

I n una delle sue poesie più cupe, non a caso titolata Darkness, lord George Gordon Byron scrive:
E gli uomini nel terrore di questa desolazione
Dimenticavano le passioni, mentre i loro cuori
Raggelavano in un’egoistica preghiera di luce.
Essi vivevano accanto a fuochi accesi: i troni,
I palazzi di re incoronati, le capanne,
Le dimore e i rifugi di ogni tipo
Erano bruciati insieme alle città per aver luce,
E gli uomini si raccoglievano attorno alle case in fiamme
Per guardarsi ancora una volta in viso.
Nel solco delle scienze climatiche oggi parleremmo di “evento estremo” e bolleremmo come complottisti i contadini convinti dell’imminente apocalisse. Eppure non muterebbe il senso di fine che ci attanaglia ancora di fronte a sconvolgimenti imponderabili. Tanto più che quello in cui viviamo, a dispetto di ogni avanzamento tecnico-scientifico, è un mondo totalmente immerso nelle catastrofi. Partire dalle parole di Byron ci aiuta allora nel tentativo di mettere a fuoco quello che sembra essere il senso profondo dell’epoca presente. Non può non colpire infatti che quell’Ottocento delle nazioni, degli imperi coloniali, della tecnica e delle rivoluzioni iniziasse proprio con un evento apocalittico. Il vulcano Tambora battezzava il mondo che veniva: la modernità nasceva sotto le nubi della catastrofe.
Epifanie catastrofiche
Ora, nel nostro tempo osserviamo un’accelerazione con cui si danno fenomeni drammatici a ritmo serrato e, davanti ad essi, si diffonde un senso di straniamento e impotenza generalizzata. C’è difficoltà a comprendere il reale e ancora di più ad agirlo, eppure l’impotenza sembra essere dovuta non tanto all’impatto dei fenomeni quanto a una sorta di disabitudine al mondo che è propria di un Occidente tardocapitalista in una fase di senilità. Risvegliate da un sonno trentennale che si voleva post-storico, queste società si sono riscoperte gabbie d’acciaio fragili e totalmente distruttive. Proprio la catastrofe quale segno del tempo potrebbe allora indicarci una via d’uscita da questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e sospensione normativa di cui eravamo dimentichi. Secondo definizione scientifica, infatti, catastrofe è l’evento che irrompe in un sistema ordinato sparigliandone le carte, produce una sospensione della norma al cui interno si danno possibilità di mutamento di quello stesso sistema originario ormai spezzato.
Proprio la catastrofe quale segno del tempo potrebbe indicarci una via d’uscita da questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e sospensione della norma.
Come la frontiera del western si è data a suo tempo quale luogo dell’immaginario in cui il capitalismo individualista (e poi le resistenze ad esso) metteva in scena la propria ascesi mitologica, oggi la catastrofe fa da ribalta per un’Occidente al tramonto. È in atto da decenni un’opera di occupazione preventiva di questo immaginario, attraverso il riadattamento dei mitemi stessi del mondo che muore: la figura dell’audace eroe con le sue armi, la famiglia nucleare come unico ambito degno di salvezza, l’hobbesiano stato di natura dell’homo homini lupus che sottende a ogni sospensione normativa.
Eppure sono possibili, si sono operati rovesciamenti di significato, possibili forme di resistenza alla colonizzazione imperiale dell’immaginario. Bisogna sottrarre la catastrofe alle passioni tristi. Il perturbamento delle rovine, siano tracce di passato nelle città o futuri proiettati sullo schermo, ci parla di qualcosa che se accadesse davvero metterebbe a rischio non solo routine e certezze assodate ma probabilmente la nostra stessa vita, e noi la rifuggiamo per istinto di sopravvivenza. Eppure nel suo consumo immaginifico esorcizziamo la paura e accarezziamo il sogno proibito di veder finire il nostro tempo-mondo, fuggire dalle gabbie della produttività nella precarietà della catastrofe.
Finché l’esorcismo è consumo, però, si conclude in sé stesso. La catastrofe è allora anzitutto uno specchio in cui riflettersi e osservare, nell’ombra di rovine futuribili, lo spaventoso senso di smarrimento che pervade le pieghe del quotidiano. La catastrofe, suggeriva Calvino, è ogni giorno in cui non accade nulla. Il mondo è finito ieri.
