N ella celebre intervista al The Pierre Berton Show del 9 dicembre 1971, parlando della sua filosofia di vita, applicabile sia al combattere che al recitare, Bruce Lee invitava a “farsi acqua”: “Svuota la tua mente, sii senza forma, senza contorni – come l’acqua. Metti l’acqua in una tazza, essa diventa la tazza; la metti in una bottiglia, essa diventa la bottiglia; la metti in una teiera, essa diventa la teiera. Ora, l’acqua può scorrere o può distruggere.” La mancanza di forma, per il leggendario artista marziale, è l’intima potenza dell’acqua: la possibilità della trasformazione e dello scorrere, nonché quella dell’attacco. Concludeva con un esortativo e un vocativo: “be water, my friend”. Quasi a suggerire un segreto etico applicabile alla stessa vita umana nel momento in cui riuscisse ad assumere la paradossale forma dell’acqua.
Secondo l’antica lettura vedica non solo l’acqua ha la peculiare forma di contenere in sé l’assenza di forma, il suo stesso indeterminarsi, ma questa è addirittura precedente alla distinzione tra l’essere e il non essere, tra la realtà e il nulla:
Né il non-essere né l’essere allora esistevano.
Né l’aria né il firmamento lassù esistevano.
Che cosa si stava muovendo con tale forza? Dove? A causa di chi?
Era l’acqua profonda e impenetrabile?(Ṛg-Veda 10,121,1)
La caratteristica principale dell’acqua sembra essere, dunque, l’indeterminatezza tra forma e informe, tra essere e nulla, indistinzione precedente anche quella di aria e firmamento. La sua fluidità, il suo continuo scorrere.
È noto come anche la prima volta che è stato introdotto il fattore temporale nella storia del pensiero occidentale, nella forma della variabile del divenire, questa aveva a che fare puntualmente con l’elemento acqua. Leggiamo nel famoso frammento 49a di Eraclito, “Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo”. Il fiume in cui ci bagniamo non può dunque essere lo stesso proprio perché è composto d’acqua, e questa ha il particolare statuto di non essere qualcosa nello stesso momento in cui è qualcosa, cioè, di divenire costantemente. E così come l’acqua è e non è, noi stessi — esseri acquei — siamo e non siamo. Ci è impossibile bagnarci due volte nello stesso fiume, non solo a causa delle acque mutevoli del fiume, ma anche della compresenza di essere e nulla che ci caratterizza e ci rende costantemente divenienti.
A questo proposito Heinrich Zimmer, nel suo Miti e simboli dell’India, nel delineare l’importanza dell’acqua nei miti indiani intorno all’origine, ci ricorda che in sanscrito il nostro termine “è” si traduce con bhavati, cioè “diventa”, mentre il termine asti (“è”) tende a essere usato esclusivamente per formulazioni logiche. Sembra, dunque, che il sanscrito articoli la realtà, la sua peculiare ontologia grammaticale, come un unico flusso diveniente, che può essere arginato e stabilizzato solo in ambito logico. Così come il termine che
designa “il mondo”, “l’universo”, è jagat, che, derivando dalla radice gam (andare, muovere), significherebbe “ciò che si muove, il sempre mutevole”. Nel momento in cui, nella tradizione indiana del Brahma-vaivarta Purana, si amplia la prospettiva temporale — dall’apparenza del punto di vista della limitatezza temporale dell’essere umano si passa all’infinita ed eterna ripetizione dei cicli cosmici — l’operare dell’essere umano perde di consistenza e ciò che è solido si fluidifica, come delinea lo stesso Zimmer: “Con l’ampliamento della prospettiva ogni aspetto della vita cambiò di valore. Era come se le montagne, permanenti se considerate dal punto di vista della breve durata della nostra vita di circa sette decadi, dovessero essere considerate, tutto a un tratto, in una prospettiva di altrettanti millenni. Sorgerebbero e ricadrebbero come onde. Il permanente apparirebbe come fluido. I grandi traguardi si dissolverebbero sotto i nostri occhi. Ogni esperienza di valore ne sarebbe improvvisamente trasformata; la mente avrebbe grande difficoltà a riorentarsi e le emozioni faticherebbero a trovare un terreno solido” (corsivi aggiunti). Appena si passa quindi dalla prospettiva limitata e apparente dell’essere umano — limitata sia in termini temporali, che in ambito logico — alla realtà delle cose, tutto ciò che era solido si fluidifica, tutto ciò che appariva come percorso lineare, si riscopre ciclo.
Appena si passa dalla prospettiva limitata e apparente dell’essere umano alla realtà delle cose, tutto ciò che era solido si fluidifica, tutto ciò che appariva come percorso lineare, si riscopre ciclo.
