C aro Canali, se non le dispiace, scriverò la prefazione alla sua monografia su Cesare Rossi.” Poche righe che testimoniano di una relazione, quella tra il maestro, lo storico Renzo De Felice, e l’allievo Mauro Canali, in cui è racchiusa una pagina importante della ricerca storica italiana che ha prodotto uno dei risultati più rilevanti per la ricostruzione del delitto Matteotti, del quale oggi ricorre il centenario. In quella prefazione De Felice avvicina Canali alla missione difficile che ha orientato parte del suo cammino di studio e di vita, fino a diventare uno tra i più importanti studiosi della crisi dello Stato liberale e dell’avvento del fascismo: “Forse Canali è l’unica persona che oggi può capire qualcosa di più con la sua ricerca sulla vicenda Matteotti” scriveva.
Per Canali, che si era laureato con De Felice analizzando un caso di dissidentismo fascista a Pisa nel 1923, questa fu “una sorta d’investitura mio malgrado”. Non era più rinviabile una rilettura dei fatti che gli ha richiesto un’amplissima ricerca nei più importanti archivi tra l’Italia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. “Nella prefazione De Felice si soffermò soprattutto sul delitto Matteotti. Aveva capito che quello era il nervo scoperto. Anche perché era tornato a leggere i suoi lavori e in particolare Mussolini il fascista diceva esplicitamente che sul delitto Matteotti era poco chiaro tutto. Mi diceva: ‘Non si può più eludere il delitto e bisogna cominciare a lavorare’. Era un onore.”
Il 10 giugno 1924 Matteotti era uscito di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio. Mentre percorreva il lungotevere Arnaldo da Brescia un’auto era ferma ad aspettarlo. A bordo c’erano i suoi aggressori identificati successivamente come i membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Il deputato socialista venne ucciso da una squadra della Ceka. Il cadavere di Matteotti fu ritrovato a due mesi dalla scomparsa, il 16 agosto 1924, nel bosco della Quartarella, a una ventina di chilometri da Roma.
L’omicidio condizionò le vicende politiche italiane, suscitando orrore e indignazione in tutto il Paese, e segnò il passaggio definitivo del governo fascista a un regime apertamente dittatoriale e antidemocratico. “Nella storia di un Paese raramente è dato incontrare un unico evento che abbia marcato così profondamente i suoi sviluppi successivi come accadde per l’Italia con l’assassinio di Matteotti – sottolinea Canali – Il crimine precipitò il Paese in una crisi così drammatica che Mussolini, per evitare di esserne travolto, intraprese la via della dittatura, abbattendo lo Stato liberale e avviando la costruzione del regime a partito unico”.
“Forse Canali è l’unica persona che oggi può capire qualcosa di più sulla vicenda Matteotti” scriveva lo storico Renzo De Felice.
Dopo anni di ricerche, nel 1997 fu forte l’impatto dell’uscita del libro di Canali, Il delitto Matteotti edito da Il Mulino. Quello di Canali infatti è stato il primo libro ad attingere a fonti primarie. Fino ad allora il delitto Matteotti era stato costruito ed era stato scritto basandosi su fonti secondarie, giornali, carte personali. Da quel momento si entrava dentro al delitto, alla vita, sangue e carne di Matteotti, proponendo come analizzeremo di seguito una nuova lettura soprattutto del movente del crimine. Nel volume si documentava in modo inedito anche il finanziamento che Mussolini aveva fatto alla famiglia Matteotti negli anni Trenta. Soprattutto fu rivelatorio il ruolo dell’Ovra nel controllare la famiglia. Nessuno sapeva che la spia De Vitis fosse dell’Ovra, incaricato di seguire le mosse dei Matteotti: le carte di De Vitis riportano tutti i movimenti e soprattutto i flussi di denaro. Ora nelle librerie è arrivata una nuova edizione del testo arricchita con ulteriori documenti e un ulteriore approfondimento del contesto e delle ragioni dell’assassinio del deputato socialista.
