D
a oggi è in libreria il libro dell’economista Emiliano Brancaccio Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano). Nel libro è contenuto un dialogo con Elisa Cuter (una degli editor di questa rivista), di cui riportiamo un estratto.
Elisa Cuter: Un tempo si diceva “fuck for peace”, che in versione edulcorata e pubblicabile divenne “make love, not war” grazie a un’intuizione di Penelope Rosemont e altri attivisti, e poi fu riciclato in diverse varianti, tra cui la più hippy probabilmente era “put flowers in your guns”. Questi slogan ebbero un enorme successo mondiale alla fine degli anni Sessanta, nel pieno delle proteste contro la guerra in Vietnam. Viceversa, oggi non sono soltanto dei motti sbiaditi, sono proprio indicibili. Nemmeno il più gretto censore perderebbe tempo a passarci il bianchetto, visto che appaiono talmente assurdi che nessuno oserebbe farli entrare nel gergo pacifista. Insomma, mettere la liberazione dell’amore contro la schiavitù della guerra prima funzionava e adesso proprio no. Questo cambiamento mi pare un fatto rilevante, che rende la questione non di costume ma proprio politica, nel senso che sembra cogliere un mutamento storico essenziale. Quindi voglio domandarti: perché oggi anche solo sussurrare lo slogan “make love, not war” sembra un anacronismo senza senso, una roba da pazzi?
Emiliano Brancaccio: Perché all’epoca tutti mettevano il naso per aria e sentivano l’odore seducente della “rivoluzione”. Oggi la sensazione generale è che l’aria sia stata ripulita, sia diventata asettica, immune al morbo rivoluzionario. Questa sensazione non descrive necessariamente la realtà, eppure è reale: è una “evidenza”, nel senso ideologico che ci ha spiegato Althusser. La specificità dell’ideologia è esattamente quella di imporre senza averne l’aria, poiché presenta le “evidenze” come cose che non possiamo negare, di fronte alle quali ci viene solo di esclamare: “è evidente: la rivoluzione è impossibile”. Proprio da qui nasce quell’onda soffocante di scetticismo che oggi ci porta a vedere nel futuro solo decadenza, e riduce al rango di follia qualsiasi prospettiva di lotta rivoluzionaria per il progresso del genere umano. Edward Carr ha etichettato questo atteggiamento di sprezzo verso la lotta per il progresso come “elitismo”, nel senso che il diffondersi di un tale clima tra le masse aiuta la classe dominante a preservare i rapporti di potere esistenti. Il risultato è che ogni ipotesi di progresso attraverso il rovesciamento sociale viene ridotta al rango di assurdo. Anche il mutamento storico che tu giustamente segnali rientra in questo cambio generale di scenario. Tanto più nel caso di “make love, not war”, uno slogan idealistico solo in apparenza, come del resto molte cose hippy. In realtà, quel motto rappresentava la forma espressiva di un tentativo di rivolta materialista, tra i più personali e al contempo più politici di tutti: usare la tentazione dell’eros per istigare i sensi dei soldati alla diserzione, contro le cartoline di precetto militare e più in generale contro la riduzione delle carni a ingranaggi del meccanismo che è alla base della guerra capitalista. Carni proletarie, non dimentichiamolo. Perché a morire in guerra ci va sempre la classe lavoratrice.
EC: (…) il movimento del capitalismo porta inevitabilmente all’accentramento di capitale e dunque di potere, in un perfetto circolo vizioso nel quale le due cose continuano ad alimentarsi a vicenda, fino a precipitare nella guerra. Come disponibilità economica e potere politico si sposino perfettamente lo dimostra anche il modo in cui le aziende si fanno portatrici di valori emancipativi. A lungo ho pensato si trattasse di una semplice “strategia di marketing”, un modo di ampliare il bacino dei consumatori (e dei lavoratori) “includendo” anche quelle fasce di popolazione che erano escluse dal sistema produttivo. Un modo per vendere di più, insomma. Oggi invece ho la sensazione che il cosiddetto “capitalismo woke” di cui parla Carl Rhodes, più che al fine del profitto immediato, risponda, più o meno inconsciamente, all’ideologia della classe dominante, che ha bisogno di credere nei valori di libertà e inclusione per costituirsi come blocco coeso impegnato in “guerre giuste”, “guerre di civiltà”, e così via. Oggi, per esempio, molte persone sensibili ai temi dell’emancipazione civile e sessuale sembrano sedotte dall’idea di un Occidente in guerra contro i nemici della libertà.
