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n un saggio del 2023 dal titolo La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata, l’autore Davide Piacenza racconta alcune declinazioni del progressismo contemporaneo, portate avanti da una premessa storico-filosofica che conferma l’orientamento di massima del pensiero occidentale. La premessa del libro ci ricorda che con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e con la dissoluzione dell’URSS nel 1991, la sinistra ha radicalmente mutato il suo approccio, mettendosi alla ricerca, come scrive Piacenza, “di nuovi dei laici”, riportando a sua volta un pensiero del critico d’arte Robert Hughes, secondo il quale con la crisi del comunismo la reazione fu di allontanarsi dal marxismo classico, col suo accento sulle lotte economiche e di classe, e di abbracciare le teorie della scuola di Francoforte, soprattutto di Theodor W. Adorno ed Herbert Marcuse. Per questi pensatori, l’intera esperienza dell’essere umano ruota attorno a meccanismi repressivi insiti non nella politica manifesta, bensì nel linguaggio, nell’educazione, nell’entertainment, insomma nell’intera struttura della comunicazione sociale.
Secondo Piacenza, partendo dagli assunti sociologici di Hughes, il compito dell’attivista o del militante ‒ ma alla differenza tra questi due termini arriveremo poi ‒ sarebbe diventato oggi quello di stanare la discriminazione decostruendo i sistemi non basandosi più sulla riconquista di un potere marxisisticamente economico, quanto piuttosto su una consapevolezza del linguaggio, attraverso le pieghe della narrazione eterocostituita.
Questo “passaggio interno”, se così vogliamo chiamarlo, testimonia un ricollocamento importante nel bilanciamento delle correnti di pensiero opposte alle destre, che siano esse moderate o estreme, ma la sua analisi sembra interessare poco chi si occupa degli “spostamenti di faglia” dei moti resistenziali, o supposti tali. Eppure proprio questo cambiamento di rotta molto forte ha generato spesso delle incomunicabilità piuttosto pesanti, soprattutto tra la generazione delle lotte del Sessantotto e quelle successive, dagli anni Ottanta fino a oggi.
Prendiamo a esempio di questa differenza un dialogo avuto tra Toni Negri e sua figlia Anna Negri, nel film Toni, mio padre, diretto dalla stessa Anna, che racconta il rapporto tra la regista e il padre, fondatore di Autonomia operaia e tra i massimi teorici rivoluzionari del Ventesimo e Ventunesimo secolo: “Io ho un’amica che era un ragazzino calabrese, completamente solo, in un mondo che gli diceva che non poteva esistere. Questo ragazzino capisce da solo che lui può essere diverso. Viene a Roma e diventa una donna. Ma se lui non avesse riconosciuto che quelle cose erano costruzioni del patriarcato poi non avrebbe potuto lottare e diventare quello che voleva.”
Il cambiamento di rotta, da marxismo a decostruzione, ha generato delle incomunicabilità pesanti tra la generazione delle lotte del Sessantotto e quelle successive, dagli anni Ottanta fino a oggi.
“Mi parli di questo ragazzo come se fosse un imprenditore, che scopre in se stesso la propria fiducia nel futuro. Ma per fare quello che ha fatto questo ragazzo ha dovuto conquistare questa sua capacità di diventare un altro attraverso gli altri. Il tuo è un discorso completamente e radicalmente individualista.”
“Va bene, allora non ci capiamo proprio.”
Queste idee diverse su quale sia il modus operandi per organizzare (o riorganizzare) un pensiero che tende al resistenziale, ci portano effettivamente a prendere atto che, negli ultimi vent’anni più o meno, proprio la concezione di una lotta privata, più basata peraltro, la maggior parte delle volte, sul raggiungimento di un’identità personale e meno sui conflitti di classe, ha inevitabilmente prodotto delle derive su cui non è facile passare sopra senza interrogarsi su cosa sia diventato il pensiero di sinistra dopo la caduta del Muro. Infatti, ritornando sempre al libro di Piacenza, troviamo diversi esempi che riportano le conseguenze più manifeste di questo iato sempre più ampio, e non riguardanti esclusivamente l’identità di genere o di etnia, ma anche questioni ben più radicate nell’immaginario del Novecento stesso, come lo scontro tra democrazie e fascismi. L’episodio capitato a Emanuel Cafferty ne è un emblema abbastanza lampante.
