La fine dell’eccezione spagnola
Ritratto di Santiago Abascal, leader di Vox, il partito “a destra della destra”.
Ritratto di Santiago Abascal, leader di Vox, il partito “a destra della destra”.
Q uando la Spagna gioca contro altre nazionali nessuno canta l’inno perché l’inno spagnolo non ha parole. È una composizione vecchia più di due secoli, ma i testi che si sono alternati nel tempo non sono mai riusciti ad affermarsi come definitivi. Per porre fine a questa anomalia, una decina di anni fa il comitato olimpico lanciò un concorso. Vinse un disoccupato manchego, ma quattro giorni dopo il Comitato faceva marcia indietro per non aver ricevuto sufficiente appoggio politico. Perché trovare le parole che esprimano orgoglio nazionale è un equilibrismo piuttosto difficile per un Paese che deve ancora fare i conti con un recente passato autoritario e ha una buona esperienza nel fronteggiare smottamenti politici. Solo da uno, in questi anni, era riuscito a preservarsi: la presenza di un partito di estrema destra sovranista à la Front Nacional. C’era, a dire il vero, una formazione che s’ispirava a Marine Le Pen – si chiamava, e si chiama, Vox – ma non era mai riuscita a ottenere rappresentanza parlamentare. Poi però le cose sono cambiate e “l’eccezione spagnola”, così come la definivano i giornali, è arrivata al capolinea. A dicembre, alle ultime elezioni in Andalusia, Vox ha ottenuto dodici deputati. Alla vigilia del voto le previsioni non si erano spinte oltre la possibilità che potesse ottenerne quattro.
A Santiago Abascal, fondatore di Vox, l’inno piace. Anzi, è orgoglioso del fatto che la sua formazione non si “vergogni” di farlo suonare a ogni raduno. Lo dice dall’inizio, dal 2014, quando decise di lasciare il Partido Popular per dare vita alla sua formazione “a destra della destra”. Da allora fino all’anno scorso non era inusuale passeggiare per Madrid e incontrare dei banchetti organizzati da uno sparuto gruppo di affiliati. Tuttavia, il più delle volte le loro rivendicazioni ottenevano una ricaduta mediatica limitata alle sparate del fondatore, che una volta confessò al quotidiano El Español di viaggiare sempre con una Smith Wesson in tasca; o alle trovate a effetto, come quando alle elezioni del 2015 Vox candidò il padre di uno dei fondatori di Podemos, acerrimi nemici “a sinistra della sinistra”. La stampa non vi dava molto peso perché da quelle elezioni per la prima volta si era prodotto uno stallo, ed era molto più sorprendente che, mentre in Francia il partito di Marine Le Pen sfiorava il 30% alle regionali, in Spagna Podemos, fondato solo un anno prima, fosse arrivato a un soffio dal superare la sinistra tradizionale con un 20% dei voti. Per poco non riuscì ad andare al governo in coalizione con Pedro Sánchez, leader dei socialisti, dopo che la destra non era riuscita a mettere insieme le forze necessarie. E se non andò così fu solo perché il segretario di Podemos, Pablo Iglesias, disse no. In realtà poi, Sánchez al governo è riuscito ad andarci presentando – a giugno dello scorso anno una mozione di sfiducia (poi approvata dalla maggioranza del Parlamento) – contro Mariano Rajoy e il Partido Popular, che si scoprì essere invischiato in una ramificata rete di finanziamento illecito.