EB: Sì. Oggi proviamo orrore verso il patriarcato della teocrazia iraniana o verso l’omofobia del governo russo. Giustissimo, ma questo sentimento porta molte persone sensibili ai temi dell’emancipazione civile ad avallare in modo quasi automatico, direi pavloviano, la guerra occidentale contro quei regimi. In sostanza, siamo ripiombati nella propaganda americana sull’esportazione della democrazia e della libertà a colpi di cannone, che ha provocato disastri e centinaia di migliaia di morti nel mondo, dall’Afghanistan all’Iraq, e alla fine non ha esportato un bel niente in termini di libertà civili. E qui emerge un’altra fondamentale differenza tra quel che accade nel nostro tempo e ciò che avveniva negli anni di “make love, not war”. In quel periodo si verificava un fenomeno per certi versi opposto. I movimenti di emancipazione dall’ordine costituito della sessualità, degli affetti, dei rapporti tra i generi, combattevano l’imperialismo americano e occidentale e si affratellavano ai movimenti anti-coloniali dei popoli dei paesi più poveri. Ovviamente, i popoli dei paesi che andavano emancipandosi dal colonialismo erano spesso arretrati anche dal punto di vista dei diritti di libertà, ed erano quindi distanti anni luce dalle istanze di rivendicazione dei movimenti di emancipazione sessuale. Eppure, in questo raccordo d’intenti non si ravvisava nessuna contraddizione particolare, le due lotte non venivano mai messe l’una contro l’altra. Anzi, coesistevano e si unificavano. È una differenza enorme rispetto all’epoca attuale, in cui vediamo i movimenti di emancipazione spesso in prima linea a sostenere la guerra contro i nemici dell’occidente. Questa colossale diversità tra allora e oggi non è stata finora indagata da nessuno, eppure si tratta di una questione rilevante per catturare i mutamenti generali dello spirito del tempo. (…) Su questo penso che dobbiamo essere epistemologicamente netti: una spiegazione decisiva del cambio di posizionamento dei movimenti di emancipazione tra gli anni Sessanta e la fase presente sta nel mutamento delle condizioni di riproduzione del profitto, una volta venuto meno il pungolo della minaccia sovietica. Quella minaccia agiva su due fronti, uno strutturale e l’altro ideologico. Da un lato, il meccanismo capitalistico era imbrigliato dagli accordi di Bretton Woods, dai controlli sui movimenti internazionali di capitali, dalla regolazione concordata dei commerci, e così via. Vale a dire, il pericolo comunista aveva sospinto l’occidente capitalistico a creare un sistema di regolazione degli squilibri economici internazionali che era politico e non di mercato, e che proprio per questo, pur tra mille contraddizioni e precarietà, aiutava a frenare le tendenze alla centralizzazione dei capitali e i rischi conseguenti di precipitazione bellica. Dall’altro lato, l’esistenza concreta di un pericolo “rosso” consentiva a tutti i movimenti per l’emancipazione, anche quelli avversi al sovietismo, di situare la loro lotta in una prospettiva comunque “rivoluzionaria”, di rovesciamento generale del sistema, e quindi ben oltre i canoni ristretti delle democrazie liberali capitaliste. È chiaro che oggi non c’è più nulla di tutto questo, né da un lato né dall’altro. Il sistema di regolazione dei rapporti internazionali che originava dal pungolo comunista è stato smantellato. Di conseguenza, i capitali lottano come in una giungla, gli squilibri economici diventano insostenibili e alla fine l’ingranaggio della guerra si mette in movimento, inesorabile e senza freni. E in uno scenario deprivato di qualsiasi opzione rivoluzionaria, l’ideologia che legittima la guerra come “guerra per l’emancipazione” sembra l’unico orizzonte possibile per i movimenti per i diritti. È un abbaglio, ovviamente. Ma è pervasivo, e sta accecando un po’ tutti.