Il rapporto con De Felice, le premesse e il percorso della ricerca sul delitto Matteotti
Il caso di studio universitario di Canali con De Felice sul dissidentismo fascista si può riassumere così: la Marcia su Roma e la conquista del potere avevano provocato nel fascismo una serie di disequilibri, perché la parte intransigente non era contenta dell’approdo di quella che chiamava la propria “rivoluzione”. La presa del potere comportò per Mussolini il dover fare i conti con chi aveva marciato con l’obiettivo della rivoluzione fascista e non si riconosceva nella formazione del governo, chiedendo la cosiddetta seconda ondata: era il fascismo provinciale dei ras. Nel 1921 il conflitto interno latente tra la parte più moderata del partito fascista e questi ultimi era già uscito fuori, Mussolini cercò di gestire il conflitto tra queste due anime che a Pisa si spinse fino allo scontro fisico.
Nella tesi di laurea emergevano la figura e la centralità di Cesare Rossi, uomo di Mussolini. Nella successiva monografia Cesare Rossi. Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, che Il Mulino pubblicò nel 1991, la ricerca approdava al delitto Matteotti attraverso di lui. Nell’ultimo capitolo si rilegge il percorso di Rossi, quando viene chiamato all’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio e di fatto comincia a organizzare la Ceka, la polizia segreta fascista. “Tra le carte avevo trovato la contabilità di Rossi, finita tra le mani dei magistrati inquirenti del delitto Matteotti e poi sepolte all’Archivio centrale – racconta Canali -. L’avevo trovata e pubblicata. Erano i soldi che lui gestiva e apparivano i nomi di Dumini, Volpi, coinvolti nella fine del deputato socialista. S’intuiva il suo ruolo”.
Nella storia di un Paese raramente è dato incontrare un unico evento che abbia marcato così profondamente i suoi sviluppi successivi come accadde per l’Italia con l’assassinio di Matteotti.
Dopo l’assoluzione della prima istruttoria sull’assassinio, Rossi scappò in Francia, dove cercò di accreditarsi con molta difficoltà come un nemico di Mussolini e di accedere agli ambienti degli esuli. Ma aveva un’amicizia forte con Giuseppe Donati, che era stato il direttore de Il Popolo, il giornale di Don Sturzo. Tramite Donati Rossi entrò in contatto con Salvemini che stava scrivendo La dittatura fascista in Italia e voleva raccogliere informazioni utili sulla morte di Matteotti, di cui considerava Mussolini il mandante, ma poco si fidava di lui. Scrive Canali ne Il delitto Matteotti:
Incalzato dalle obiezioni di Salvemini, Rossi si era rifugiato allora nell’unica spiegazione possibile.
In un memoriale, scritto appositamente per lo storico pugliese riferì che non aveva cercato Mussolini dopo avere saputo del delitto poiché colto da una sorta di abulia che lo aveva paralizzato fino al pomeriggio di giovedì. Si sentiva “pregiudicato agli occhi di Mussolini” per i suoi rapporti con Dumini e Filippelli, e per questo temeva che “se la prendesse con lui”.
Rossi redasse in effetti una memoria voluminosa che Canali ha rintracciato nelle carte di Modigliani a Firenze, assemblando il carteggio intercorso tra lui e Salvemini. Quest’ultimo era già in esilio durante il processo farsa di Chieti sul delitto, che si celebrò tra il 16 e il 24 marzo 1926, e sapeva che Modigliani era stato avvocato di parte civile della famiglia Matteotti. Modigliani aveva seguito tutta l’istruttoria, quindi Salvemini gli mandò la copia del Memoriale Rossi per averne un’opinione.
Canali si mise così sulle tracce del lascito di Salvemini: “Nel suo libro La dittatura fascista in Italia aveva usato anche nei virgolettati una serie di passaggi che la sua pubblicistica non riportava. Ho nutrito il sospetto che avesse attinto agli atti istruttori. Dedussi che si trovavano a Londra, perché aveva letto un trafiletto del Westminster Gazette nel quale era scritto: ‘Salvemini sta andando a Boston, perché è stato chiamato dal Mit. Ci lascia in dono tutte le sue carte’”.
