Q ualche anno fa la sociologa Eva Illouz metteva in guardia rispetto all’abuso, nei propri ragionamenti, dei cosiddetti concetti bulldozer, quei concetti divenuti talmente onnicomprensivi da aver perduto la loro capacità di cogliere la complessità dei processi sociali a cui fanno riferimento. Concetti vaghi ma onnipresenti come “il politicamente corretto”, “la cancel culture”, “le fake news” o “l’hate speech” si comportano in questa maniera. Si tratta di locuzioni che si portano dietro oramai un tale bagaglio di assunti impliciti da non aver neanche più bisogno di riferirsi a significati e pratiche d’uso contestuali o contingenti. Esistono come verità autoevidenti e, in quanto tali, tendono più al dominio del discorso etico che a quello dell’argomentazione razionale.
Un termine che oggi rischia di seguire il destino di concetto bulldozer è quello di mascolinità tossica. Basta fare una rapida ricerca in rete e si scopriranno centinaia di siti internet, blog, articoli di giornale, post sui social network in cui si parla dei problemi che causa. Il concetto è stato talmente sdoganato tra giornalisti, influencer ed opinionisti che non solo viene sfruttato praticamente per spiegare qualsiasi fenomeno pubblico – dal cambiamento climatico all’uso delle mascherine in epoca di pandemia – ma è diventato uno dei soggetti preferiti di campagne pubblicitarie, serie televisive e animazioni digitali. Si pensi al recente successo di cantanti come Achille Lauro o Damiano dei Maneskin, entrambi divenuti icone di una nuova idea di sensualità che rifiuta gli stereotipi tossici da esibire a tutti i costi. Ovviamente anche il discorso politico ha capito la forza di questo termine e sta iniziando a sfruttarlo sempre più spesso, come è avvenuto, ad esempio, a commento dei recenti casi di cronaca di Caivano e Colleferro.
In questi usi non è importante cosa davvero significhi l’etichetta mascolinità tossica, è il suo valore evocativo che conta. Menzionarla mobilita un universo morale di appartenenza e permette alle persone di sentirsi parte di un progetto sociale più ampio, il cui obiettivo è chiaro e inequivocabile: sradicare quello che c’è di avvelenato negli uomini. Non a caso, specialmente nel contesto degli Stati Uniti, il concetto è ampiamente promosso in ambito pedagogico. Come spiega Michael Salter, chi usa tale locuzione immagina gli uomini come affetti da una malattia sociale – che si estrinseca in un insieme di atteggiamenti non sani – e che, pertanto, vanno sottoposti a programmi educativi affinché cambino valori e atteggiamenti. Stanno emergendo corsi di studi e iniziative scolastiche che invitano i ragazzi ad abbandonare comportamenti tossici per entrare in contatto con i propri sentimenti e sviluppare una mascolinità sana. La stessa American Psychological Association, nel 2018, ha rilasciato una serie di linee guida per aiutare gli uomini a liberarsi del peso di quell’ideologia della mascolinità tradizionale che limiterebbe la loro capacità di vivere in sintonia con il resto del mondo. Recentemente, il concetto ha fatto la sua apparizione anche in numerosi testi universitari, soprattutto dopo il 2016, quando i media americani hanno iniziato a usarlo per descrivere le azioni dell’ex-presidente degli Stati Uniti Donald Trump o per condannare i soprusi dei potenti e ricchi uomini bianchi denunciati dal movimento #MeToo. Ma anche in Italia sempre più studenti e studentesse scrivono tesi di laurea o organizzano iniziative accademiche dedicate ad esplorare il fenomeno.
Eppure, nonostante il suo largo uso mediatico e accademico, ad ora non esiste una vera e propria definizione che ci dica cosa sia la mascolinità tossica. Il concetto è impiegato principalmente in modo descrittivo come etichetta denigratoria per individuare condotte misogine, violente, omofobe o aggressive. Contrariamente a quello che si può pensare, il termine non nasce neppure nell’ambito dei masculinity studies, ossia in quella galassia di riflessione interdisciplinare che si interroga sull’identità maschile e che si è andata consolidando nel corso dei Settanta a partire dal confronto con le teorie femministe. In realtà, il primo a parlare di mascolinità tossica è stato lo psicologo Shepherd Bliss, uno dei fondatori del Movimento degli Uomini Mitopoietici negli anni Ottanta. Attraverso l’organizzazione di seminari per soli uomini e rituali collettivi di iniziazione nella natura selvaggia, il movimento mitopoietico promuoveva il ritorno ad una spiritualità maschile che salvasse il mascolino profondo – una mascolinità protettiva e guerriera – dalla mascolinità tossica. Tossica era, in particolare, una società colpevole di femminilizzare i ragazzi, negando loro quei riti di passaggio necessari ad affermare il vero sé maschile.