EC: L’ingranaggio strutturale della guerra ha dunque oggi a che fare solo con la competizione tra capitali, e contro le apparenze è del tutto indifferente a qualsiasi istanza di emancipazione civile.
EB: Esatto. Per afferrare il punto, basta guardare le nazioni con cui i paesi occidentali e le stesse aziende “woke” fanno tranquillamente affari. C’è di tutto: governi omofobi, misogini, teocratici, finanziatori della cosiddetta “guerra santa contro gli infedeli”, e così via. Prima che gli squilibri economici internazionali diventassero insostenibili e gli Stati Uniti elevassero barriere commerciali per proteggersi, tra i partner d’affari dell’occidente mettevamo tranquillamente pure la Russia omofoba e l’Iran teocratico. Insomma, se guardiamo bene come stanno le cose, questa idea della guerra come crociata occidentale per le libertà civili è una totale mistificazione. Silvia Federici, al riguardo, ha correttamente osservato che Stati Uniti e NATO attuano verso i principi di democrazia e libertà una “difesa selettiva”. È esatto. E il motivo di fondo è che la linea delle alleanze strategiche dell’occidente si traccia sempre e solo in base alle dinamiche capitalistiche, ai rapporti di credito e debito, alle momentanee convenienze degli affari, e mai in base al grado in cui vengano rispettate oppure no determinate istanze di emancipazione civile. Volendo ridurla nuovamente in slogan, potremmo dire questo: hanno ribaltato il vecchio grido “make love, not war” e in un certo senso l’hanno trasformato, in un agghiacciante “make war in order to make love”! Questo nuovo imperativo occidentale è una palese falsità, è solo un modo estremamente rozzo per tener vivo il calderone della propaganda bellica. Eppure, molti si lasciano ammaliare da questa narrazione ideologica da novelli Stranamore, e sembrano incapaci di notare le sue immani contraddizioni. Soprattutto, sembrano incapaci di rendersi conto che proprio l’imporsi di una logica da “guerra capitalista” affossa le lotte di emancipazione, e rischia di costituire un boomerang anche per gli scampoli di libertà formale che ancora vantiamo nei paesi più avanzati d’occidente. Per usare una parafrasi marxiana, potremmo dire che, soprattutto in tempi di guerra capitalista, le condizioni materiali dell’esistenza stanno determinando la nostra “in-coscienza”.
EC: Un ottimo esempio di questa situazione è il femonazionalismo, un fenomeno che ha analizzato Sara Farris e che altrove ho definito “il pinkwashing delle destre”. Penso anche al rainbow washing che Israele ha intensificato pesantemente dopo l’attacco di Hamas, nella speranza di legittimare la sua reazione anche con l’immagine di “unica democrazia del medio oriente”. È chiaro che di fronte a queste narrazioni molti vadano in confusione, soprattutto dopo decenni in cui la stessa sinistra occidentale si è fatta portavoce di battaglie ideali contro la discriminazione perdendo di vista il piano materiale. Faccio notare che insistere sulla centralità di questo piano non vuol dire ricadere nel tanto vituperato “riduzionismo di classe”, quanto al contrario significa opporsi proprio alla riduzione a un piano morale di quelle che sono oppressioni sistemiche, prodotto inevitabile del sistema di produzione. In questo senso non si può continuare a parlare di democrazia o di libertà come concetti astratti, serve tornare a citare Horkheimer quando ammoniva: “Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo”, e l’anticapitalismo non può essere generico o idealista, ma appunto ben piantato nel materialismo. Per questo trovo che sia importante tornare a parlare della differenza tra libertà sostanziale e formale, come tu hai fatto. Dimostrare cioè che le libertà formali promesse dal capitale siano inaccessibili a tutti coloro che non dispongono di libertà sostanziale. Ma è importante quando si fa notare questo inghippo non porsi come preti che propongono ideali monastici (Ida Dominjanni e Elettra Stimilli hanno fatto un grandissimo lavoro dimostrando quanto questa retorica si attagli perfettamente ai governi tecnici che hanno promulgato l’austerity, come forma di contrizione e espiazione da opporre solo nella facciata ai “bagordi” del capitalismo neoliberista degli ultimi