Una fine che vorremmo cinematica
Questo senso di ovattata disperazione è il rumore di fondo di una delle opere postapocalittiche meglio riuscite: il romanzo La strada (2006; trad. it 2007) di Cormac McCarthy, poi tradotto in pellicola dal regista John Hillcoat. La storia segue l’errare di un uomo con suo figlio tra le macerie di quelli che furono gli Stati Uniti, muovendosi verso sud in cerca del mare e della fine di un inverno che ferisce, combattendo i morsi della fame e fuggendo dalla minaccia di uomini che la stessa fame rende predatori. Non conosciamo il nome dell’uomo né quello del bambino, sappiamo che l’unico scopo del primo è la sopravvivenza del secondo, una sopravvivenza che non è legata solo all’assillante bisogno fisiologico ma soprattutto alla conservazione di un senso d’umanità, sempre più flebile in un panorama di morte.
La catastrofe è ogni giorno in cui non accade nulla.
Il tempo del romanzo, scritto nel 2006 e filmato tre anni dopo, è un futuro che è già avvenuto: il guscio vuoto che è diventato la Terra, con il suo sole oscurato dalle ceneri e alberi morti che cadono tra le braci fredde di incendi quasi estinti, richiamano da vicino gli incendi che devastano l’Australia, la Siberia o la California. Quello di Palisades, a proposito, era un incendio “cinematico”. Così il carrello della spesa con cui i due trasportano le loro magre risorse, i vestiti stracciati che indossano, sono i carrelli e gli stracci che popolano le migliaia di accampamenti di homeless dentro e fuori metropoli come Los Angeles.
La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi. Le bande di predoni pronti a divorare il prossimo, con le loro armi raffazzonate, i mezzi di fortuna e la fame furiosa negli occhi, rievocano le avanguardie reazionarie di un’America profonda, incattivita, in cerca di un riscatto dal declassamento e che, fuor di trama, hanno trovato in Trump il proprio sovrano. Le frasi non dette e i pochissimi e scarni dialoghi sono i resti essenziali della parola dentro un silenzio che quotidianamente non possiamo sentire solo perché occupato da vortici di voci superflue.
L’apocalisse di McCarthy la portiamo dentro. Questo è tanto più vero se contiamo che lo scrittore è stato forse l’ultimo grande cantore dello spirito americano, che un po’ si è fatto spirito del mondo, e la tragedia che ha inscenato in La strada è la nostra tragedia intima, attualissima, ma che riannoda le sue radici nella genetica stessa della nazione e dei suoi miti. La catastrofe non solo come riflesso ma come radice nera della Storia che permea la soggettività presente; come dopplegänger del Progresso: l’ascesi di un mondo fondata sull’olocausto di mille altri. Nelle pagine dei suoi romanzi, tra la frontiera del mito western e quella fisica fatta di fili spinati pattugliati da militari, il tempo si dilata in un unico spazio liscio non più misurabile con gli strumenti convenzionali. L’unica temporalità è quella dettata dallo scorrere di una natura struggente, crudele nella sua indifferenza verso l’agire disperato degli umani e delle loro tragiche traiettorie. La violenza dei silenziosi personaggi di McCarthy è la violenza che pervade un intero universo infervorato da uno slancio superomistico, volontà di potenza che lo acceca e lo spinge alla (auto)distruzione.
La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi.
È un racconto d’invenzione, eppure affonda i piedi in un’ampiamente documentata storia di crimini di guerra che hanno edificato la “nazione più grande del mondo” e che non sono relegate a spettri del passato ma si rinnovano ad ogni suo passo. Mentre scriveva Meridiano di sangue, nella prima metà degli anni Ottanta, McCarthy non aveva in mente solo le guerre ai nativi. Attorno a lui era tangibile il trauma seguito alla sconfitta americana in Vietnam: l’orrore che si erano riportati a casa i giovani veterani era un decimo di quello che si erano lasciati alle spalle, in uno scenario divenuto anch’esso quasi mitologico quanto la frontiera (basti citare, su tutti, il capolavoro di Francis Ford Coppola Apocalypse Now, 1979).