Fino al giugno del 2020, Cafferty lavorava alla San Diego Gas & Electric, una società di luce e gas della California meridionale. “Quel giorno”, racconta Piacenza “aveva finito un lungo turno di mappatura delle condutture sotterranee della contea e, esausto, si era messo alla guida del pick-up bianco fornito dalla sua società per tornare a casa, con la mano fuori dal finestrino per godersi la brezza. A un certo punto, un automobilista fermo a un semaforo gli ha mostrato il dito medio, per poi iniziare a insultarlo facendo uno strano gesto con la mano: unendo pollice e indice, quello che il quarantenne Cafferty sulle prime aveva pensato essere un folle sembrava esibire il gesto che si usa per dire «okay».” Dopo numerose insistenze, per esasperazione, Cafferty fa il gesto, proprio mentre il suo interlocutore lo immortala con il suo smartphone. “Come scoprirà soltanto in un secondo momento, quell’okay sign è anche un segno di riconoscimento appropriato dall’alt-right, il complesso sottobosco di meme e razzismo che ha trovato in Donald Trump il suo paladino di virtú. L’automobilista aveva visto la mano di Cafferty fuori dal finestrino del pick-up in una posizione che richiamava quella resa un segnale di riconoscimento di una nicchia di filonazisti online, si era convinto che fosse un suprematista bianco e aveva iniziato a inveire contro di lui. Poi aveva postato la sua foto su Twitter. Cafferty – figlio di messicani e latinoamericani – non aveva alcuna idea di cosa fosse l’alt-right, né ovviamente che quello fosse un gesto da nazisti da forum internettiani”. Eppure, a causa di questo gesto per lui privo di significato, la settimana successiva si trova senza lavoro: “dozzine di persone avevano chiamato il suo datore di lavoro per chiederne il licenziamento”.
Questo è solo uno dei tanti cortocircuiti di senso riportati nel libro, che fornisce una panoramica abbastanza lucida proprio di quanto il pensiero originario, secondo cui appunto il sopruso vada ricercato “nel linguaggio, nell’educazione, nell’entertainment”, sia stato trasformato in una sorta di Giano bifronte generatore di capovolgimenti logici che passano dal progressismo alla reazione nel giro di un battito di ciglia. Il fulcro quindi di questo disorientamento, di questa “continua tentazione alla vaporizzazione” insita nell’attivismo, per così dire, sta forse proprio in quella ricerca di “nuovi dei laici”. Una ricerca che, proprio perché rimane ancora senza un concreto e definitivo risultato, finisce per generare mostri, soprattutto nel mondo post digitale. Ed è questa teogonia che traccia i nuovi sentieri del progressismo.
La ricerca di “nuovi dei laici”, proprio perché rimane ancora senza un concreto e definitivo risultato, finisce per generare mostri. Ed è questa teogonia che traccia i nuovi sentieri del progressismo.
Questa direzione era stata non interamente ma significativamente già preconizzata nei primi decenni del Novecento ‒ almeno vent’anni prima delle teorizzazioni di Adorno, Marcuse,
Horkheimer ecc… ‒ rispetto al concetto di sacro teorizzato dalla filosofa francese
Simone Weil. Weil intendeva con sacro quella forza impersonale (sicuramente non individuale, ma neanche collettiva) che riesce a trascendere l’umano, recuperando quel senso di spiritualità che la società consumistica ha così annacquato, ma che continua a usare per piegare le masse ai suoi egoistici appetiti. Il popolo, orfano di ritualità, si rifugia nei processi di appropriazione materialistica e di accumulo seriale e compulsivo per colmare un vuoto lasciato dalla scomparsa di una differenza tra sacro e profano. Orfano dello spirito, il popolo va a ricercare proprio il suo contrario, e con esso lo sostituisce.
