L inda è una prostituta sessualmente insoddisfatta la cui frustrazione ha fine nel momento in cui scopre di avere la clitoride in gola. Deep Throat (in Italia ufficialmente denominato La vera gola profonda), pur rappresentando il primo “film per adulti” a diventare, nel 1972, un fenomeno di costume, suscitò proteste e ondate di indignazione: la sua trama, con al centro una donna pronta a elargire soddisfazione sessuale senza che fosse necessario il minimo sforzo per convincerla o per garantirne la reciprocità, gratificava precisamente il più becero ed egoistico desiderio maschile.
Tuttavia, la trama del film era destinata a passare in secondo piano rispetto alle condizioni lavorative denunciate dalla sua attrice protagonista. “Ogni volta che qualcuno guarda Gola Profonda sta assistendo a uno stupro”, dichiarò notoriamente la protagonista Linda Boreman, in arte Linda Lovelace, quando, testimoniando davanti all’Attorney General’s Commission on Pornography, sostenne di aver acconsentito a prendere parte alle riprese solo per evitare ulteriori abusi da parte del marito Chuck Traynor.
Ad accogliere le accuse di Boreman e a portarle, nel 1986, davanti alla Commission on Pornography – chiamata anche Commissione Meese – furono la giornalista Gloria Steinem e le professoresse della Columbia University Catherine McKinnon e Andrea Dworkin, femministe radicali “antiporno”, determinate ad abolire la pornografia in quanto atto di discriminazione sessuale contrario ai diritti civili. Il materiale pornografico spettacolarizzava l’oggettificazione del corpo della donna a beneficio di un pubblico pagante maschile, bianco ed eterosessuale. Nel 1981, nel suo Pornography: Men Possessing Women, Dworkin si scagliava contro il materiale pornografico, reo di ridurre il corpo delle donne a oggetto desiderabile e di rinforzare la visione di genere tradizionalmente proposta dal patriarcato. Non solo, lo scopo ultimo e deliberato della pornografia era a suo avviso quello di minare il progresso femminista.
Il movimento antiporno nasce negli Stati Uniti negli anni Settanta conseguentemente alla rivoluzione sessuale, di cui evidenzia e combatte i limiti. La delusione nei confronti della rivoluzione sessuale era del resto comprensibile: la commercializzazione e la mercificazione delle pratiche di riappropriazione del corpo delle donne, di autocoscienza ed espressione del desiderio da parte della moda come di colossi dell’editoria “per adulti” come Hustler e Penthouse aveva contribuito a gettare discredito su quelle prima intese come pratiche di liberazione. Lo sfruttamento commerciale dell’emancipazione aveva prodotto sfiducia e sospetto verso quello che veniva raccontato come amore libero e ci si chiedeva se le pratiche non monogamiche potessero realmente offrire delle possibilità di soddisfazione e appagamento anche per le donne. Come si era arrivati dalla rivendicazione di una sessualità libera alla sua mercificazione? Come si era arrivati dal femminismo a Playboy?
Come si era arrivati dalla rivendicazione di una sessualità libera alla sua mercificazione?
La disinibizione sessuale e la fine del moralismo e della repressione avevano finito per creare e mascherare una nuova forma di sudditanza per le donne in un mercato disegnato in base ai bisogni e ai desideri degli uomini. Secondo le femministe antiporno, utilizzare immagini femminili per ricavare eccitazione e piacere era un’imposizione legata al modello maschile di sessualità. Per descrivere la sorte dei corpi perfetti e patinati che apparivano sulle copertine delle riviste pornografiche, più voluttuosi e curvilinei di quelli destinati al mercato della moda ma ugualmente irraggiungibili, venivano utilizzate parole come “mercificazione”, “oggettificazione” e “sfruttamento”, termini che tuttora fanno parte della discussione femminista e che grazie all’ultima ondata sono sempre più usati anche nel linguaggio mainstream in termini di dinamiche di genere.
Nello specifico, il movimento antiporno femminista si concentra presto su proteste contro la raffigurazione della violenza sulle donne, come il caso del celebre film Snuff del 1975 in cui viene rappresentato lo stupro e lo smembramento di una ragazza, o quello della gigantografia dei Rolling Stones, ideata per il lancio del loro album del 1976, Black and Blue, e destinata a far quasi più scalpore del disco, che ritraeva una giovane donna dalle cosce spalancate, coperta di lividi e legata a una sedia con la seguente didascalia: “I’m Black and Blue from the Rolling Stones and I love it”, ho lividi blu e neri per colpa dei Rolling Stones e lo adoro. Il massimo focolaio della violenza machista secondo le femministe antiporno diventa quindi l’universo erotico BDSM, che viene equiparato alla pedofilia e alla prostituzione. A venire stigmatizzata è in primo luogo la dinamica lavorativa che sottende all’industria pornografica, che le sex worker, come le performer, vengono descritte come vittime di ripetuti casi di violenza, di abusi e di molestie sessuali, pedine spesso inconsapevoli delle ripercussioni del loro lavoro sulla sorte loro e di tutte le donne del mondo nell’immaginario collettivo. A essere condannate non erano però solo le condizioni lavorative, ma un intero immaginario erotico e un certo modo di desiderare, per cui non venivano richieste tutele o l’istituzione di misure come sindacati e assicurazioni, ma la cancellazione in blocco di tutte le professioni del sesso. La fantasia erotica della sottomissione veniva definita illecita: un prodotto malato della società machista da censurare ed eliminare.
