

I l 14 ottobre 1980 una fiumana silenziosa di persone attraversa il centro di Torino. Sono in gran parte impiegati, tecnici e quadri della Fiat, affiancati da qualche operaio e da cittadini comuni – artigiani, piccoli imprenditori, commercianti – tutti decisi a manifestare a sostegno della più grande azienda italiana e contro coloro che, a loro avviso, ne stavano frenando l’attività. Dietro di loro c’è la fabbrica simbolo della città, Mirafiori, da 35 giorni paralizzata da picchetti sindacali e scioperi a oltranza. Davanti a loro c’è un obiettivo chiaro: rivendicare il diritto al lavoro e chiedere la riapertura dei cancelli, sfidando apertamente lo sciopero indetto dai sindacati.
In poche ore quel corteo atipico – passato alla storia come la “marcia dei quarantamila” – segna una svolta drammatica. Il giorno seguente, di fronte all’impatto di quella manifestazione, i vertici sindacali firmano un accordo che pone fine alla vertenza alle condizioni dettate dall’azienda. Si conclude così, bruscamente, uno dei più lunghi conflitti operai del dopoguerra, con una cocente sconfitta del movimento sindacale e l’inizio di una nuova fase nei rapporti tra capitale e lavoro. Storici e osservatori parleranno poi di “fine di un’epoca”: nell’arco di una sola giornata si chiude simbolicamente la stagione delle grandi lotte operaie fordiste e se ne apre un’altra, dominata dalla ristrutturazione industriale, dalla flessibilità del lavoro e da un diverso clima sociale.
Per comprendere il significato di quella marcia occorre inserirla nel contesto delle lotte sindacali degli anni Settanta. Il decennio precedente era stato segnato da un’ondata di mobilitazioni operaie senza precedenti: l’“autunno caldo” del 1969 aveva visto gli operai italiani – e torinesi in particolare – conquistare aumenti salariali e nuovi diritti, spingendo il parlamento ad approvare lo Statuto dei lavoratori (1970) che introduceva tutele avanzate in fabbrica. Negli anni successivi le grandi fabbriche come la Fiat diventarono teatro di conflitti accesi e continui, con scioperi, picchetti e assemblee che misero in discussione l’organizzazione del lavoro fordista e i rapporti gerarchici tradizionali. Il movimento operaio esercitava una forza contrattuale notevole: la contrapposizione tra “tute blu” e vertici aziendali fu il motore di un conflitto sociale che per oltre un decennio condizionò profondamente la vita politica ed economica italiana.
Tuttavia, sul finire degli anni Settanta, quella stagione di mobilitazione mostrava segni di logoramento: la crisi economica seguita allo shock petrolifero del 1973 aveva fatto esplodere inflazione e disoccupazione, erodendo il potere negoziale dei lavoratori. Allo stesso tempo, le tensioni sociali avevano imboccato la via tragica del terrorismo: le frange estremiste, come le Brigate rosse, ingaggiarono una lotta armata che culminò nel sequestro Moro (1978) e contribuì a isolare le componenti più radicali del movimento. Sul piano politico, l’Italia di fine anni Settanta era attraversata da instabilità di governo e dal compromesso storico tra Democrazia cristiana (DC) e Partito comunista italiano (PCI), mentre il clima internazionale virava verso una fase di offensiva neoliberista (con l’ascesa di Thatcher e Reagan) e di ristrutturazioni industriali su scala globale.
Nell’arco di una sola giornata si chiude simbolicamente la stagione delle grandi lotte operaie fordiste e se ne apre un’altra, dominata dalla ristrutturazione industriale, dalla flessibilità del lavoro e da un diverso clima sociale.
Ma all’alba degli anni Ottanta questo ciclo storico volge al termine, ed è proprio in quel 14 ottobre 1980 che l’operaio-massa esce di scena, per lasciare spazio a nuove identità sociali basate sulla ricerca del benessere individuale e sul primato del mercato e della produttività. La marcia dei quarantamila sarà l’inequivocabile evento-simbolo di questo tramonto.