Ecco, questo genere di individuazione sociologica ha sempre relegato la parte maggioritaria dell’umanità a una forma di reazione, a una schiavitù nei confronti delle forze “potentistiche” del mondo, o anzi addirittura a una complicità nell’aver contribuito a creare la decadenza etica contemporanea. Di queste deformazioni però a prima vista non è mai stato interessato chi invece tende a una riqualificazione della società, chi cerca di opporsi a questo fluire inconsapevole nelle maglie del consumo. Questa minoranza, culturale e numerica, è sempre stata invece associata tendenzialmente a un fare virtuoso, a un senso di responsabilità nei confronti dell’altro da sé. Ma cosa succederebbe se ci immaginassimo che anche questa “altra parte della barricata” sente lo stesso bisogno di sacro della maggioranza silenziosa?
Anche qui può venirci in soccorso un esempio riportato all’interno di La correzione del mondo. Sul finire dell’anno scorso Erika López Prater, una professoressa di Hamline, la più antica università del Minnesota, si è trovata improvvisamente senza lavoro perché durante una lezione online di storia dell’arte globale aveva mostrato per pochi minuti una miniatura contenuta nell’opera di un artista islamico medievale, Rashid al-Din. Nell’immagine l’angelo Gabriele consegna al profeta Maometto le rivelazioni di Allah raccolte nel Corano, ma per un certo Islam conservatore la rappresentazione di Muhammad è vietata, perché sfocia nell’idolatria. Il dettaglio importante della storia è che López Prater nel programma del suo corso faceva riferimento al fatto che durante le lezioni sarebbero state mostrate immagini sacre del profeta dei musulmani, e quel giorno dalla sua cattedra ha ribadito il disclaimer, invitando chiunque lo volesse ad abbandonare temporaneamente la lezione. Nessuno ha detto niente, ma poco dopo la fine della lezione la professoressa è stata contattata da una studentessa musulmana di origine sudanese, Aram Wedatalla, presidente della Muslim Student Association dell’ateneo. Wedatalla non si è limitata a scrivere a lei: ha raggiunto gli organi dell’università di Hamline che hanno indetto una giornata pubblica contro l’islamofobia per riparare al torto.
Non serve sottolineare quanto in questo esempio, ancora più che nel precedente, sia centrale l’idea di linguaggio collegata a quella di sacralità all’interno del mondo progressista di oggi. Per affrontare questi continui marasmi di apparenti relativismi morali va sicuramente analizzata però una premessa: è un riflesso incondizionato di chi agisce o crede di agire per il bene non indagare chi si attiva all’interno della stessa macrodimensione etica e morale, proprio perché smacchiato da ogni sospetto, da ogni tentazione egoistica o qualunquistica. Come scrive infatti Simone Weil in La persona e il sacro, dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente, che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro. Solo il bene e ciò che è relativo al bene è sacro.
La minoranza, culturale e numerica, politicamente attiva è sempre stata associata tendenzialmente a un fare virtuoso, a un senso di responsabilità nei confronti dell’altro da sé, ma forse sente lo stesso bisogno di sacro della maggioranza silenziosa.
Essendo quindi il bene una spinta “forte”, a chi crede di perseguirlo non viene spesso da interrogarsi sulla sua nascita, o sulla sua intelligenza. Chi agisce per il bene, in sostanza, è difficilmente indagato da un suo compagno di viaggio, da chi come lui agisce nello stesso bene. Non si tratta dunque di malafede, come a prima vista potrebbe sembrare, ma di una fede vera, che gira attorno alle idee di Weil confermandole e allo stesso tempo deformandole. Tutto questo, generato di base dalle conseguenze della crisi del comunismo teorizzate da Hughes, ha finito in un certo senso per allineare tutto in un
unicum, sciogliendo le barricate e ammucchiando ogni ideologia in questa tendenza all’idolatria di diversi postulati. Ed è proprio a partire da queste basi che possiamo approfondire ora la fondamentale differenza tra militanza e attivismo come concetto profondamente collegato ai precedenti.