A essere condannate non erano solo le condizioni lavorative, ma un intero immaginario erotico e un certo modo di desiderare.
Pur nella pluralità di posizioni interne al femminismo, strascichi e rivendicazioni del movimento antiporno proseguono ancora oggi e non sono mai stati veramente sopiti: si pensi al picchetto organizzato dalla NOW nel dicembre 2017, a cui era presente anche Gloria Steinem, davanti al negozio di Pornhub di Minneapolis. Esattamente come avveniva negli anni Ottanta, quando le femministe contrarie al porno cominciarono a occupare i sexy shop e a tendere agguati agli uomini appostati davanti agli scaffali con le videocassette a luci rosse.
Quanto questa posizione abbia lasciato un segno che prosegue ancora oggi si può vedere paradossalmente nel metodo di lavoro della casa di produzione Kink, una società di San Francisco fondata da un dottorando in finanza che gestisce 37 siti pornografici, quasi tutti dedicati alla pornografia alternativa, fetish e BDSM. Come spiega Emily Witt nel suo libro Future Sex (minimumfax, 2017), la società rilascia video pornografici sempre preceduti da dieci/quindici minuti di demistificazione dietro le quinte. Gli attori e le attrici godono di un’assicurazione sanitaria pagata dall’azienda e hanno a disposizione un servizio di assistenza psicologica. Prima e dopo ogni ripresa le modelle spiegano come si sentono, confermano che ciò che si sta per vedere/si è visto è avvenuto in un contesto consensuale e spesso raccontano la loro appartenenza all’universo kinky, e come le loro pulsioni sessuali siano conformi e affini a quanto mostrato sullo schermo.
La missione dell’azienda è, infatti, la demistificazione della sessualità alternativa, la cui narrazione viene normalizzata e avvicinata a un pubblico più vasto, che le conferisce un’aura di legittimità. “Qui alla Kink dicono ti faremo venire”, afferma la modella Penny Pax dopo le riprese di un video per Public Disgrace, ispirato a “donne legate, spogliate e punite in pubblico”. Come molte modelle fetish, Penny Pax si mostra entusiasta del suo lavoro alla Kink: lubrificante, assicurazione sanitaria pagata dall’azienda, profilattici, limiti personali e contratto rispettati più che in contesti pornografici tradizionali o “gonzo” o, se è per questo, più che in altri ambienti lavorativi. Nonostante queste attenzioni, in parte debitrici proprio dell’opera di sensibilizzazione portata avanti dal movimento, i prodotti della Kink continuano ad essere condannati dalle femministe antiporno, insieme a numerose associazioni cittadine di San Francisco e a gruppi cristiani fondamentalisti, in quanto spettacolo di potere esercitato sul corpo femminile.
Alle femministe antiporno indignate, altre femministe in difesa del porno e della riappropriazione del corpo, come Ellen Willis, facevano invece notare già negli anni Settanta come l’immaginario BDSM scavalchi le distinzioni di genere: la dominatrix (o mistress) femmina è spesso una figura chiave, diffusa e apprezzata da donne e uomini. Anche la narrazione pubblicitaria della Kink assegna spesso un ruolo fondamentale alla donna: la serie Bound Gangbangs, ad esempio, viene pubblicizzata come “donne che esplorano le loro più profonde fantasie”.
Il femminismo antiporno collima e a volte coincide con un femminismo antisex: è legato a una concezione essenzialista della differenza sessuale.
Ma secondo le femministe radicali antisex si tratta solo di un artificio retorico. Nonostante numerose pornostar, fra cui Gloria Leonard, Annie Sprinkle e Marlene Willoughby avessero preso le distanze da chi le descriveva come donne in ostaggio dello sguardo machista, le femministe antisex definivano prostituzione e pornografia come una tratta delle donne, un problema sistemico che non è possibile combattere dall’interno e da cui si possono solo prendere violentemente le distanze. Secondo questa posizione il sesso stesso è violenza machista, è stupro istituzionalizzato con il dominio sulle donne come fine ultimo, come sostiene Catherine McKinnon in Women Against Sex. Perché il sesso diventi una pratica sicura, piacevole e auspicabile anche per le donne bisognerà attendere un futuro femminista.
Si capisce insomma perché il femminismo antiporno collimi e a volte coincida con un femminismo antisex: il suo discorso è strettamente legato a una concezione essenzialista della differenza sessuale. Secondo queste femministe, la diversità strutturale per gli uomini e per le donne nel modo di intendere l’eccitazione e il sesso finisce per rendere per le donne offensivo, traumatico, e in alcuni casi addirittura letale, quello che generalmente viene inteso dagli uomini come piacevole e sessualmente appagante. La posizione femminista antiporno, denunciando come la rivoluzione sessuale abbia deluso le donne, deriva in ultima analisi da quell’insieme di premesse per cui la sessualità femminile e le necessità emotive femminili sono strettamente connesse e inserite nel tradizionale binarismo di genere.