Canali ruppe gli indugi, dicendo a De Felice che sarebbe partito per Londra: “Sono andato a mie spese alla London school of economics, chiedendo la consultazione delle carte di Salvemini. Mi portarono un carrello pieno di documenti. Mi bastò poco per rendermi conto che si trattava della copia dell’originale di tutti gli atti istruttori dei magistrati Del Giudice e Tancredi. Fotocopiai tutto per portarlo a Roma. Con De Felice iniziammo a parlare di cose concrete e divenne molto più dialettico”. Nei primi quattro anni di lavoro il confronto tra Canali e De Felice fu costante e acceso. Uno degli aspetti chiave del loro dialogo concerneva la responsabilità diretta di Mussolini nella fine di Matteotti sempre più suffragata negli sviluppi della ricerca. Canali ha compiuto una svolta fondamentale, abbandonando la versione del delitto prettamente politico. De Felice non fece in tempo a vedere la luce del volume Il delitto Matteotti che è stato dedicato a lui.
I documenti
Nel corso del secondo semestre del 1924, i magistrati inquirenti Del Giudice e Tancredi, favoriti dalla crisi in cui si dibatteva allora il regime che doveva gestire e attutire gli effetti del delitto, avevano potuto condurre l’istruttoria senza condizionamenti, raccogliendo pazientemente molte prove. Gli atti giudiziari, se analizzati, vanno molto oltre la vicenda criminale. Sono ricchi di deposizioni ed emerge il ritratto anche politico di Matteotti. Chi scrive di Matteotti non può farne a meno: “Dei documenti di Matteotti dal 1919 al 1924 abbiamo principalmente il carteggio della moglie Velia – spiega Canali -. Gli atti giudiziari sono una marea di carta, di ricordi interessanti: i viaggi che lui fa, il materiale che i magistrati raccolsero al di là delle deposizioni con i sequestri. È un crimine storiografico scrivere su Matteotti senza consultarli. Ricordiamo non solo gli atti istruttori, ma la mole di materiale che vennero sequestrati non soltanto a tutti gli assassini. Filippelli, Rossi, Volpi: tutte persone che si muovono nell’orbita del crimine. Questo materiale ora è all’Archivio centrale”.
Gli atti giudiziari vanno molto oltre la vicenda criminale: vi emerge il ritratto anche politico di Matteotti.
Esce fuori pure un quadro del governo fascista molto preciso. Gli atti istruttori sgombrano il campo dal dubbio sull’esistenza della Ceka fascista che volle Mussolini all’indomani della Marcia su Roma. Colpiva, pestava, uccideva: questa era la missione della Ceka. Durante la latitanza, Rossi s’era cautelato, scrivendo un altro memoriale con il quale rendeva note alcune delle azioni illegali della Ceka, facendone ricadere tutte le responsabilità su Mussolini che le aveva ordinate. Rossi non negava la costituzione della Ceka, ma si era affrettato a precisare che al momento del delitto l’organizzazione criminale era ancora allo stato embrionale, che non ne “erano stati ancora determinati i compiti, compiti che sarebbero stati fissati definitivamente dal Presidente”, e che la scelta del responsabile dei gregari della Ceka era caduta su Dumini per espressa volontà di Mussolini, il quale aveva avuto in proposito “ripetuti colloqui” con lui e con Marinelli.
Rossi ammetteva non solo d’essere stato a conoscenza dell’iter costitutivo della polizia segreta, ma di aver collaborato con Mussolini ad abbozzarne i compiti – scrive Canali ne
Il delitto Matteotti -. Più generoso di dettagli fu nel memoriale che inviò ai giudici l’11 febbraio 1925 dal carcere romano di Regina Coeli, con cui, pur continuando a dichiararsi all’oscuro degli sviluppi presi successivamente dalla Ceka, rivelava che era stato Mussolini a volerne la costituzione, perché risentendo le leggi esistenti “dello spirito liberale contro il quale è insorto il fascismo”, il governo non disponeva “ancora di mezzi legali per colpire i suoi nemici”. Mussolini aveva poi concluso che tutti i governi allo stato di transizione hanno bisogno di organi illegali che mettano a posto gli avversari.
Oggi l’analisi degli atti istruttori, finalmente a disposizione degli studiosi, rende possibili conclusioni più obiettive sull’esistenza, la genesi e la portata delle gesta della Ceka, la quale, al tempo del delitto Matteotti, stava uscendo dalla sua fase embrionale.