Ma come ha potuto il pensiero occidentale sclerotizzare e solidificare ciò che — da una prospettiva meno limitata — risultava fluido e diveniente, indeterminazione e indistinzione di essere e nulla? Come ha potuto cadere in un tale errore e miopia dello sguardo? Come si sono potute costruire strade e percorsi, dove ovunque l’esistente costantemente straborda? Un grande eracliteo come Hegel — è lui stesso a comunicarci che non c’è nessuna frase del pensatore di Efeso che non sia contenuta nella sua logica — ci descrive proprio il divenire come il movimento creato dal rapportarsi di essere e nulla all’inizio della sua Scienza della logica. Essi, nella loro indeterminatezza originaria, sembrano risultare identici. Ma, se Eraclito mantiene la coincidenza tra essere e nulla nel “noi stessi siamo e non siamo”, Hegel, una volta affermata la loro identità nella mancanza di determinazioni, ha premura di distinguerli immediatamente, usando la terminologia del dileguare reciproco. Essere e nulla, in quanto massimamente indeterminati, sono per Hegel lo stesso a livello logico, ma sembrano essere fermamente e reciprocamente dileguantesi l’uno all’apparire dell’altro in ambito ontologico.
Ci dice Hegel nel noto passaggio della sua logica: Il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, non
passa, — ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch’essi non son lo stesso, ch’essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta.(corsivo aggiunto). Hegel riconosce sì la coincidenza di essere e nulla. Ne delinea la somiglianza: il fatto che entrambi siano accomunati da una mancanza di qualsiasi determinazione, che siano indeterminati. Ma, nel momento in cui li accomuna arrivando a dire che sono lo stesso, li distingue. Li contrappone. Li considera come poli opposti, assolutamente diversi, e li fa sparire l’uno all’apparire dell’altro. A-poria, mancanza di strada e di passaggio che Hegel deve assolutamente risolvere, ambiguità che viene notata anche nella storia dell’hegelismo (ad esempio da Spaventa a da Trendelenburg). Solo arginando questa aporia, Hegel può costruire il terreno per la sua strada sicura e dai rigidi argini, la dialettica.
Se dunque la Rgveda ed Eraclito fondano l’indistinzione di essere e nulla nella fluidità dell’acqua, Hegel fonderà le polarità dialettiche separate ed escludentesi dell’essere e del nulla nella terra, cioè nella forma, nel percorso, nel tracciato sulla terraferma. Se ci fosse indeterminazione acquea delle polarità dialettiche — le cui fondamentali sono l’essere e il nulla, da cui tutte le altre derivano — non ci potrebbe essere l’attrito della terra e nessuna via potrebbe essere percorsa. Nel fluido manca, cioè, l’attrito terrestre, la negazione determinata. L’acqua si muove, costantemente e inevitabilmente, ma non attraverso un percorso, un processo. L’acqua si muove strabordando. E questo è il terrore dei costruttori di dighe e di percorsi: il suo strutturale movimento sparso.
Ne è emblema Aristotele, che non può accettare il discorso eracliteo, altrimenti l’indistinzione porterebbe al caos, logico e ontologico: “E il discorso di Eraclito, secondo cui tutte le cose sono e non sono, pare che le renda vere tutte quante” (Aristotele, Metafisica). Tutte le cose non possono essere e non essere allo stesso tempo, altrimenti sarebbero tutte vere, verrebbe meno il criterio da cui criticare e giudicare: il piano ontologico si sposta immediatamente verso quello logico, e sembra che il mantenimento della verità di quest’ultimo — basantesi sugli assiomi fondamentali di identità e non contraddizione — si retroproietti su quello ontologico. Non è logicamente possibile pensare oltre la non-contraddizione e, dunque, anche il reale non potrà che essere cristallino e definito. La nostra limitatezza logica e gnoseologica si fa immediatamente perimetro ontologico. Altrimenti tutte le cose sarebbero vere, si perderebbe la terraferma, il rifugio sicuro su
cui porsi e giudicare. E che tutte le cose possano essere vere, è proprio quello strabordare acqueo che deve venire perimetrato da dighe e sponde. E si sa — come il frammento 14, (A22) di Eraclito riportato da Clemente Alessandrino — “i porci prendono piacere dal fango piuttosto che dall’acqua pura”. Ciò che Aristotele cerca di perimetrare attraverso l’identità e la non contraddizione, viene invece dichiarato affermativamente da Platone. Nel momento del famoso parricidio del padre dell’ontologia antica, Parmenide, Platone ammette infatti che in ogni essere scorre come un ruscello la sua stessa alterità, il suo stesso non essere. Scrive così nel Sofista, 256d: “Risulta che c’è un essere del non-essere, così per il movimento come per tutti i generi, giacchè in tutti i generi l’alterità, che rende ciascuno di essi altro da sè, fa un non-essere dell’essere di ciascuno: sicchè correttamente diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e partecipano dell’essere”. Nel centro della speculazione ontologica platonica viene dunque affermata quella coincidenza di essere e non-essere tipico della fluidità acquatica, quello strabordare dal proprio perimetro identitario in favore della alterità, che Aristotele cercherà fermamente di contrastare.