Santiago Abascal e Pablo Iglesias non si somigliano per niente: capelli impomatati e barba curata il primo, lunga coda di cavallo il secondo. È più facile vedere Abascal in giacca che non Iglesias. Eppure sono quasi coetanei. Intorno al 2006, mentre il primo era tra i promotori della Fundación Danaes per la difesa della nazione spagnola, l’altro, politologo, si trovava in Sudamerica per la Fundación CEPS, un’entità di ispirazione anticapitalista. Santiago Abascal viene dall’officina del Partido Popular, Iglesias dall’università. Entrambi, quattro anni fa, hanno fondato un partito. La volata senza precedenti finora però era stata tutta a favore di Podemos che era riuscito a capitalizzare, con una strategia che ha fatto scuola, l’onda lunga degli indignados impoveriti dalla crisi che nel 2011 occuparono le piazze a favore di un rinnovamento politico. Cosa che Podemos riuscì a ottenere ponendo fine al granitico bipartitismo della democrazia spagnola, e forse, aprendo la strada a un’analoga disgregazione a destra: che per ironia della sorte avrebbe favorito gli acerrimi nemici di Vox. “Santiago Abascal è una sorta di versione beta rispetto agli omologhi europei” sostiene Jean-Baptiste Harguindeguy, ricercatore dell’Università Pablo de Olavide di Siviglia, “è più neoliberista che nazionalsocialista, il suo discorso è ancora grezzo.” Eppure i suoi sostenitori continuano a crescere.
Il partito di Abascal è a favore di misure restrittive in materia di immigrazione, contrario alle autonomie regionali e in equilibrio incerto rispetto alla tradizione franchista.
Vox si definisce un movimento per il “rinnovamento e il rafforzamento della vita democratica spagnola”. Ha circa 20.000 affiliati che pagano una quota di nove euro al mese (secondo quanto riporta El País citando fonti del partito) dei quali una metà si è recentemente riunita per far sentire la propria voce nel Palacio de Vistalegre a Madrid. Nello stesso palazzetto, Podemos, nel febbraio del 2017, vide la partecipazione di quasi lo stesso numero persone durante il secondo congresso del partito che confermò la segreteria di Pablo Iglesias. Stesso luogo – una periferia a sud della capitale – e numeri simili (sebbene la candidatura di Iglesias fosse stata votata da più di 120.000 persone). Numeri sufficienti a far registrare un risultato senza precedenti in Andalusia dove Vox ha ottenuto quasi 400.000 voti dopo 40 anni di governo della sinistra socialista. “Il caso di Vox dipende da ragioni strutturali e da alcune tendenze che sono arrivate in forma tardiva in Spagna” aggiunge Manuel Pérez Yruela, professore di Sociologia del Consiglio Superiore di Investigazione Scientifica, “la complessità dei temi da affrontare, e la crescente sensazione di incertezza fanno sì che si riattivino in ognuno di noi le pulsioni di una personalità autoritaria […] che si traduce naturalmente nel voto per formazioni come Vox.”
Riassumendo per sommi capi, il partito di Abascal è: a favore di misure restrittive in materia di immigrazione, contrario alle autonomie regionali e in equilibrio incerto rispetto alla tradizione franchista. Nella corsa a capitalizzare in chiave nazionale il risultato ottenuto alle regionali, Abascal annuncia proposte controverse come la sospensione della legge che protegge le vittime di genere, perché discriminatoria, la creazione di un muro “per niente metaforico” che difenda Ceuta e Mellilla (due città spagnole in territorio marocchino già delimitate da un’enorme e discussa recinzione con filo spinato) o l’abolizione di tutte le autonomie regionali. Secondo Yruela i voti che formano la base di Vox provengono principalmente da conservatori e astensionisti, ma ci sono studi che sostengono che vi sia anche una percentuale proveniente dalla sinistra.
Eppure fino a poco tempo fa la Spagna era ancora la terra dell’eccezione. Il paese in cui si era formato in controtendenza, con un inaspettato coup de théâtre, un Governo socialista. Lo stesso che ora ha convocato elezioni per il 28 aprile dopo non essere riuscito a far approvare la finanziaria. O almeno questo era quanto sosteneva tra gli altri il Real Instituto Elcano in una lunga analisi pubblicata nel giugno del 2017 in cui si spiega come fosse la mancanza di un orgoglio nazionale, su cui far risorgere un movimento sovranista, la ragione principale per cui i movimenti di estrema destra non avessero ottenuto rappresentazione parlamentare. Sebbene la Spagna, nel decennio 1998-2009, fosse stata uno dei paesi europei con il maggior numero di immigrati pro-capite, nel 2014 fosse tra i più diseguali d’Europa e nello stesso avesse ancora un preoccupante tasso di disoccupazione del 25%. E in effetti, fino all’anno scorso, almeno a Madrid, era molto raro vedere delle bandiere spagnole in giro, salvo durante qualche partita.