La violenza fascista e le denunce di Matteotti
Matteotti conobbe dagli albori la violenza dello squadrismo fascista. La sua provincia (Rovigo) era stata tra le prime a vedere la nascita di un fascio di combattimento, che non aveva tardato a stringere con gli agrari locali un’alleanza operativa cementata dall’opportunismo politico e dalla comune ideologia della violenza. Come egli affermò più volte alla Camera, il fascismo svolgeva nelle campagne una funzione di vera e propria “guardia bianca” degli interessi della grande borghesia agraria: “L’intervento del 10 marzo del 1921 sul fascismo era stato molto più duro rispetto a quello noto del 30 maggio 1924. Lì aveva detto proprio: ‘La vostra vocazione è violenza’. Voi siete la guardia bianca degli agrari, voi curate degli interessi opachi. Era intervenuto pesantemente e aveva conosciuto il fascismo nella sua faccia squadrista. Era stato costretto all’ostracismo: aveva dovuto lasciare la provincia e andare a Padova. Il discorso del 30 maggio venne orientato sulle elezioni, ma aveva le radici in tutte le denunce precedenti. Durante quelle elezioni si era manifestato uno squadrismo che aveva già dato segni di vita forti”.
Il fascismo svolgeva nelle campagne una funzione di vera e propria “guardia bianca” degli interessi della grande borghesia agraria.
Matteotti appare tra i pochi ad aver capito la profonda e irriformabile vocazione totalitaria del fascismo. Fu infatti un avversario deciso della legge Acerbo, con la quale Mussolini, modificando il sistema elettorale in senso maggioritario, intendeva rendere più stabile la sua poltrona di capo del governo. Manifestando una particolare lungimiranza, il leader socialista era convinto che il rafforzamento dell’esecutivo, derivato dalla nuova legge elettorale, rappresentasse per Mussolini il passaggio a un regime politico autoritario.
Mussolini aveva sposato lo squadrismo nel 1921. Ma al contempo temeva che la violenza avrebbe alienato quei ceti medi che invece si erano avvicinati al fascismo. Volle mostrare un volto collaborativo nella normalizzazione del clima politico senza fare i conti con l’ala intransigente dei ras. Quell’ala aveva fondato tutto il potere sulla violenza. In molte zone, tra cui il Polesine stesso, aveva spazzato via la resistenza: Camere del lavoro, sindacati, sedi di partito. “Il Mussolini politico sapeva che la sua forza non era Milano, ma queste squadracce con cui doveva trovare un accordo – evidenzia Canali -. Questo accordo si stipulò quando nacque il Partito nazionale fascista. Nel novembre del 1921 con il Congresso dell’Augusteo a Roma. Lì Mussolini accettò la logica: consegnò sul piano della violenza ai ras l’obiettivo di mantenere il Paese sotto il giogo dello squadrismo, mentre lui manovrava politicamente. Cercò di portare a buon frutto i risultati di queste azioni. Si mossero in sintonia e da lì organizzarono la Marcia su Roma della quale furono protagoniste queste squadre. Quando Mussolini andò al potere aveva capito la forza dello squadrismo”.
Matteotti provò a intercettare e a smuovere la sensibilità dei ceti medi borghesi, soprattutto urbani, leali verso i valori democratici. A questi si rivolgeva per sollecitarne l’attivismo a difesa della libertà messa in pericolo dal nascente fascismo: “Lui aveva capito che sul terreno dell’antifascismo, o più precisamente della tutela della libertà, avrebbe potuto saldare e trovare un’intesa fra settori del ceto operaio e di quello medio. Matteotti aveva capito che c’erano settori illuminati del ceto medio che ci sarebbero stati sulla convergenza di differenti culture politiche nel nome della libertà e della difesa della democrazia dalla violenza fascista. Alle elezioni del 6 aprile 1924 prese molti più voti sia dei massimalisti sia dei comunisti. A Milano conquistò il 13% dei consensi. Questo fu uno dei motivi dell’irritazione di Mussolini che mirava ai ceti medi. Mussolini accolse i risultati di Milano con molto fastidio, attaccando il suo uomo di fiducia Cesare Rossi: ‘Avete lavorato male’”.