La nostra limitatezza logica e gnoseologica si fa immediatamente perimetro ontologico.
La stessa suggestione viene proposta in maniera cristallina dal taoismo nello Zhuangzi: “Ogni essere è altro da sè e ogni essere è se stesso” (Zhuangzi), andando a spezzare le rigide maglie dei principi di identità e non contraddizione, che vengono a relativizzarsi in filosofie distanti da quelle sviluppatesi in Occidente.
E proprio per il taoismo l’acqua sarà l’elemento fondamentale, l’emblema della sua peculiare ontologia, di cui la citazione di Bruce Lee si fa esemplificazione e divulgazione. Già Lao Tzu paragona il Tao — lo spontaneo fluire di tutto l’esistente, il corso universale delle cose — all’acqua: “Il grande Tao scorre ovunque / verso sinistra e verso destra. / Ama e nutre tutte le cose, / ma non si comporta da padrone nei loro confronti” (Lao Tzu, Tao Te Ching, XXXIV). O ancora, “Il sommo bene è come l’acqua: / l’acqua ben giova alle creature e non contende, / resta nel posto che gli uomini disdegnano. / Per questo è quasi simile al Tao” (Lao Tzu, Tao Te Ching, VIII).
Il corso dell’acqua esemplifica, dunque, nel taoismo, lo scorrere di tutto ciò che esiste, quel paradossale “ordine spontaneo” che il taoismo chiama “li”. L’acqua non comanda e non compie una resistenza monolitica, bensì asseconda il suo stesso fluire, eppure non esiste nulla di più forte, attraversa le cose ma non le governa: “La cosa più molle al mondo si precipita contro la cosa più dura al mondo. Niente al mondo è più molle e debole dell’acqua; ma nell’avventarsi contro ciò che è duro e forte, niente può superarla. Senza sostanza, essa penetra in ciò che non ha interstizi. La cosa diventa facile per essa grazie a ciò che non esiste”. (Lao Tzu, Tao Te Ching, XLIII). L’acqua, proprio a causa della sua debolezza, cioè al suo diveniente indeterminarsi di essere e nulla, riesce a erodere le rocce e a spazzare via argini e confini.
L’acqua per il taoismo ha a che fare anche con il caos primordiale da cui si è generata la forma e il cosmo. Secondo la Encyclopedia of Taoism, “i diversi termini che connotano il Caos originario contengono l’indicatore semantico ‘acqua’ (shui) o ‘vegetazione’ (cao), in accordo con l’affermazione che paradossalmente c’è qualcosa in questo nulla — i primi segni o germogli del mondo” . Anche nella tradizione taoista, dunque, sembra che l’acqua abbia a che fare con quel momento di indistinzione primordiale, in cui nulla ed essere cadono insieme, in cui il caos e l’acqua sono strettamente affini.
L’acqua per il taoismo ha a che fare anche con il caos primordiale da cui si è generata la forma e il cosmo.
E indistinzione primordiale significa immediatamente che l’origine non è un lembo di terra a cui far ritorno o da bramare nostalgicamente, bensì è un vortice, che continua costantemente ad operare e agire. Laddove viene meno l’archè — nel suo duplice significato di principio e di comando — non solo non si dà più nulla di originario che non vortichi costantemente nell’attuale, ma anche il governare si disattiva dall’interno, come consigliava Lao-tzu agli imperatori: “governa un grande paese come cucineresti un pesciolino: con leggerezza”. Per il taoismo i due poli dell’energia cosmica, lo Yang (il positivo) e lo Yin (il negativo) non sono solo cooriginari e indispensabili l’uno all’altro, ma sono inseparabili: la chiave della loro relazione viene chiamata hsiang sheng, ovvero “sorgere reciproco” o “inseparabilità”. Sempre seguendo Lao-tzu, “Essere e non essere sorgono simultaneamente; difficile e facile si realizzano reciprocamente” (Lao-tzu). Il rapporto tra il negativo e il positivo non viene esemplificato tramite la semantica della guerra e della contesa — lo scomparire reciproco al comparire dell’altro, così come voleva Hegel nella Scienza della logica — bensì attraverso quella di un inestricabile abbraccio di amanti.