Nonostante il suo largo uso mediatico e accademico, ad ora non esiste una vera e propria definizione di mascolinità tossica.
A conferma di quanto l’uso del termine fosse distante dall’attuale accezione, il concetto si è andato poi diffondendo negli anni Novanta e nei primi Duemila nella saggistica di consumo dedicata all’educazione dei ragazzi. Secondo questa produzione editoriale, il rischio che i figli potessero crescere lontani dai padri e accuditi principalmente dalle madri avrebbe contribuito a produrre uomini tossicamente mascolini. Il terapeuta Steve Biddulph, ad esempio, sosteneva che solo la figura paterna avrebbe consentito ai ragazzi di sviluppare un giusto tipo di mascolinità. L’etichetta è stata poi applicata anche ai criminali, destinati a vivere ai margini della società proprio in quanto portatori di comportamenti tossici. In un famoso studio del 2005 sugli uomini in prigione, lo psichiatra Terry Kupers affermava che il carcere faceva emergere nei prigionieri gli aspetti più tossici della loro personalità. Addirittura, sempre in quegli stessi anni, i presidenti Bush Sr. e Bush Jr. tendevano a descrivere sé stessi come eroi maschili che avevano contribuito a salvare la patria dal maschio tossicamente cattivo Saddam Hussein.
C’è da chiedersi come sia stato possibile che un termine nato in ambienti conservatori e sfruttato per rimarcare valori patriarcali o colonialisti si sia progressivamente trasformato in una sorta di passepartout teorico per affrontare questione complesse quali l’educazione degli adolescenti o le politiche di ineguaglianza di genere. C’entra sicuramente il fascino della metafora della tossicità. Non a caso, “tossico” è stata eletta parola dell’anno 2018 dall’Oxford English Dictionary. Il dizionario riporta in quell’anno un picco del 45% nel numero di volte in cui gli utenti hanno cercato il termine, e riferisce che dopo chimica, il lemma più frequentemente associato è stato proprio mascolinità. Il successo di questo concetto, sostiene il sociologo Frank Furedi, ci racconta di una società in cui in cui la paura è divenuta, per la quasi totalità delle persone, la prospettiva culturale dominante e la richiesta di sicurezza e protezione rispetto a qualsiasi minaccia tossica il suo valore più importante. Resta da capire in che modo questa immagine così potente possa realmente aiutare uomini e donne a evidenziare i limiti imposti da secoli di cultura patriarcale o se non finisca semplicemente per toccare la superficie di un fenomeno, senza interrogarsi sulle sue radici più profonde.
Educare contro il maschile tossico
Se il problema della mascolinità tossica fosse la sua dubbia genesi o l’essere sfruttato come slogan per vendere smalti per le unghie agli adolescenti non sarebbe tanto importante parlarne. Non è neanche inusuale che questioni complesse vengano semplificate e trasformate in concetti brevi e facilmente digeribili, che possano circolare agilmente tra la gente comune. Il problema è che la legittimazione di questa particolare locuzione tra educatori, divulgatori, e recentemente anche accademici, rischia di mettere in secondo piano i numerosi limiti che inevitabilmente si porta dietro.
Anzitutto, possiamo dire che l’attuale uso del termine derivi da una errata interpretazione del famoso lavoro di R.W. Connell sulla mascolinità egemonica. Mentre Connell teorizzava la mascolinità come il prodotto di relazioni e comportamenti di genere, il concetto di mascolinità tossica stabilisce un insieme di attributi maschili fissi, dannosi tanto per le donne quanto per gli uomini stessi. Obiettivo sarebbe, quindi, quello di liberare i maschi dalla tossicità che condizionerebbe i loro atteggiamenti e modi di pensare. Come spiega il famoso sociologo Michael Kimmel, si tratterebbe sostanzialmente di andare dai ragazzi e invitarli ad abdicare alle loro idee di mascolinità, perché tossiche, ed abbracciarne di nuove. Come dire: rinunciate a Vin Diesel e scegliete Ryan Gosling.
Mentre le teorie sulla mascolinità egemone teorizzavano la mascolinità come il prodotto di relazioni e comportamenti, il concetto di mascolinità tossica stabilisce un insieme di attributi maschili fissi e dannosi.