In quel frangente le vicende degli scalpatori di Holden portavano in controluce il segno di quell’ultima guerra e, come una premonizione, anticipavano l’inchiesta che sarebbe emersa solo nel 2003, ironicamente al tempo delle rivelazioni di Abu Grahib, sulla famigerata Tiger Force: il battaglione punitivo dell’esercito americano utilizzato per terrorizzare i villaggi vietnamiti nel vano tentativo di estirpare il sostegno popolare alla guerriglia. Eccidi, torture, stupri e innumerevoli crimini della Tiger Force emersero chiaramente come la punta di diamante di un uso sistematizzato della brutalità. Erano (sono) la traduzione bellica di una politica imperiale che non ha alcuna considerazione delle tracce del suo passaggio. Gli scapolari di scalpi di Meridiano di sangue e quelli di orecchie della Tiger Force, le piramidi di teschi di bufalo nelle cartoline dell’Ottocento yankee e le immagini del villaggio My Lai avvolto dalle fiamme restano come i negativi dell’album fotografico di una storia egemone, residui che vanificano ogni autoassoluzione. Alla fine del romanzo l’anonimo ragazzo/narratore, complice e sopravvissuto alle vicende degli scalpatori, dopo anni di modestia ritrova per caso il suo vecchio capo e la sua vita termina quel giorno, con una sorta di lampo del passato che torna per battere cassa.
Durante la guerra fredda, con il tangibile rischio di un conflitto nucleare, gli scienziati nucleari idearono, per somma fortuna di scrittori e registi, il Doomsday Clock: un orologio che stabilisce, da inizio a fine, la storia dell’uomo sulle dodici ore del quadrante. Oggi, nel pieno di una febbre bellica senza antidoti, le lancette segnano 89 secondi alla mezzanotte: un minuto e mezzo dall’estinzione della razza umana per mezzo di un conflitto termonucleare. Finché non è disertata, la catastrofe imperiale, epifenomeno funesto della logica capitalista, non lascia margini alla rigenerazione della vita. Non trovano scampo nemmeno i sopravvissuti guardinghi o i suoi agenti, solo la feroce volontà di potenza dei giudici Holden rimane intatta in un lago di sangue.
Non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario ne ricava una miniera preziosa di strumenti d’indagine.
Quando la catastrofe mina l’ordine delle cose, minacciando indistintamente la vita umana e la proprietà privata, attraverso il collasso delle relazioni sociali in una guerra di tutti contro tutti, è l’operato dell’eroe che ristabilisce l’ordine originario attraverso la sconfitta dell’evento mostruoso (e qui entrano solitamente in ballo gli emblemi della nazione: il presidente, l’esercito, la White House) oppure attraverso il ristabilirsi di un piccolo ordine in mezzo all’irreversibilità della fine: il salvataggio della famiglia nucleare, il ritiro nella natura e la vita attraverso il lavoro manuale. Uno spettro piccolo-borghese che proprio non vuole lasciare questo mondo.
A tagliar corto, questa è più o meno la forma che il capitale ha tentato di imporre come proprio epitaffio, un finale gattopardiano per imbrigliare lo spazio del possibile. E si potrebbero elencare centinaia di pellicole dove la minaccia è differente ma il ciclo si ripete: The Day After (di Nicholas Meyer, 1983, guerra termonucleare), 2012 (di Roland Emmerich, 2009, disastro ambientale), Indipendence Day (ancora Emmerich, 1996, attacco alieno), 28 giorni dopo (di Danny Boyle, 2002, epidemia zombie). Eppure, un’assoluta colonizzazione dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di qualsiasi Intelligenza artificiale o algoritmo predittivo, una missione impossibile. La sua natura ontologicamente ingovernabile ne fa un terreno impervio, da scorribande, da covo di disertori. Per cui non andremo oltre con la filmografia dell’impero, che già occupa posto in abbondanza e procederemo con i suoi controutilizzi.
È stato ad esempio un sabotatore particolarmente abile Jonathan Nolan, già reduce del capolavoro western-scifi Westworld (2016), nell’ideazione della serie Fallout (2024) che riprende le vicende alla base dell’omonima saga videoludica di culto: un’America completamente distrutta dalle ricadute di una guerra termonucleare è popolata da bande di predoni, eserciti pretoriani e città-stato governate dalle più bizzarre fedi e forme politiche; pericolo e fame sono ovunque, tra le rovine della civiltà un tempo egemone si aggirano forme di vita mutate dalle radiazioni.
Un’assoluta colonizzazione dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di qualsiasi Intelligenza artificiale o algoritmo predittivo, una missione impossibile.