Il movente del delitto Matteotti
Il movente del delitto Matteotti ha visto dividersi gli storici: chi lo lega ancora al discorso del 30 maggio 1924, chi propendeva per l’incidente – la “lezione” finita male. Moventi che non appaiono sostanzialmente all’altezza della gravità del fatto. Canali decostruisce la correlazione che ha sempre legato univocamente la fine di Matteotti al discorso pronunciato a Montecitorio il 30 maggio del 1924: “Il discorso del 30 maggio è stato caricato opportunisticamente di significato. In realtà non era nemmeno preparato. Uscendo dall’aula difatti Matteotti disse a un giornalista che non aveva appunti da lasciargli. Soprattutto, quel discorso non rivela nulla di nuovo di Matteotti, lo confermava semmai come antifascista coraggioso che prendeva la parola, si esprimeva pubblicamente. Faceva la battaglia antifascista anche sul piano dei numeri: studiava e leggeva i bilanci. Quella dell’incidente invece è la prima interpretazione che prese subito corpo. È l’interpretazione che suggeriva Mussolini. Si denota l’assenza di qualsiasi atto istruttorio che potesse spiegarla. Non regge perché fino ad allora le ‘lezioni’ agli antifascisti erano state date in un altro modo. Avrebbero agito diversamente come con le altre vittime: l’assalto della squadraccia, le botte, il sangue, l’asfalto e la fuga. A contrastare questo scenario è il sequestro, come ammettono da subito i magistrati. Il sequestro è un’altra cosa. Qual era il suo obiettivo?”
Matteotti provò a intercettare e a smuovere la sensibilità dei ceti medi borghesi, soprattutto urbani, leali verso i valori democratici.
Del Giudice e Tancredi avevano la certezza del delitto premeditato: i carnefici del deputato erano a Roma dal 23 maggio. Questa data pesa come un macigno sul movente del delitto prettamente politico. Come si poteva immaginare cosa avrebbe detto Matteotti dopo una settimana? Il Partito Socialista Unitario rappresentava il 5.9% dei votanti e aveva 24 parlamentari con un partito profondamente diviso al proprio interno che da segretario teneva insieme con molta fatica. Quale pericolo concreto poteva rappresentare per il fascismo tanto da arrivare a un delitto destinato a fare scalpore e a rivelare il vero volto del regime?
Il gruppo di arditi milanesi che, alle 16.30 di martedì 10 giugno, rapì e uccise Matteotti era composto da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. L’istruttoria non riuscì ad accertare il ruolo di Filippo Panzeri e Aldo Putato, quasi certamente presenti sul luogo del sequestro. Del gruppo faceva parte anche un austriaco, Otto Thierschald, utilizzato da Dumini come “basista”. Costoro erano giunti a Roma il 22 maggio, prendendo alloggio all’hotel Dragoni. Malacria si era unito al gruppo la mattina del 10 giugno per sostituire Averardo Mazzoli, che avrebbe dovuto guidare l’auto durante la fase finale del crimine, ma che s’era tirato indietro, spaventato dall’efferatezza del delitto.
L’ordine era di uccidere Matteotti. Il delitto andò storto, perché li avevano arrestati subito. I magistrati non avevano dubbi sulla premeditazione, ma Mussolini aveva l’urgenza di tirare fuori dal carcere gli assassini, perché avrebbero parlato. Dovevano essere rassicurati che il regime si stava muovendo in loro favore. L’obiettivo principale era portare il delitto da volontario a involontario. Dumini nel frattempo tacque e aspettò, scrivendo molte lettere a Mussolini per essere liberato. Riguardo all’impunità di cui avrebbero goduto i membri della Ceka, il capo del fascismo aveva garantito che “il possesso degli organi ufficiali dello Stato” avrebbe consentito al governo fascista “di mettere lo spolverino su tutte le violenze illegali”.
Dopo i tentativi di far passare la preterintenzionalità del delitto e lo stop all’azione giudiziaria dei magistrati Tancredi e Del Giudice, per salvarli ed evitare che parlassero, Mussolini fece promulgare l’amnistia. Il delitto Matteotti divenne un delitto politico involontario. La seconda istruttoria che terminò il primo dicembre del 1925 fu un tana libera tutti: vennero rinviati a giudizio soltanto gli esecutori materiali, con l’amnistia incombente. Mussolini elargì grandi somme di denaro alle famiglie dei detenuti coinvolti nel crimine: il periodo della detenzione fu dorata. Dumini comandava dal carcere e interagiva direttamente con il regime, la complicità fu totale.