Il primo limite di tale ricetta educativa è che questi tratti stereotipicamente maschili tossici da cui ci si dovrebbe emancipare sono sufficientemente contraddittori da non corrispondere ad alcun uomo empiricamente esistente. Nella maggior parte dei casi questi tratti rinviano a luoghi comuni riguardo a quelle che dovrebbero essere le qualità ideali di un uomo – forte, virile, sicuro di sé, aggressivo. Di conseguenza, vista la difficoltà a fornirne una precisa definizione empirica, spesso si finisce per insegnare ai ragazzi che la mascolinità è una sorta di universale negativo da cui doversi distanziare. Ma in tal caso, continua sempre Kimmel, risulta difficile capire come gli adolescenti potrebbero mostrarsi interessati ad ascoltare qualcuno che li rimprovera di essere totalmente sbagliati.
Del resto, come ha evidenziato lo psicologo e psicoterapeuta Mario De Maglie, associare al maschile la parola tossicità riesce solo nell’intento di allontanare gli uomini dal problema. È lo stesso difetto in cui cadono spesso divulgatrici e divulgatori che fanno informazione in Rete sui temi di genere e adoperano un tono accusatorio contro gli uomini – specie se maschi bianchi etero cisgender – che finisce per polarizzare ancora di più gli atteggiamenti maschili che vorrebbero condannare e redimere. Pur mossi dalle più nobili intenzioni, costoro si limitano ad equiparare la mascolinità al potere maschile, alimentando una narrazione che vede tutti gli uomini come oppressori delle donne e tutte le donne vittime degli uomini. Una narrazione sicuramente dall’alto impatto emotivo, che però offre ai propri pubblici niente meno che una versione semplificata dell’idea di mascolinità egemonica, tradendo lo spirito con cui tale concetto era stato teorizzato: superare l’idea di un monolitico potere di genere e rendere più complessa la posizione stessa delle donne nell’organizzazione sociale della mascolinità.
In secondo luogo, qualsiasi ricetta educativa che parlerà di mascolinità liberata farà passare un insieme di condotte specifiche come valori unanimemente giusti, dimenticando che quelle condotte sono sempre il risultato di habitus e stili di vita generati e consolidati all’interno di determinati gruppi sociali. Per cui, prima di dire ad un ragazzo, o ad un uomo, che può piangere, portare i capelli lunghi, interessarsi di poesia, essere sensibile e delicato sarebbe opportuno domandarsi se questo tipo di prescrizioni non finiscano semplicemente per imporre un proprio modello di comportamento. Un comportamento che magari può funzionare facilmente nel recinto del proprio ceto di appartenenza, ma che non necessariamente può essere assunto in maniera così spontanea all’interno di altri spazi sociali. Del resto, non è una novità che una mascolinità sensibile sia più spendibile se si appartiene al sottobosco di attivisti digitali della classe media creativa – composto di content creator, life coach, grafici pubblicitari o critici cinematografici – piuttosto che se si lavora come operai metalmeccanici in fabbrica o si cresce all’interno di comunità fortemente tradizionaliste.
Infine, va ricordato che non si produrranno grandi avanzamenti in termini di eguaglianza di genere se ci si limiterà a suggerire o incoraggiare nuove condotte, a dire ai maschi che hanno diritto a piangere o mostrarsi ironici: la mascolinità potrà ammorbidirsi, farsi più femminile, persino ridere di sé stessa, senza per questo dover affrontare minimamente il problema del potere patriarcale. Vari studi hanno dimostrato che gli uomini che si definiscono più androgini non sono necessariamente quelli più aperti a idee di parità, così come quelli che si considerano più tradizionalmente maschili non sono inevitabilmente contrari alle istanze femministe.
La mascolinità potrà ammorbidirsi, farsi più femminile, persino ridere di sé stessa, senza per questo dover affrontare minimamente il problema del potere patriarcale.