Nolan ha utilizzato questo potere immersivo dell’ambiguità e un’estetica retrofuturista che strizza l’occhio alla grande sci-fi degli anni Cinquanta per costruire una spietata metafora degli Stati Uniti i cui miti perdono ogni poesia e si rivelano goffe pezze che a malapena celano l’interesse più famelico.
La Vault-tec, mega azienda del settore tecnologico con ramificazioni nell’industria bellica già nel pre-bomba, permette a una selezionatissima minoranza di cittadini di vivere dentro complessi bunker sotterranei mentre l’umanità della superficie è lasciata in balia di sé stessa.
L’azienda è onnipresente nella trama e diventa nel Fallout di Nolan l’esplicita metafora del comparto militar-industriale, il cui strapotere provoca non solo l’apocalisse nucleare all’origine della storia ma la riproduzione di meccanismi di gerarchizzazione e sfruttamento delle forme di vita rigenerando i meccanismi del capitale anche oltre la fine del mondo. Tra l’umanità dei bunker e quella della zona contaminata vige un rapporto verticale in cui i primi si ritengono custodi della civiltà, eletti destinati a esportare l’ordine e la verità ai barbari della superficie, i quali dovrebbero essere ben contenti di adattarsi o, nel caso peggiore, possono essere sterminati in quanto privi di effettiva umanità (ecco tornare gli orrori dell’Herrenvolk che, dal genocidio dei nativi alle guerre democratiche, allunga la sua ombra sui futuri)
La catastrofe, dentro Fallout, cessa finalmente di essere un movimento neutro che coinvolge tutti indistintamente: la posizione all’interno della scala sociale determina coinvolgimenti e responsabilità differenti, stabilisce la possibilità stessa di vita o di morte; l’ambiguità morale e la violenza riflettono una dimensione in cui l’orizzonte non è dominato da alcun destino che guida la mano dell’eroe ma da costanti rapporti di forza tra alto e basso. Non a caso uno dei personaggi principali, plastica incarnazione della sospensione morale, è un pistolero mercenario vissuto a cavallo tra i due mondi che le radiazioni hanno trasformato in ghoul, creatura tra l’umano e lo zombie; frutto di una transizione incompleta dove i mitologici panni del cowboy sono indossati da un mostro che ha perso cittadinanza nella comunità degli uomini e delle donne.
L’ambiguità morale e la violenza riflettono una dimensione in cui l’orizzonte non è dominato da alcun destino che guida la mano dell’eroe ma da costanti rapporti di forza tra alto e basso.
Mostro la cui condizione d’isolamento lo rende al tempo stesso più adatto all’ambiente circostante e più umano degli umani stessi che, nella lotta per la sopravvivenza, perdono ogni tratto positivo. La deformazione diventa adattamento, l’erranza e l’ambiguità forme di resistenza. Non è l’umanità che si salva; almeno non quella che persegue nello scimmiottare caricature di civiltà morte e forme di vita (auto)distruttive.
Ghoul, zombie e mostruosità del dopo-fine
Il ghoul in effetti si presta bene a questo détournement. Creatura del folk-horror dalle fattezze antropomorfe, si nutre di cadaveri e abita luoghi desolati; è una di quelle figure reiette che viene sospinta agli angoli delle storie. È un mostro di second’ordine: ex-umano perseguitato da una morte incompiuta, mangia per necessità, attacca per difesa e non ha altri scopi che l’autoconservazione; non ha fattezze animalesche né poteri sovrannaturali. È un deforme riflesso degli umani che si ciba dei loro resti e usa gli spazi di risulta; senziente al pari dell’umano, ne comprende la lingua e le passioni, in una vicinanza che amplifica la mostruosità e pertanto lo costringe all’ombra dell’esilio. Questa mutazione mette in discussione la narrazione teleologica che legge ogni mutamento come un avanzamento verso la perfezione o una deviazione da eliminare: ciò che non ci avvicina a Dio ci spinge verso Satana, continua a sussurrarci una coscienza che presumiamo scientista ma allevata da secoli di pensiero religioso. Il ghoul non avanza né devia ma muta: è alterità familiare, inquietudine.