Ma cosa accadde precisamente? All’inizio del 1980 la Fiat entra in una fase di crisi che non è solo congiunturale. Le vendite crollano, i piazzali di Mirafiori sono colmi di auto invendute, la produttività appare troppo bassa in un mercato ormai globalizzato. La famiglia Agnelli decide di cambiare passo: a fine luglio l’amministratore delegato Umberto Agnelli si dimette, sostituito da Cesare Romiti. Con lui la direzione aziendale abbandona ogni atteggiamento attendista e sceglie la linea della fermezza. Romiti intende ristrutturare in profondità, ridurre drasticamente gli organici, riportare disciplina in fabbrica dopo un decennio di protagonismo operaio.
Il 5 settembre la nuova dirigenza annuncia diciotto mesi di cassa integrazione per ventiquattromila dipendenti, quasi tutti operai. Pochi giorni dopo comunica ufficialmente quattordicimila licenziamenti: un taglio occupazionale di proporzioni senza precedenti. I sindacati metalmeccanici reagiscono proclamando lo sciopero e organizzando picchetti permanenti che paralizzano gli stabilimenti. Mirafiori diventa l’epicentro di una vertenza che assume subito un carattere politico nazionale: il ministro del Lavoro Franco Foschi tenta una mediazione, mentre lo stesso Enrico Berlinguer si reca ai cancelli della fabbrica per manifestare solidarietà agli operai.
È Mario Tronti a definire negli anni Sessanta l’operaio-massa come il nuovo soggetto collettivo emerso con la catena di montaggio e destinato a guidare lo scontro di classe nell’era del fordismo. Ma all’alba degli anni Ottanta questo ciclo storico volge al termine.
È in queste settimane che la compattezza operaia comincia a incrinarsi. Impiegati, tecnici e capi intermedi, inizialmente rimasti in disparte, avvertono sempre più il conflitto come estraneo e persino dannoso. Temono per la tenuta dell’azienda e guardano con ostilità crescente all’egemonia dei delegati di fabbrica. Nasce così un coordinamento dei quadri, che diffonde comunicati contro i sindacati e arriva persino a scontrarsi fisicamente con i picchetti. Parallelamente, la Fiat affianca alla pressione economica e organizzativa una strategia legale: gli esposti contro i blocchi portano a centinaia di convocazioni per gli operai attivi nei presidi. Alla vigilia del 14 ottobre il conflitto non è più soltanto tra azienda e lavoratori, ma attraversa lo stesso fronte del lavoro: da un lato gli operai di linea, dall’altro il ceto impiegatizio che si prepara a uscire allo scoperto. La marcia dei quarantamila sarà la conseguenza diretta di questa frattura già consumata.
Se è vero che in Italia è venuta affermandosi una teorizzazione nuova dell’operaio – quella dell’operaio-massa, elaborata da Mario Tronti –, è vero anche che con la marcia dei quarantamila ci si è ritrovati di fronte a una forma inedita di crumiraggio: per la prima volta, a memoria di operaio, un nutrito schieramento di colletti bianchi scese in piazza contro uno sciopero operaio, mettendosi – di fatto – dalla parte del “padrone”. Questo evento ebbe un enorme impatto simbolico. Durante le lotte degli anni Sessanta-Settanta, pur nelle diversità di ruoli, impiegati e operai avevano spesso mantenuto una forma di solidarietà: i primi raramente scioperavano, ma neppure si sarebbero sognati di sfilare contro i secondi. La “marcia dei capi” (così venne anche chiamata) ruppe questo tabù.
Cosa significò? In primo luogo, segnalò l’emergere di interessi divergenti all’interno del mondo del lavoro Fiat: molti impiegati e tecnici – probabilmente timorosi di perdere il posto se la crisi fosse degenerata – sposarono la causa aziendale della ripresa produttiva a ogni costo, mentre gli operai rivendicavano la tutela del posto di lavoro collettivamente e senza concessioni. Era anche uno scontro tra culture del lavoro: da un lato la cultura operaia della solidarietà di classe, dall’altro quella, tipica del ceto medio impiegatizio, dell’individualismo meritocratico e del professionalismo. La marcia rese visibile questa faglia. Di fronte a loro, l’unità di classe proclamata dalle confederazioni si rivelò, in quel frangente, un’illusione impotente.
Alla vigilia del 14 ottobre il conflitto non è più soltanto tra azienda e lavoratori, ma attraversa lo stesso fronte del lavoro: da un lato gli operai di linea, dall’altro il ceto impiegatizio che si prepara a uscire allo scoperto.