Poi però le cose sono cambiate e la città si è riempita di bandiere rosse e gialle. E Abascal, a quel punto, ha smesso di parlare ai pochi accoliti dei banchetti che si vedevano in giro ed è salito su un palco di fronte a decine di migliaia di persone. “La Spagna non si mette al voto, né si discute o vende” gridò dal palco di una delle manifestazioni a difesa dell’unità del paese in seguito alla dichiarazione d’indipendenza, poi sospesa, della Catalogna. “La questione catalana ha rappresentato senza dubbio un aggravante della sensazione di incertezza. ‘La Spagna si rompe’ si diceva” aggiunge Yruela. Riporta il cronista de El País che allora Abascal venne acclamato al grido di “presidente”. E non è un caso che la caduta del governo di Sánchez sia legata all’inizio del processo ai 12 politici e attivisti che convocarono, a dispetto delle indicazioni della corte costituzionale, il referendum sull’Indipendenza nell’ottobre del 2017. Dopo mesi di incertezze, le forze indipendentiste in parlamento gli hanno tolto la fiducia.
Fino a poco tempo fa la Spagna era ancora la terra dell’eccezione: i movimenti di estrema destra non avevano ottenuto rappresentazione parlamentare.
Il leader di Vox è nato a Bilbao nel 1976 e non è un caso che nell’intervista in cui diceva di viaggiare armato con una pistola, chiarisse di averla presa per difendere suo padre dalle minacce di ETA (il gruppo terrorista che rivendicava l’indipendenza del Paese Basco). E sa bene che la battaglia più grande per il suo partito si giocherà sulle parole: “Che cosa risponde a chi definisce Vox un partito fascista?” chiediamo a Juan Piñera, coordinatore di Vox di un piccolo centro della regione di Murcia. “È un termine che ha più di 100 anni e adesso viene usato in forma assolutamente impropria. […] Chi lo usa oggigiorno lo fa solo per cercare di associare la nostra formazione a una specie di partito dittatoriale, quando in realtà è impossibile metterlo in relazione con qualsiasi tipo di comportamento antidemocratico.”
‘Fascista’ non è certo l’unico aggettivo che viene messo sul ring e Abascal, anti-indipendentista, lo sa bene e non perde quindi occasione per alimentare il caos sulla questione catalana (denunciando per esempio l’attuale presidente). Perché la ‘patria’ è una cosa seria. “Non è la classe l’idea forte, l’ideale trascendente intorno al quale ci raggruppiamo: è la patria” Lo stesso che sostiene anche il numero due di Podemos, Íñigo Errejón, nel documentario Política, manual de instrucciones. Certo è che la patria di Podemos è tutt’altra cosa rispetto a quella di Vox, ed è perfino differente da quella immaginata in quattro frasi un po’ naif del disoccupato manchego che si era guadagnato una serie di profuse stroncature, tra cui quella della allora vicepresidente del Consiglio dei ministri “Sembra un inno del passato. Non del presente” aveva detto.
Perché il passato è differente e lo spirito del tempo alla fine ha fatto capolino anche nella terra dell’eccezione. Durante l’ultimo grande raduno di Vox a Madrid, comunque, non ha risuonato solo l’inno senza parole, ma anche grandi classici come Resistiré del Duo Dinamico, Viva España di Manolo Escobar o i Pet Shop Boys. Perché ognuno ha il suo modo di riprendersi le parole e a quel punto poco importa l’inno, a Santiago Abascal resta sempre la possibilità di far cantare ai suoi “in piedi se sei spagnolo” sulle note di Go West. In italiano la metrica non funziona, in spagnolo sì. Alle prossime elezioni vedremo fino a che punto.