Ma c’è ancora dell’altro. Riducendo l’esperienza maschile a un elenco di tratti e qualità stereotipate ritenute universali, l’etichetta di mascolinità tossica apre la strada ad una sorta di nuovo essenzialismo. Si tratta di una conseguenza paradossale, dal momento che coloro che vanno oggi promuovendo il concetto di mascolinità tossica lo fanno proprio per contrastare l’idea che esista una essenza maschile innata che guida pensieri e azioni degli uomini. Il messaggio che propongono sostiene che non esiste mascolinità che non sia il frutto di una costruzione sociale, derivante dai condizionamenti della famiglia, della scuola, dei gruppi dei pari, dei media e di altre influenze esterne più o meno dannose. È ovviamente una idea sacrosanta da far propria, soprattutto in un periodo in cui vediamo in Italia politici conservatori propagandare il peggior riduzionismo biologico. Eppure, anche il costruzionismo rischia di non essere altro che una forma più sofisticata di essenzialismo. Lo potremmo definire come un essenzialismo di ritorno.
Quando si sostiene, ad esempio, che uomini e ragazzi sarebbero vittime di questa sorta di lavaggio del cervello che li socializzerebbe ad un maschile tossico, si riduce la mascolinità ad una specie di copione di genere fisso e immutabile, a cui tutti i maschi (e solo i maschi) sarebbero inevitabilmente portati a aderire. Si immagina, cioè, l’esistenza di un ideale universale di maschile che si aggiungerebbe al sesso in maniera quasi automatica con l’obiettivo di dotare gli uomini di un genere. Ne consegue che, al di là di tutte le possibili spiegazioni socioculturali, quello che davvero accomunerebbe chi viene infettato da questi comportamenti maschili tossici sarebbe quello di avere un pene. La mascolinità torna così ad essere un destino biologico. Pertanto, ogni volta che si chiederà agli uomini di impegnarsi per ridefinire, ricostruire, smantellare o trasformare la propria mascolinità, in realtà, gli si starà comunque indicando l’essere maschio come espressione di genere a cui dovranno dedicare i propri sforzi. Invece di incentivarli a farsi coinvolgere in una varietà di pratiche che prescindano dalla loro identità sessuata, gli si ripeterà che esistono un insieme di caratteristiche maschili sane e altre tossiche, e che sono connesse invariabilmente al loro sesso naturale.
Una politica per la tossicità maschile
La mascolinità tossica non solleva solo questioni di ordine educativo. Chiama in causa anche problemi di matrice politica. Interroga il tipo di interventi che bisognerà intraprendere per ridiscutere la posizione degli uomini stessi nell’ordine delle diseguaglianze di genere. In tal senso, come ha evidenziato recentemente lo studioso Sam de Boise, il maggiore limite che si porta dietro la riflessione sulla tossicità è quello di nominare la mascolinità e separarla concettualmente dalle pratiche concrete degli uomini. La mascolinità diventerebbe una sorta di dispositivo auto-esplicativo che condizionerebbe la vita di tutti gli uomini allo stesso modo, come se un deputato del Parlamento italiano e un violento membro di una gang di periferia fossero guidati da un identico campionario di disposizioni di genere. Verrebbe intesa, cioè, come una causa di ciò che fanno gli uomini, qualcosa di universalmente preesistente a essi, laddove essa è piuttosto una conseguenza dei processi relazionali che i maschi intrattengono con la realtà che li circonda.
Esistono, difatti, infiniti modi di essere uomini che si sviluppano in una grande varietà di contesti – etnici, sociali, di classe, e che sono dipendenti da specifiche strutture economiche, istituzionali, culturali. Tali contesti hanno un effetto di potere vincolante sul concreto lavoro identitario che il soggetto maschile deve compiere per rispondere al suo desiderio di essere nel mondo in quanto uomo. Qualsiasi scelta egli farà, non sarà mai pienamente libera, ma costretta da numerose variabili, come l’età, il capitale culturale, il corpo, la salute, l’etnia, la geografia, la nazionalità e, non ultima, la storia unica del soggetto come individuo. Non tenere conto della natura contestuale entro cui si inquadrano le prassi maschili, vuol dire credere che tali prassi siano determinate da tratti universali e che, di conseguenza, il modo migliore per combattere l’oppressione di genere sia invitare gli uomini a mettere in discussione e correggere le proprie condotte private.
La mascolinità viene intesa come una causa di ciò che fanno gli uomini, laddove essa è piuttosto una conseguenza dei processi relazionali che i maschi intrattengono con la realtà.