C’è una particolare vicinanza tra il ghoul e il più celebre zombie: simili nelle fattezze e nell’essere una derivazione umana, a separarli è il fatto che il primo è frutto di una mutazione, mentre il secondo di un processo di morte e resurrezione da cui ne discende l’assenza (in fondo presunta) di ragione e una dieta a base di persone vive. Mostro proletario per eccellenza, lo zombie ha catalizzato su di sé interi filoni creativi e nel suo universo si è dato lo spazio più largo per sperimentare diserzioni alla norma dell’immaginario catastrofico. Questa specie di morte cerebrale e movimento a branchi che lo caratterizzano, ne hanno fatto una metafora dell’omologazione e, nel periodo della guerra fredda, un’allegoria delle masse anomiche del socialismo che veniva a minacciare lo stile di vita americano. Qualche successiva lettura xenofoba ci ha voluto vedere un’immagine della cosiddetta invasione dei migranti. C’è però un’irrecuperabilità dello zombie che lo rende refrattario a qualsiasi disciplinamento. Rintracciabile forse nella sua origine nel voodoo haitiano, in cui le comunità afrodiscendenti lo leggevano come schiavo alternativamente costretto al lavoro in una condizione di non-vita o tornato dalla morte per vendicarsi del padrone.
Ogni incidente che coinvolge gli zombie porta inevitabilmente l’umanità a un passo dall’estinzione. E d’altronde è proprio degli umani che si servono: mangiandoli e trasformandoli ne contendono l’egemonia sulla catena alimentare, li assorbono in una collettività espansiva che si sbarazza della civiltà instaurando un nuovo regime di natura assolutamente privo di gerarchie e sfruttamento: gli zombie non hanno nomi né volti distinguibili, non hanno lingua, genere, proprietà né titoli, mangiano solo animali umani e soltanto quanto necessario alla loro riproduzione di specie. Lo zombie non è un postumano, non nel senso di un superamento costruttivo, non aggiunge nulla alla specie; non è nemmeno un subumano, poiché non degrada la forma di vita umana a uno stato inferiore: la annienta per farsi spazio. Siamo davanti a un salto di specie, uno spillover dell’immaginario. Le orde senza verbo sembrano dire: i morti siete voi! La non-coscienza zombie, mai davvero confutabile, è l’annullamento dell’eccezionalità antropica che liquida millenni di cosiddetto progresso imponendo il paradigma di un mondo altro. La fine del mondo è la fine del mondo degli uomini.
La fine del mondo è la fine del mondo degli uomini.
Riflettendo il proprio tempo e le sue urgenze, negli ultimi anni questi ibridi si sono fatti via via spazio nel genere anche in modalità inaspettate. Una traccia di ciò è rintracciabile nella serie The last of us (2023), dove una mutazione del fungo parassita Cordyceps, solitamente associato alle formiche, si trasmette agli umani compiendo il suo spillover grazie al riscaldamento globale. Gli zombie in questo caso vengono governati dalla simbiosi micotica che ne determina le azioni e li connette tra loro in una coscienza collettiva attraverso il micelio. I corpi trasmettono informazioni tra loro e si modificano, si compostano l’un l’altro per dare nutrimento alla specie. Inaspettato matrimonio tra gli zombie di George Romero e i funghi di Anna Tsing. Seppure lo schema narrativo ripeta il ciclo dell’eroe che deve riportare le cose al punto di equilibrio, nessuna “Restaurazione” è possibile: mentre gli umani perpetuano la loro esistenza violenta e si spengono poco a poco, gli infetti proliferano ovunque candidandosi a ereditare la Terra in piena reciproca connessione. Il mostruoso emerge come effetto dell’incapacità umana ad andare oltre sé stessa.
A guardar bene, ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei sovrani. Intorno al V millennio a.C. piccole civiltà stanziali dell’Europa centro-occidentale vennero investite dalle tribù delle steppe orientali: genti dalla lingua incomprensibile che si muovevano a dorso di cavallo, animale ancora sconosciuto in quei territori e che saranno apparsi a quei contadini come spaventosi ibridi: centauri dalle gambe equine e busto umano. D’altronde l’ibrido faceva parte dell’orizzonte entro cui si muovevano. Come riporta Luca Misculin nel suo podcast L’invasione, a montare quei cavalli erano molto spesso giovani maschi, poco più che bambini, nell’atto di compiere il rito di passaggio: il Koryos, un periodo di anni in cui tutti i ragazzi coetanei abbandonavano il proprio villaggio per trascorrere un tempo di nomadismo prima di fare ritorno come adulti.