decenni del Novecento). Né bisogna andare in cerca di una qualche “autenticità” di piaceri “semplici”. Serve piuttosto fare leva sulle contraddizioni intrinseche tra le promesse del modello economico in cui viviamo e l’oggettivo impoverimento collettivo, in tutti i piani in cui questo si manifesta. Un modello teorico che ragiona su tali contraddizioni interne al capitale è la “teoria della riproduzione sociale”, che integra Marx con la consapevolezza che l’estrazione di plusvalore non riguarda solo la sfera della produzione ma anche quella della riproduzione della forza lavoro e della natura – sia intesa in senso procreativo sia intendendo tutte quelle pratiche di autoconservazione come dormire, mangiare, eccetera. Questo approccio mostra l’ennesima contraddizione alla base del capitalismo: la riproduzione della classe lavoratrice e della natura è un fine opposto al profitto, rappresenta sia una sua necessità che un suo limite. Questa mi sembra proprio la stessa linea di ricerca che da tempo tu e i tuoi coautori avete ulteriormente sviluppato in quella che definite una “legge di riproduzione e tendenza” del capitalismo, e a cui voi avete dato sbocco delineando un crocevia terrificante: “Catastrofe o Rivoluzione”. Sulla catastrofe sociale, ecologica e persino militare, avevate visto giusto, ormai ci siamo dentro fino al collo. Manca all’appello l’altro corno del bivio, la rivoluzione in tutte le sue possibili forme: civile, sociale, sessuale, affettiva.
EB: Quel crocevia “terrificante”, come l’hai opportunamente definito, muove da una constatazione: questa che viviamo può essere interpretata come una nuova epoca di “distruzione della ragione”. György Lukács ha magistralmente spiegato che tra fine Ottocento e inizio Novecento, durante la prima fase di affermazione del capitalismo imperialista, si impose una filosofia definibile “irrazionalista”, che stabiliva un’idea di inconoscibilità razionale dei moti della storia umana, in aperta contrapposizione al grande proposito scientifico di Marx, di scoprire le “leggi di movimento” del processo storico. Questa visione irrazionalista trae spunto già da Schelling, si manifesta nel modo più smaccato in Spengler e trova poi il suo sbocco finale nella mistica nazista tra le due guerre mondiali. Lukács sostiene che questa deriva irrazionalista si impose come ideologia prevalente perché funzionale a una borghesia diventata parassitaria e guerrafondaia, ormai espressione del capitalismo novecentesco, monopolistico e imperialista, e dunque non più in grado di giustificare il suo dominio sulla società in base all’idea che fosse l’unica classe capace di incarnare il progresso umano. Per una borghesia dominante ma in crisi, dunque, l’ascesa dell’irrazionalismo diventava una barriera ideologica contro la possibilità di intendere l’avanzata del movimento operaio e la prospettiva del socialismo come stadi ulteriori del progresso sociale, nuovi passi della storia umana dettati dalle sue stesse leggi di movimento. Ora, è piuttosto evidente che la descrizione proposta da Lukács, del degrado della classe dominante e dell’ideologia irrazionalista prevalente, si attaglia perfettamente al nostro tempo, forse in modo persino più lampante che al suo. Siamo cioè più che mai in un’epoca di sfiducia nel progresso futuro e quindi di facile dominio “élitista”, per riprendere l’espressione di Carr. In questo senso, il nostro lavoro di raccolta di prove scientifiche a sostegno di una tendenza mondiale verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani ha un duplice scopo: da un lato mostrare che la classe dominante è oggi più monopolista e parassitaria che mai, e dall’altro riabilitare il concetto marxiano di “legge di movimento” della storia, contro le fumosità dell’odierno irrazionalismo. Rispetto al tempo di Lukács, però, sussiste oggi una differenza cruciale. L’accumulo di evidenze a sostegno di una “legge” di tendenza verso la centralizzazione del capitale, e quindi anche verso la monopolizzazione dei mercati e la guerra imperialista, avviene nell’assenza di un movimento in grado di far tesoro di questo fatto scientifico e di tramutarlo in un rovesciamento politico. Manca cioè un’intelligenza collettiva organizzata (…).