Si rischia, come avverte la studiosa femminista Carol Harrington, di coinvolgere gli uomini in una lotta meramente individualista, che mette in secondo piano l’analisi dei privilegi istituzionali e strutturali per ridursi ad un progetto di trasformazione personale, di scoperta di sé. È un limite evidente in buona parte del dibattito pubblico attorno a questo tema. Divulgatrici ed divulgatori lanciano appelli accorati rivolti agli uomini a riconoscere il proprio privilegio, a fare ammenda dei comportamenti tossici, a sviluppare il senso di colpa verso la propria misoginia interiorizzata. In un recente libro dal titolo Odio gli uomini della scrittrice Pauline Harmange, divenuto caso letterario in Francia e particolarmente apprezzato anche nei circoli dell’attivismo italiano, si invitano gli uomini a usare il loro potere con consapevolezza, incivilendo gli altri membri, quasi che il patriarcato fosse una sorta di egemonia maschile psicologica da curare a colpi di terapia riabilitativa. Il punto è che spiegare i sistemi patriarcali nei termini della misoginia è come spiegare il capitalismo nei termini dell’avidità: si mettono in secondo piano le analisi sulle implicazioni politiche delle differenze di genere e dei regimi di potere che li configurano, per rivolgersi alle questioni identitarie, simboliche, culturali.
La mascolinità tossica appare come una sorta di specchio rovesciato di quella che Rosalind Gill e Shani Orgad hanno felicemente definito confidence culture. Decenni di pubblicità, lifestyle television e letteratura dedicata all’auto-miglioramento hanno portato le giovani donne a credere che sia più importante impegnarsi a lavorare su sé stesse per ritrovare la propria autostima, piuttosto che lottare contro i meccanismi di disparità strutturali che legittimano una certa idea di femminilità come manchevole. Allo stesso modo, gli uomini vengono invitati a combattere con i significati della propria mascolinità, a riappropriarsi di un maschile sano, invece di prendere coscienza delle conseguenze pratiche e politiche dei propri comportamenti di genere. Le scelte personali e le autodefinizioni si fanno talmente prioritarie rispetto alle battaglie collettive contro ineguaglianze e sfruttamento che le questioni in ballo finiscono per riguardare più il piano etico che quello sociologico.
E non è un caso quindi se il tono che contraddistingue queste argomentazioni è spesso quello sermonesco e salvifico. Un tono che, alla pratica argomentativa, preferisce aforismi e messaggi motivazionali atti a orientare l’umore emotivo del pubblico. Si tratta di un meccanismo di sollecitazione affettiva semplice e rassicurante, ma soprattutto facilmente spendibile nell’economia dell’attenzione che caratterizza le attuali piattaforme digitali. Vediamo nascere decine di iniziative sui social network (più o meno brandizzate) che spingono i ragazzi a sperimentare modi nuovi e diversi di essere maschi, a staccarsi di dosso la propria mascolinità tossica. È indubbiamente positivo che si puntino i riflettori su tali questioni, soprattutto se coinvolgono gli/le adolescenti – coloro che più di tutti vivono quella fase della vita che i sociologi definiscono come gender intensification, in cui si è maggiormente esposti alla necessità di conformarsi ai ruoli di genere, e si è più propensi a mantenere il maschile e il femminile in sfere separate, esagerandone i tratti stereotipici. Il problema, per citare il recente libro di Elisa Cuter, è che questo tipo di operazioni assomigliano troppo ad una sorta di confessionale maschile, che riporta un discorso per sua natura politico alla presa di coscienza del singolo, all’idea che il cambiamento possa avvenire solo sulla base di una sensibilizzazione individuale e dunque morale. La politica della mascolinità, in questa prospettiva, perde il suo carattere di contestazione delle strutture istituzionalizzate dell’ordine di genere, per assomigliare piuttosto ad una operazione di conversione spirituale, adatta a uomini ipersensibili e in cerca di riconoscimento.
Oltre a svuotare il politico di specificità, il concetto di mascolinità tossica arriva paradossalmente a de-personalizzare il personale stesso, riducendolo ad una categoria identitaria, e dunque essenzializzandolo di nuovo. Invitare gli uomini a liberarsi dei propri comportamenti maschili tossici significa, in sostanza, riconfermare la mascolinità come una classe sociale a cui tutti i maschi appartengono, un nucleo coerente ed immutabile che essi possiedono e che è legato al fatto di essere nati con un corpo maschile. Ora, come spiega Diane Fuss, noi possiamo anche tentare di liberarci dai rischi di questo essenzialismo frammentando il soggetto in identità storicamente e culturalmente contingenti – e, invece di riferirsi genericamente a uomini, parlare ad esempio di maschio bianco etero. Ma il risultato non cambia. Ci troviamo semplicemente con una nuova etichetta e la rendiamo costitutiva di quella persona, al punto che qualsiasi cosa essa dirà o farà non potrà mai prescindere dal posizionamento identitario che definisce chi è. L’appartenenza di genere acquisisce, così, un’aura di autoevidenza fideistica. Pertanto, invece di invitare gli uomini a cambiare il modo in cui pensano a sé stessi, gli si ricorderà continuamente che è la verità della loro identità sessuata a definire e condizionare qualsiasi aspetto del proprio vissuto. Invece di spingerli a chiedersi in che modo si è arrivati a credere che possa esistere questa finzione storico-ideologica chiamata mascolinità, gli si dirà di continuare ad essere maschi, semplicemente in modo diverso.