Lo stesso segretario della FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) torinese, Claudio Sabattini, pochi anni dopo ammise che l’errore fu impedire agli operai di rientrare al lavoro per adottare forme di protesta più sostenibili nel lungo periodo. D’altronde non va dimenticato il trauma sociale che la sconfitta causò tra gli stessi operai: oltre alla perdita del posto per migliaia di essi, uno studio ha contato ben 149 suicidi di lavoratori Fiat tra il 1980 e il 1984, un dato agghiacciante che testimonia la disperazione seguita a quella débâcle. La rottura della solidarietà si pagò con ferite profonde nel tessuto operaio torinese.
I manifestanti dipinsero sé stessi come cittadini moderati e ragionevoli, stanchi di subire le prepotenze di una minoranza rumorosa (i delegati sindacali, i cassintegrati in perenne sciopero). Si chiedeva il ripristino dei diritti civili, con l’implicita accusa al sindacato di avere instaurato un regime di fatto attorno a Mirafiori, violando i diritti di chi voleva lavorare. Si trattò in parte di una sapiente costruzione retorica – alimentata anche dalla stampa moderata – ma che fece presa su larghi strati dell’opinione pubblica.
Per la sinistra fu un duro colpo: significava che il consenso sociale attorno alle lotte operaie si era eroso, non solo tra gli impiegati Fiat ma anche tra i cittadini comuni. La classe operaia apparve isolata, quasi “colpevole” di aver frenato lo sviluppo. In tal modo la marcia sancì la fine di un’alleanza sociale che per decenni aveva visto movimenti studenteschi, intellettuali, ceti medi progressisti e operai combattere fianco a fianco per l’emancipazione collettiva. Nell’Italia del 1980 quell’alleanza era svanita: al suo posto emergeva una ricomposizione degli schieramenti sociali, con il ceto medio produttivo e parte del mondo del lavoro schierati con il capitale in nome della “ripresa” economica.
La marcia sancì la fine di un’alleanza sociale che per decenni aveva visto movimenti studenteschi, intellettuali, ceti medi progressisti e operai combattere fianco a fianco per l’emancipazione collettiva.
Gli anni Ottanta furono infatti gli anni della ristrutturazione. In Italia, come altrove, le imprese colsero la sconfitta operaia come un via libera per innovare profondamente processi e prodotti. Nuove tecnologie fecero il loro ingresso: robotica, automazione, elettronica. La stessa Fiat, dopo il trauma del 1980, avviò un vasto programma di ammodernamento in tutti gli stabilimenti, introducendo sistemi produttivi più flessibili. Nel 1983 lanciò la Uno, la prima utilitaria progettata interamente nell’era post-sciopero, prodotta con linee automatizzate avanzate (il “robogate”). Nel 1986 Gianni Agnelli poté dichiarare concluso il risanamento. La Fiat aveva recuperato una posizione di piena centralità, contendendosi la leadership del mercato europeo con la Volkswagen. La restaurazione manageriale sembrava aver dato i suoi frutti: la produttività era risalita, i bilanci tornati in attivo. La parabola dell’operaio-massa appariva chiusa, sostituita da una nuova centralità del “fattore impresa”.
In effetti, la figura dell’operaio di linea quale soggetto collettivo si eclissa dopo il 1980. Nel lessico sociologico fa capolino un nuovo termine: “flessibilità”. Le imprese, per competere in mercati sempre più globali e instabili, adottano modelli organizzativi snelli, sul modello giapponese (toyotismo). La produzione si frammenta in distretti industriali territoriali e filiere di subfornitura (un processo di decentramento produttivo che in Italia era già avanzato in regioni come Veneto ed Emilia). L’occupazione industriale si riduce nelle grandi fabbriche e cresce in piccole e medie imprese. Si affermano nuove categorie di lavoratori: tecnici specializzati, operai interinali, impiegati del terziario avanzato, mentre il tradizionale operaio di catena diventa sempre più raro. Teorici post-operai come Antonio Negri parleranno di operaio sociale per indicare un lavoratore diffuso nella società, non più concentrato solo in fabbrica. Ma soprattutto, dagli anni Ottanta in poi il mito della flessibilità viene esaltato nel discorso pubblico – salvo tradursi, per molti lavoratori, in una condizione cronica di precarietà.