Matteotti e la denuncia della corruzione del fascismo: l’affare Sinclair Oil
Attraverso i documenti, Canali ha maturato la convinzione che la chiave affaristica, relativa all’azienda petrolifera Sinclair Oil, fosse decisiva per interpretare la scelta dell’eliminazione. Nella nuova edizione de Il delitto Matteotti, appena pubblicata da Il Mulino, c’è un capitolo che ricostruisce proprio la questione petrolifera italiana e la convenzione Sinclair.
Canali ha maturato la convinzione che la chiave affaristica, relativa all’azienda petrolifera Sinclair Oil, fosse decisiva per interpretare la scelta dell’eliminazione.
La realtà del mercato petrolifero fiorente e i suoi costi rendevano impraticabili i propositi nazionalistici del fascismo. L’accantonamento da parte di Mussolini del progetto di costituzione dell’ente petrolifero nazionale, prevedeva il mantenimento dell’acquisto del petrolio raffinato dal colosso americano Standard Oil. Canali ha mostrato l’intenzione di Matteotti di denunciare l’11 giugno in Parlamento la rete corruttrice dei fascisti al governo: lo rivelarono i suoi interlocutori laburisti alcuni giorni dopo la sua morte.
Il Daily Herald, l’organo del partito laburista inglese, rese noto con l’articolo dal titolo “Crisis over Italian M.P.’s murder”, apparso il 17 giugno 1924, ciò che lo stesso Matteotti aveva riferito loro durante la sua permanenza nella capitale britannica: “Stava per denunciare un grosso scandalo, legato alle concessioni petrolifere e agli inferni del gioco d’azzardo”. Nell’ultimo viaggio a Londra Matteotti aveva in agenda principalmente le due questioni. Ai dirigenti laburisti parlò in particolare di due decreti-legge che il governo Mussolini aveva firmato o si accingeva a firmare. Tra questi, vi era l’accordo con una compagnia petrolifera americana, la Sinclair Oil, a cui Mussolini aveva deciso di affidare il monopolio della ricerca del prezioso minerale liquido in due delle più promettenti regioni italiane, la Sicilia e l’Emilia-Romagna.
Mussolini aveva fretta di approvare quell’accordo. Il decreto legge venne firmato il 4 maggio con la Camera che ancora non si era riunita. Il primo disegno di conversione in legge è il decreto della Sinclair Oil. Matteotti si precipitò a leggerlo. Non aveva mai potuto vedere il testo dal quale trasse materiale per English Life. Come spiega Canali nel suo libro,“Sappiamo ciò che pensava Matteotti di questo accordo grazie a un suo articolo pubblicato dalla rivista londinese «English Life», dal titolo Machiavelli, Mussolini and Fascism, uscito postumo, nel luglio 1924, ma scritto nella seconda quindicina di maggio, subito dopo il suo rientro da Londra. Egli affermava che, diversamente da quanto sostenuto dal governo, la Sinclair Oil non era indipendente ma era strettamente connessa alla «piovra Standard Oil Company» che già deteneva in Italia il monopolio della distribuzione.”
Nell’articolo, Matteotti dichiarava soprattutto di essere personalmente al corrente di gravi irregolarità commesse da alti funzionari del governo nella stipulazione dell’accordo, facendo anche intendere di sapere chi fossero i corrotti. Collegava il ricorso del fascismo a pratiche di corruzione per il finanziamento dei propri giornali. L’allusione è a giornali come Il Popolo d’Italia e Il Corriere Italiano, che vivevano dei finanziamenti elargiti più o meno spontaneamente dal mondo finanziario e industriale. Canali asserisce ne Il delitto Matteotti: Che uno dei moventi del delitto fosse il timore dei fratelli Mussolini, Benito e Arnaldo, di una denuncia pubblica di corruzione da parte di Matteotti che li chiamasse in causa, lo conferma un documento proveniente dagli archivi americani, cioè il testamento di Amerigo DùminiDumini, l’assassino e capo della Ceka fascista, la polizia segreta di Mussolini, che portò a termine il crimine. Costui, temendo di venire assassinato, riusciva a far pervenire all’estero una sua memoria, in cui confessava di avere ucciso il deputato socialista su ordine dei vertici fascisti, per il timore che questi potesse denunciare Arnaldo Mussolini per suoi loschi affari legati alla Sinclair Oil («Il Ponte», 2, marzo-aprile 1986).