Immaginare la mascolinità come una forza esterna che agisce sugli uomini consente loro di deresponsabilizzarsi rispetto ad un coinvolgimento attivo nelle politiche di parità di genere.
Ma depoliticizzazione ed essenzialismo non sono gli unici problemi che si porta dietro la metafora della tossicità. Immaginare la mascolinità come una forza esterna che agisce sugli uomini offre a molti di loro un assist irresistibile: gli consente di deresponsabilizzarsi rispetto ad un coinvolgimento attivo nelle politiche di parità di genere. A dimostrazione di ciò, il termine viene spesso strumentalmente cooptato da gruppi maschili conservatori o antifemministi. In alcuni casi, l’idea di mascolinità tossica permette a costoro di poter rivendicare una propria specifica oppressione di genere. Provate a chiedere ad un ragazzo che si autodefinisce Incel ̶ acronimo che sta per celibe involontario ̶ il motivo della sua frustrazione. Vi risponderà che lui ha tutto il diritto di sentirsi discriminato per il suo aspetto fisico, e che la sofferenza derivata dall’incapacità di avere rapporti sentimentali o sessuali non è minore di quella di una donna o di una qualsiasi altra minoranza. In altri casi ancora, la metafora della tossicità offre un facile capro espiatorio rispetto a qualsiasi presa di consapevolezza delle strutture sociali che convalidano il potere maschile, a prescindere dalla eventuale buona volontà dei singoli. Provate a chiedere ad un ragazzo che condivide l’hashtag #notallmen il motivo per cui lui non si vede coinvolto nel problema della violenza di genere. Vi dirà che incolpare una intera categoria sociale per le azioni tossiche di alcuni uomini è una forma di razzismo.
La questione è complessa. Non si vuole negare che esistano alcune arene sociali in cui essere uomo costituisca una condizione di svantaggio ̶ come ben sottolineato in un recente articolo di Yari Carbonetti o il fatto che anche i maschi possono mostrarsi sinceramente fragili rispetto ai costi sociali che pagherebbero per la loro adesione ad un ruolo di genere dannoso. Ma più tendiamo a psicologizzare la questione maschile, più restiamo inglobati in una pura politica dei generi che rischia di limitarsi al mea culpa degli attivisti digitali o alla rivendicazione vittimista dei gruppi antifemministi. Al contrario, le migliori prospettive per una politica della mascolinità si trovano probabilmente altrove, nei punti di intersezione del genere con altre strutture, che siano economiche o sociali, o magari connesse al mercato del lavoro, alle politiche redistributive, alle istituzioni statali o all’organizzazione stessa della vita domestica. Ossia, a tutte quelle dimensioni sovraindividuali che legittimano un certo discorso sulla mascolinità, e ne limitano davvero le potenzialità di emancipazione.
Sarebbe opportuno usare con cautela un concetto bulldozer come quello di mascolinità tossica. Come abbiamo visto, questo termine alimenta due tendenze preoccupanti. La prima è l’essenzialismo e il binarismo di genere: è sbagliato spingere i ragazzi a ricercare un ideale maschile sano, laddove bisognerebbe insegnargli a liberarsi dall’ossessione di questa cosa chiamata mascolinità. La seconda è la depoliticizzazione e l’identitarismo: è inutile chiedere agli uomini di lottare con i significati della propria esperienza di maschi, quando occorrerebbe portarli ad agire contro quelle istituzioni che convalidano l’egemonia del maschile a danno di donne e altre minoranze. Si tratta di due tendenze che vanno opportunamente decostruite. È indubbio che quella della tossicità è una metafora potente. Ma continuare a servirsene in maniera disinvolta per affrontare la questione maschile, ci avverte la studiosa Andrea Waling, non solo non aiuterà a smantellare le diseguaglianze di genere, ma finirà per riprodurle, semplicemente in modi nuovi e differenti.