Gli anni Ottanta divennero un periodo di espansione economica: dopo la recessione del 1981-82, l’Italia conobbe un deciso rilancio con tassi di crescita annui intorno al 3% a metà decennio. Furono anche gli anni del cosiddetto made in Italy: accanto ai successi dell’auto si affermarono a livello globale prodotti come i computer Olivetti (M24) e l’alta moda italiana – segno di un Paese in trasformazione. Il sociologo Francesco Alberoni parlò addirittura di “nuovo Rinascimento” italiano.
La parabola dell’operaio-massa appariva chiusa, sostituita da una nuova centralità del “fattore impresa”.
A più di quarant’anni di distanza, la marcia dei quarantamila resta un evento-simbolo ricco di significati per il presente. Da un lato, essa segnò il tramonto di un modello di conflitto sociale basato sul potere contrattuale concentrato della grande fabbrica. Quel modello – l’operaio-massa fordista, organizzato nel sindacato di fabbrica – aveva ottenuto conquiste importanti, ma mostrava già la corda di fronte ai mutamenti dell’economia. La sconfitta del 1980 certificò che non era più possibile tornare indietro: il capitalismo italiano aveva voltato pagina, aprendosi all’era della flessibilità e della globalizzazione nascente.
Dall’altro lato, molti dei nodi irrisolti di allora si ripresentano oggi sotto altre forme. La frattura tra impiegati e operai può ricordare, per certi versi, le nuove divisioni nel mondo del lavoro contemporaneo: da una parte lavoratori garantiti (spesso più qualificati e integrati nei processi globali), dall’altra lavoratori precari o marginali, con minore tutela e potere contrattuale. Il declino della solidarietà di classe che emerse in nuce nel 1980 è oggi amplificato da una frammentazione estrema del lavoro: la fabbrica diffusa e l’outsourcing hanno disperso la forza lavoro in miriadi di piccole unità, rendendo più difficile l’organizzazione collettiva. Allo stesso tempo, l’offensiva neoliberista che negli anni Ottanta muoveva i primi passi è giunta a piena maturazione: deregolamentazione, competitività sfrenata e precarietà sono realtà quotidiane per milioni di persone. In questo senso, la marcia dei quarantamila può essere vista come l’atto iniziale di un lungo processo di ristrutturazione che prosegue ancora oggi.
La Waterloo del sindacato è stata vista dall’imprenditoria a trazione liberale come una sconfitta cocente ma forse necessaria per spingere le organizzazioni dei lavoratori a rinnovarsi. Dal punto di vista della storia del lavoro, la marcia dei quarantamila segna un punto di non ritorno. Dopo quell’episodio, la figura dell’operaio-massa – attorno a cui si erano costruite teorie (Tronti, Negri) e strategie politiche – perde centralità, mentre emergono nuovi soggetti e nuove forme di conflitto (si pensi, ad esempio, ai movimenti dei lavoratori precari degli ultimi anni, ben diversi per composizione e rivendicazioni). In definitiva, l’eredità di quell’autunno torinese è duplice: da un lato, il mondo delle fabbriche non fu più lo stesso, dall’altro le questioni del potere e dei diritti nel lavoro assunsero forme più complesse, meno visibili.
La frattura tra impiegati e operai può ricordare, per certi versi, le nuove divisioni nel mondo del lavoro contemporaneo: da una parte lavoratori garantiti (spesso più qualificati e integrati nei processi globali), dall’altra lavoratori precari o marginali, con minore tutela e potere contrattuale.
Nel bilancio storico-sociologico di quell’evento, dunque, possiamo leggere sia la fine di un’epoca sia l’inizio di contraddizioni nuove. Fu la fine dell’epoca in cui il conflitto capitale-lavoro aveva il volto coriaceo e oleoso dell’operaio di Mirafiori; l’inizio di un’era in cui quel conflitto si sarebbe espresso in maniera più frammentata e diffusa, spesso silenziosa.
La marcia dei quarantamila resta lì a ricordarci che anche il “noi” dei lavoratori può andare in frantumi se cambiano le condizioni – e che ogni stagione di lotta, per quanto gloriosa, può conoscere il suo autunno. Un autunno, quello del 1980, che vide cadere le foglie di un’intera cultura operaia, preparando un inverno di cambiamenti da cui sarebbe germogliato il mondo del lavoro contemporaneo.