L’ideologia dominante sostiene che gli uomini desiderino e cerchino sesso occasionale per il loro piacere personale e che le donne, invece, non la trovino una prospettiva attraente. In quella riconosciuta come la prospettiva femminile tradizionale figura come primaria la scelta di perseguire una relazione monogama, duratura, basata su sentimenti d’amore (e sicurezza economica) e di condivisione piuttosto che sul mero appagamento fisico. E anche per le femministe antisex il sesso è accettabile per una donna solo se fa parte di un rapporto serio, frutto di una volontà specifica di impegno e costruzione. Mostrare pratiche sessuali ed esperienze erotiche non basate su mutualità, cooperazione e reciprocità sarebbe un’operazione commerciale orientata unicamente agli uomini, poiché le donne non sono attratte allo stesso modo dall’aggressività sessuale e dalla sperimentazione.
La visione delle femministe antisex non contempla la scelta delle donne di oggettificarsi o di lasciarsi oggettificare, né come scelta professionale né, tantomeno, per semplice piacere personale. Non è prevista un’oggettificazione consapevole e autodeterminata. ll femminismo contrario alla pornografia finisce così col patologizzare il desiderio sessuale femminile, soprattutto quando eterodiretto e non convenzionalmente affine a questa narrazione. Una narrazione in cui il desiderio e il risveglio della sessualità femminile sono trattati come qualcosa di anormale e di pericoloso, perché conseguenza dell’egemonia e della violenza simbolica maschile. Alle ragazze, quindi, sono riservati romanzi rosa e le loro trasposizioni blockbuster, come la celebre saga di “Twilight”, dove il desiderio sessuale, quando è presente, è giustificato e purificato dalla promessa del vero amore e del lieto fine matrimoniale.
La narrazione unidirezionale della pornografia risulta funzionale a chi vi vuole imporre una norma, catalogando come illegittimo tutto ciò che fuoriesce da limiti prestabiliti.
In nome della causa, il movimento femminista contrario alla pornografia delinea e istituzionalizza cosa è lecito che una femminista trovi erotico, e quali pratiche una donna può ritenere piacevole o eccitante senza essere etichettata come antifemminista, nemica della altre. Ad esempio, alla morte di Bernardo Bertolucci fra i ricordi, i saluti e le celebrazioni tributate al regista, i social si sono popolati di articoli e prese di posizione riguardo la scena del coito al burro di Marlon Brando e Maria Schneider. C’è chi ha trovato necessario, ancora una volta, asserire che un certo tipo di rappresentazioni del sesso, vale a dire quelle che non si basano su mutualità, affetto e tenerezza, riguarda solo il piacere degli uomini, escludendo quindi a prescindere che anche una sola donna possa aver trovato eccitante la scena di sodomia di Ultimo Tango a Parigi, nonostante sia appurato che le fantasie di stupro esistono e facciano parte dell’immaginario erotico anche femminile.
Il punto non dovrebbe essere la scena di per sé, ma il fatto (gravissimo) che l’attrice protagonista della suddetta scena non avesse acconsentito a girarla in quei termini e che nemmeno fosse a conoscenza di cosa le sarebbe successo. Inoltre, raccontare la scena di per sé come una molestia non è solamente scorretto, ma anche controproducente, perché contribuisce a gettare ombra, screditandolo, su un abuso di potere dai contorni precisi, che non ha la soddisfazione sessuale del regista come fine ultimo. Un fatto alla luce del quale diventa evidente che la questione dei limiti da porre all’industria pornografica è la stessa che riguarda tutte le professioni e in particolare il lavoro salariato e riguarda la possibilità di riuscire a svolgere un lavoro debitamente retribuito, in un ambiente consensuale, sicuro, possibilmente piacevole e gratificante.
Il femminismo anti-porno non ha fatto molto per mitigare l’esplosione della pornografia nell’epoca video, ma ha condizionato il modo in cui le donne vedono il porno e il modo in cui ne fruiscono, viziandolo col senso di colpa e con la vergogna. Se la censura è storicamente uno strumento per ridurre al silenzio, una narrazione unidirezionale della pornografia risulta funzionale a chi, dentro e fuori dal movimento, vi vuole imporre una norma, catalogando come illegittimo tutto ciò che fuoriesce da limiti prestabiliti.
In comune con il movimento antisex nato negli anni Settanta, la rivendicazione identitaria di un certo tipo di femminismo della terza ondata ha l’immagine della donna come di una vittima sacrificale, destinata a un abbandono della castità scandito dalla sofferenza e non dalla ricerca del piacere e dell’appagamento. Per le femministe antisex, dagli anni Settanta ad oggi, il concetto di autodeterminazione è intellettualmente disonesto e semplicemente impossibile, in una società che si basa sullo sfruttamento del corpo della donna. Il risultato è che il desiderio femminile viene messo a tacere, piuttosto che utilizzato come perno da riconoscere e su cui rifondare la dialettica dei generi.