lo sviluppo della tecnica pretende inevitabilmente lo sviluppo parallelo del pensiero e della consapevolezza. Se consideriamo gli avanzamenti dell’intelligenza artificiale, ad esempio, quello che si crede oggi è che a un certo punto apparirà una coscienza nelle macchine, cioè un pensiero al di sopra della materia meccanica. L’organizzazione della tecnica, in sostanza, tramonta sempre nell’evoluzione del pensiero. Ora: per quanto si possa estendere artificialmente la vita degli esseri umani, la loro presenza sulla Terra corrisponde a quello che Severino definisce “orizzonte dell’apparire finito”. Soltanto comprendere questo significa non avere più paura della morte in termini ontologici e nemmeno psicologici, perché le paure inconsce si possono sempre scoperchiare ed elaborare, come credeva già Freud. Quando attraverso lo sviluppo del pensiero viene scoperchiato un terrore inconscio, infatti, si può sviscerarlo, capirlo, si può anche gestirlo. Se lo faremo, in futuro avremo meno paura di morire rispetto a quanta ne possiamo avere oggi.
In un capitolo del libro lei rilegge il tema della morte a partire dai saperi dei cosiddetti human-animal studies e dell’antispecismo che vorrebbero restituire dignità alla morte degli animali non-umani. Se guardiamo infatti alle forme filosofiche di significazione della morte, potremmo dire che il grande rimosso della nostra cultura è anzitutto la morte animale, l’uccisione della bestia, la violenza interspecifica esercitata negli scantinati del palazzo sociale.
La posizione morale dominante sulla morte dei non-umani è a dir poco paradossale: contempla il lutto animale se riferito agli animali domestici, ma opera un occultamento sistematico dell’ecatombe quotidiana che si compie nei mattatoi. Un sacrificio dell’animale non-umano ormai relegato alle procedure industriali e per il quale non chiediamo più nemmeno la grazia, o il perdono, di un dio qualunque. Lei si domanda: “quando si passa dal giusto all’atroce uccidendo un animale?”. È un quesito filosofico sovversivo, di un’urgenza spaventosa. Mi chiedo se, scrivendo questo libro, ha trovato una possibile risposta.
L’imporsi delle procedure industriali ha chiaramente sconvolto la ritologia della tradizione, che inscriveva la violenza nello schema del sacro. Io credo però che la tecnica ci possa fornire e ci fornirà le proteine sintetiche e tutto ciò di cui abbiamo bisogno senza dover più ricorrere al massacro degli animali. Per ora siamo dei “primitivi”, è così che ci vedranno le generazioni future: quelli che avevano ancora bisogno di uccidere animali per nutrirsi.
Con la tecnica, dicevamo prima, evolve anche la morale, e lo sviluppo della morale ci impone di cambiare necessariamente gli attuali rapporti con gli animali. Quello che oggi non riusciamo a pensare è che gli animali hanno una propria coscienza, cosa che invece sanno riconoscere benissimo le culture sciamaniche. Lo sciamanesimo è capace di entrare in contatto con la coscienza animale, noi invece non ci riusciamo perché a priori stabiliamo che gli animali non siano coscienti come gli esseri umani. E a priori prendiamo per vera questa mancanza di coscienza solamente allo scopo di servirci strumentalmente dei corpi animali.
Giustifichiamo la violenza nei loro confronti considerandoli materia vivente anziché soggettività senzienti e pensanti che interagiscono tra loro in maniera complessa e interdipendente. Oggi siamo mostruosi nel rapporto con gli animali: è questo che penserà di noi la generazione ecologista, antispecista, moralmente e tecnicamente evoluta che, prima o poi, ci subentrerà.