L’attivismo viene associato senz’altro al mondo progressista (o woke addirittura) ma non ha, a conti fatti, una funzione rivoluzionaria, ponendosi invece nell’ottica di rinnovare quello che già esiste, senza tuttavia metterne in discussione le fondamenta. Come suggerisce Gigi Roggero in Elogio della militanza (2016) attivismo e militanza non sono sinonimi: pongono come base visioni opposte sia della politica e dell’esistente sia quindi degli strumenti per combatterli. Mentre infatti il militante è una figura che grazie al sacrificio combatte l’individuo liberale per giungere verso il divenire rivoluzionario, l’attivista è al contrario solo un’ innocua entità che tenta di ricomporre ciò che c’è, invece di disarticolarlo socialmente per poi ricomporlo politicamente “contro e non al posto di”.
Questa deriva, che parte da una perdita (la percezione del fallimento storico del socialismo reale) per arrivare a un’illusione (un’idolatria che tende e rendere innocua gran parte della resistenza contemporanea al capitale) riporta a una conseguenza unica, ossia la necessità di restare a tutti i costi nel presente, di non prevedere una riscoperta vera dei moti e delle lotte pre-società liquida, ma eventualmente di riportare al centro del discorso la militanza solo come un altro “vitello d’oro” proveniente da un’altra epoca, da adorare in superficie, elevandolo ma spettacolarizzandolo allo stesso tempo, non volendo fino in fondo approfondire cosa implichi diventare effettivamente militanti, forse semplicemente ancora per questa spinta atavica verso il sacro, che distorce e rende ambiguo ciò che Simone Weil aveva inteso come un momento resistenziale, o forse anche per paura della risposta che si troverebbe.
Attivismo e militanza non sono sinonimi: presuppongono opposte visioni della politica e sedimentano antitetiche coscienze dell’esistente e degli strumenti per combatterlo.
Roggero sostiene infatti che sacrificio e disciplina nelle forme attuali della partecipazione politica hanno acquisito una distanza talmente profonda che, anche laddove presenti, vengono taciute, negate, quasi che imporsi un sacrificio o costringersi in una disciplina collettiva rimandi a forme e metodi di una lotta politica da cui finalmente si sono prese le distanze. Ma il militante, ci dice Roggero
è la figura fondamentale della politica rivoluzionaria. Traduce la linea politica verso il basso e la corregge verso l’alto. È la cerniera tra la teoria e la pratica, la figura che combina incessantemente la massima rigidità strategica con la massima flessibilità tattica, è in altre parole la personificazione della dialettica leniniana, colui che sta dentro le contraddizioni agendo da detonatore, sempre in bilico tra dogmatismo e opportunismo, senza mai scivolare nell’uno o nell’altro.
Le conclusioni di
Elogio della militanza auspicano un ritorno all’operaismo, ricordandoci che non è il capitale a costituire la classe operaia ma il contrario: è il proletariato che attraverso i suoi percorsi di resistenza costringe il capitale a innovarsi prendendo la forma attuale e in continua evoluzione. Non sappiamo se sia questa la strada da seguire, ma sicuramente ricercare un’idea di attivismo come finto sinonimo deresponsabilizzante di militanza rischia di diventare semplicemente l’altra faccia della medaglia di un biopotere sempre più abituato a superare tutto e tutti entro ogni possibile previsione di scontro.
Lasciandoci con molte domande e, gramscianamente, con uno stoico pessimismo della ragione ma ottimismo della volontà, ci preme concludere con la reiterazione poetica di questo concetto, suggerendo allo stesso tempo un affettuoso ricordo di Goffredo Fofi: “Fossi certo che domani il mondo finisse distrutto dall’ignominia umana – che ha un nome, ed è capitale – non farei altro che lottare ancora più accanitamente perché questo non avvenga, anche sapendo che avverrà”. Sarà anche questa un’idea di sacro?