Come osserva Alan Watts, “tuttavia è difficile, nella nostra logica [occidentale], vedere che l’essere e il non essere sono reciprocamente generativi e reciprocamente di sostegno […] Non afferriamo facilmente il fatto che il vuoto è creativo, e che l’essere viene dal non essere come il suono dal silenzio e la luce dallo spazio” (Alan Watts, Il Tao, La via dell’acqua che scorre). Inoltre, sempre Watts sottolinea come nella relazione del sorgere reciproco, dello hsiang sheng, si descrive “un ciclo nel quale causa ed effetto non sono sequenziali ma simultanei. Le forze sono così interdipendenti che l’una non può esistere senza tutte le altre proprio come non può esistere Yin senza Yang”. Che la causa e l’effetto siano simultanei porta al paradossale risultato che non ci possa essere una linearità nell’azione, un primo che causi un secondo, ma questa si pieghi e inizi a funzionare a vortice. Lo stesso simbolo delle polarità Yin e Yang – il T’ai chi tu – presenta al centro della parte maggiore di ogni goccia (mogotama), un punto del colore del mogotama opposto. Ad indicare non solo la distinzione formale della polarità, ma la loro indistinzione reale anche e proprio nel loro stesso intimo.
Come ci delinea Isabelle Robinet nel suo Storia del taoismo, “lo Yin e lo Yang non possono veramente essere definiti, come si fa talvolta, perchè sono linee di forza, direttrici che hanno la proprietà di intersecarsi e aggrovigliarsi, di agire l’una con l’altra, al fine di generarsi e darsi impulso, di annullarsi e alternarsi, con la funzione di tracciare una doppia struttura della polarità e dell’ambiguo”. Sembra, dunque, che, anche nel taoismo, tutto ciò che esiste consista in un’indistinzione e una coincidenza di essere e nulla, di causa ed effetto e, proprio per questo, tutto si rende fluido e diveniente, mescolanza di polarità: lo stesso termine Tao, pur nella sua infinita stratificazione semantica, ha a che fare con lo scorrere della corrente.
Inoltre, se in Aristotele il primo motore immobile — quel qualcosa che sta a principio e fondamento di tutta la catena delle cause e dei movimenti — era forma pura e atto puro, non sporcato di materia, di potenzialità e di mancanza, e a cui veniva assegnato un valore teologico, l’acqua, al contrario, sembrerebbe essere una materia pura, mai definitivamente formabile, o attualizzabile. Ma in una maniera peculiare. Sembra essere materia in sè intimamente già carica dell’infinità delle forme, alla maniera in cui la intendeva Giordano Bruno, ad esempio in De la causa, principio et uno, parlando della “sostanza delle cose” e del Principio primo: “è talmente forma che non è forma; è talmente materia che non è materia; è talmente anima che non è anima: perchè è il tutto indifferentemente, e però è uno, l’universo è uno”. L’acqua non nega la forma, non si pone in contrapposizione dialettica ad essa, non cerca un esodo e una trascendenza al di fuori di essa. Piuttosto, cedendole costantemente, ne disattiva la forza e la rigidità. L’acqua non distrugge la forma. Piuttosto, la assume costantemente. E, così, la esautora della sua forza costrittiva. Così come i personaggi dei romanzi di Robert Walser, assumono i più disparati impieghi e lavori ma non si identificano in nessuno di essi. E facilmente se ne liberano e passano oltre, continuando a passeggiare nei giardini dell’esistenza. Come l’acqua, assumendoli ne disattivano gli argini e la cristallizzazione. Il tardo Buddhismo non pensava a qualcosa di molto diverso, quando nello Hridaya Sutra viene scritto che “Ciò che è forma è proprio ciò che è vacuità, e ciò che è vacuità è proprio ciò che è forma”.
Il rapporto tra il negativo e il positivo non viene esemplificato tramite la semantica della guerra e della contesa bensì attraverso quella di un inestricabile abbraccio di amanti.
Come suggeriva inizialmente Bruce Lee, la posta in gioco dell’etica e della politica occidentale a venire sta nel tornare a prendere in considerazione la consistenza acquatica di noi stessi e del mondo. Per questo, un’ontologia dell’indistinzione e della coincidenza di essere e nulla è non solo richiesta in termini teoretici per disattivare quelle dighe e perimetri tramandati dal pensiero occidentale — di cui Aristotele e Hegel sono i protagonisti principali —ma viene a rappresentare un’esigenza per un ripensamento radicale dell’etica e della politica, in un momento in cui le categorie tradizionali mostrano tutta la loro debolezza e mancanza di presa trasformativa. Essere senza forma, senza configurazione nè identità assumendole tutte, fluire tenendo in considerazione i vortici e le forze, ma anche saper scrosciare violentemente come acqua da una cascata o in un fiume in piena. Questo è quello che Bruce Lee lascia a noi come compito, teoretico e pratico. Siate acqua, amici.