Il governo laburista britannico era d’altra parte molto interessato e coinvolto nelle vicende petrolifere. La Anglo Persian, una tra le più potenti compagnie petrolifere al mondo, seconda solo alla Standard Oil, era di proprietà dello Stato britannico e intendeva sfidare l’avversario americano che controllava l’80% del nostro mercato. Canali scrive sempre nel suo volume: È legittimo pensare che il deputato socialista avesse ricevuto proprio dagli ambienti laburisti documenti o indicazioni che orientarono la sua successiva indagine sulla compromissione di uomini del regime fascista nella stipulazione della convenzione Sinclair. Se si è certi che la questione petrolifera Sinclair Oil venne trattata nel corso dei colloqui londinesi con i dirigenti laburisti, non si sa tuttavia – e le fonti inglesi naturalmente si guardarono bene dal chiarirlo – se Matteotti giunse in Inghilterra con idee e valutazioni già formate o se i suoi giudizi vennero formandosi sulla base delle informazioni che a mano a mano riceveva nel corso dei colloqui o addirittura di documenti fornitigli dagli stessi interlocutori.
L’eredità di Giacomo Matteotti
Nel 1947 venne rifatto il processo agli assassini e mandanti del delitto Matteotti, perché Mario Berlinguer, padre di Enrico futuro segretario del Pci, alto commissario per i reati fascisti, presentò una richiesta che dichiarava inesistenti tutti i processi celebrati durante il fascismo con il ruolo condizionante del regime. L’Italia, uscita dall’incubo fascista e ancora sotto le macerie di una guerra combattuta sul proprio suolo, sentì l’urgenza di tornare su quel crimine e sul processo farsa di Chieti del 1926, la cui sentenza aveva consentito agli assassini di tornare in libertà di lì a pochi mesi. Fra i primi atti della Repubblica, succeduta alla compromessa monarchia, vi fu la decisione di celebrare un nuovo processo per i mandanti e gli esecutori del delitto Matteotti sopravvissuti al fascismo. Si trattò di una decisione profondamente simbolica. Si intendeva porre in tal modo il grande patrimonio morale di libertà e democrazia ereditato dal sacrificio di Matteotti a fondamento della Carta costituzionale e di una nuova stagione della storia del nostro Paese.
Il discorso del 30 maggio 1924 è l’icona di Matteotti che ci resta, ma è un torto innanzitutto alla sua storia ricondurre tutto a quell’episodio e all’immagine del martire.
Il discorso del 30 maggio 1924 è l’icona di Matteotti che ci resta, ma è un torto innanzitutto alla sua storia ricondurre tutto a quell’episodio e all’immagine del martire. Nella mostra Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia, curata da Canali e in corso a Palazzo Braschi a Roma, appare una lettera di Carlo Rosselli a Pietro Nenni della metà degli anni Venti: Tu mi parlasti una volta e in modo che mi commosse, di Matteotti; e mi dicesti che ti sarebbe piaciuto dar la vita per l’idea, così come lui la dette, e ci trovammo concordi nel lamentare l’assenza totale di spirito di sacrificio e di sete di sofferenza tra i nostri amici. Anch’io spesso ho sognato di poter finire così utilmente la mia vita per una così grande causa. Ma badiamo bene di non fare anche della retorica su Matteotti. Matteotti non voleva e non cercava la morte. Volle e cercò la lotta; volle e cercò i posti di responsabilità nelle ore più dure, seppe vincere tutti i giorni, e perdere tutti i giorni la sua piccola battaglia. Io ammiro in lui la fede di tutte le ore, la tenacia, la costanza, l’ottimismo contagioso, il volontarismo sfrenato.