La vita dei membri del Koryos si conformava, più che alla vita umana, a quella dei branchi di lupi con il loro errare predatorio, le mutevoli leggi interne. E nei lupi questi ragazzi si identificavano e riferivano a sé stessi, dei lupi vestivano le pelli. Non vi è dubbio che l’apparire nei villaggi di queste chimere cavallo-umano-lupo fosse presagio di violenza, la loro sopravvivenza legata al saccheggio ne ha determinato l’espansione disordinata su nuovi territori, ma è altrettanto vero che molto spesso questi gruppi finirono per non tornare ai luoghi d’origine e stanziarsi presso altre comunità. L’erranza del Koryos, pur col suo portato di brutalità patriarcale, nell’incontro/scontro con umanità differenti, ha finito per rideterminare l’assetto di un mondo, ponendo fine a forme di vita conchiuse e seminando quella che sarebbe diventata la civiltà protoindoeuropea. Le piccole apocalissi che investivano i modesti insediamenti del continente, estinguevano un passato per “compostarlo” nelle possibilità di forme di vita altre, più ampie.
La catastrofe è il modus della Storia
La storia del mondo è una storia senza morale, quella dell’umanità è una storia di catastrofi. Ciò è particolarmente vero, come abbiamo visto, per la modernità. A differire oggi è che le evidenze di un mutamento climatico senza precedenti ci si riversano contro con una forza che l’attuale livello tecnologico permette di osservare, misurare e prevedere, senza però riuscire a fermarla. Gli umani osservano per la prima volta da vicino l’eventualità dell’estinzione per propria mano. Tutto ciò non è più eludibile da alcun discorso politico, è il Tema, la cornice entro cui ogni cosa necessita di essere interpretata.
A guardar bene ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei sovrani.
Questo pensiero sciocco ed etnocentrico (ci preme sottolineare il prefisso etno-) è il primo dispositivo di governo delle alterità possibili. Ma se la modernità è catastrofe allora siamo oggi dinanzi a una ripresa di senso delle cose. La presunzione dell’universalismo bianco di forgiare un mondo a propria immagine a qualunque costo non poteva che produrre edifici fragili; la fine della storia con cui il liberismo ha legittimato sé stesso in quanto Nomos della terra non era che un abbaglio. Ottuso e autoreferenziale squillo di trombe, ha intenzionalmente rimosso e oscurato qualsiasi moto lo eccedesse. E quando le fondamenta del suo edificio hanno iniziato a tremare, la Storia si è ripresentata alla porta, lo ha costretto in tempi strettissimi a tornare sui propri passi e discutere di fine della fine della storia. Possiamo seguire la suggestione di Anton Jäger nel suo Iperpolitica (2024), quando osserva che la desertificazione sociale prodotta dal neoliberismo ha determinato un’umanità alienata, piegata su sé stessa e priva di respiro collettivo. Senza classi, chiese, partiti, senza forme di organizzazione delle collettività esistono solo individualità e fragili bolle. Dopo una brevissima estate le società del benessere si sono trovate, crisi dopo crisi, a svegliarsi da un sonno farmacologico e a necessitare di una grammatica del mondo che avevano disimparato.
È arcinoto l’adagio per cui è più probabile la fine del mondo che del capitalismo; non esiste a oggi un modello alternativo in grado di sfidare il campione in carica; motivo in più per cui occorre osservare tra le sue scorie per trovare strumenti utili. Come lo stato d’eccezione, la catastrofe non si pone come momento chiuso in sé, slegato dal mondo in cui si manifesta, piuttosto è una contingenza che ne porta all’estremo i tratti salienti: nel caos che l’accompagna, è un momento di disvelamento. Il suo darsi in permanenza la configura come dispositivo di governo. Visto e agito dall’alto, il campo del possibile è un momento di ristrutturazione del modo di produzione. Un buon affare, anche se sporco. Ridevano gli imprenditori edili mentre L’Aquila si sbriciolava nel sisma del 2009.
Parallelamente è un ottimo momento per stabilire un ordine rigido e un maggiore controllo sociale, recuperando le linee di fuga e soffocando le forme di autorganizzazione emerse dalla necessità che si presentano come rotture potenziali in grado di ribaltare l’assioma. Ecco allora che assumere la catastrofe come campo del possibile significa cogliere le vie di trasformazione, resistenza e abitabilità dell’attuale scenario tardocapitalista proprio attraverso le sue rovine, Il tentativo prioritario è sottrarla alle narrazioni immobilizzanti dell’immaginario apocalittico, al fine di sondare questa ipotesi.
Vi è un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e istintivi tentativi di sottrazione.