D urante l’Eid al-Adha “si sgozza un animale in ricordo del sacrificio di Ibraim, il grande profeta”. La zuppa sobbolle sulla fiamma accesa dentro un quadrato di pietre e legna ricavato nel terreno. H. mescola sapientemente le spezie in una grande pentola, gesti lenti e decisi, di mani abituate a esercitare la gratitudine e la preghiera mediante quell’immersione accorata nella terra. I fumi salgono come dal calderone di un mago, le mani si ricongiungono a materia viva, una pasta di corpi e linguaggi antichi. È il 17 giugno. Eid al-Adha è un giorno di festa, si condivide il cibo, si beve chai in compagnia. H. e i compagni, conosciuti nella moschea della caserma o sul cammino per arrivare in Italia, trascorrono le ore immersi in lunghe videochiamate con le famiglie rimaste nei paesi di origine. È passato poco più di un mese dai disordini che li hanno portati a vivere in questo accampamento di fortuna, tra i grandi palazzi che costeggiano la periferia di Udine. Uno dei tanti accampamenti sorti dopo lo sgombero.
Khandwala, sobborgo triestino
Confinati a una decina di chilometri da Trieste, i tre ragazzi pakistani più giovani del gruppo indossano tute e scarpe da ginnastica, roba raccattata da qualche mercato delle pulci prima del trasferimento. Molti di loro vestono con orgoglio questi abiti così inusuali nel loro paese di origine. L’Europa è un sogno nato quando abitavano nei loro villaggi. Arrivare a Trieste attraverso i Balcani, frontiera dopo frontiera, indossare jeans e t-shirt, pur nella precarietà di queste tende arrangiate, suona come un battesimo da parte dell’Occidente. Nel silenzio delle sette del mattino, i ragazzi si godono le ore fresche del giorno, ascoltano pop indiano e guardano video su TikTok.
S. veste diverso. Indossa il shalwar kamiz, una camicia lunga fino alle ginocchia e dei pantaloni morbidi che si stringono sulle caviglie. Dal giorno di Eid al-Adha non ha mai smesso di metterlo. Raccontano che non si sono ancora abituati a vivere a Campo Sacro. Il giorno in cui la polizia ha fatto irruzione, loro erano nel Silos. I volontari italiani erano lì da diverse ore, si muovevano tra piazza Libertà e il lungo viale asfaltato che costeggia i binari. Avevano avuto delle telefonate dai toni concitati, in italiano, forse in triestino. Poi erano entrati nel Silos e avevano chiamato i ragazzi a raccolta. La polizia sarebbe arrivata a minuti. I tre avevano mostrato il foglio dell’appuntamento in Questura ed erano stati messi in fila insieme a un’altra settantina di persone, poi caricati su un pullmino e portati a Campo Sacro. Altri erano stati portati altrove. Mostrano le foto dei gazebo bianchi sorti a pochi passi dalla stazione di Trieste: “Loro sono finiti qui”.
L’ex caserma
La Cavarzerani di via Cividale a Udine è un’ex caserma storica. Quando il 5° Reggimento di Artiglieria Terrestre fu trasferito lì nel 1954, la caserma era un insieme di fabbricati suddivisi fra le truppe, gli Ufficiali e i Sottufficiali. Lo spaccio, le latrine diurne, il magazzino, il deposito armi. Curioso che da polo della difesa nazionale si sia trasformato in luogo di accoglienza delle persone richiedenti asilo. È una prospettiva che consolida le narrazioni più ritrite sul migrante pericoloso, clandestino, da nascondere. C’è un carattere profondamente securitario nelle categorie discorsive nate attorno alla figura del migrante, e l’ex caserma militare sembra il luogo d’elezione per ospitarlo: polo di difesa e polo della sicurezza.
C’è un carattere profondamente securitario nelle categorie discorsive nate attorno alla figura del migrante.
Ad oggi l’ex caserma Cavarzerani è un Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) della capienza massima di 550 persone. Nella provincia di Udine è l’unico grande CAS e concentra nella sua struttura più della metà dei richiedenti asilo vincolati alla Prefettura del territorio – la restante parte è collocata in nuclei-appartamento sparsi nella provincia secondo il modello del “CAS diffuso”.
I 151 mila metri quadri della caserma, prima suddivisi in fabbricati militari, sono coperti adesso da piccoli padiglioni-container con letti a castello. Enormi corridoi asfaltati a cielo aperto separano i padiglioni da servizi igienici e docce prive di privacy. La Prefettura di Udine ha appaltato l’accoglienza dei richiedenti asilo alloggiati qui alla cooperativa sociale Medihospes, la stessa che ha recentemente vinto la gara per la gestione dei centri di accoglienza dell’Italia dislocati in Albania. Come ogni struttura istituzionale, anche l’accesso alla Cavarzerani è precluso a chiunque non ne abbia una formale autorizzazione.
La definizione di “Centro di Accoglienza Straordinaria” esprime la natura di questa forma di accoglienza. Un CAS non è un centro di prima accoglienza. Non è solo un luogo di identificazione, in cui le persone soggiornano il tempo necessario a rilasciare i propri dati per poi essere trasferite in strutture adeguate a una permanenza più lunga. Sebbene l’acronimo sembri fare riferimento a un alloggio temporaneo, un richiedente asilo può rimanere in un CAS per mesi, per anni – fino alla conclusione del proprio iter giuridico. K. è vissuto nella Cavarzerani per due anni e mezzo, poi è stato trasferito in un altro centro quando gli è stato riconosciuto lo status di Rifugiato. Perché ospitare i richiedenti asilo in cubi di plastica di tre metri quadrati, se l’esito della loro domanda di asilo arriverà tra degli anni? “Ho vissuto nella caserma per due ramadan”, racconta K. Il ramadan è il nono mese del calendario islamico, mese di digiuno e di preghiera. “Ho ottenuto i documenti [il permesso di soggiorno come rifugiato, ndr] prima del mio terzo ramadan il Italia. È stato un momento speciale.”
Ha passato almeno due anni in Cavarzerani. Più di ventiquattro mesi, cioè più di settecentotrenta giorni trascorsi in un padiglione largo cinque o sei passi, condiviso con altri quattro ragazzi stanchi e stressati almeno quanto lui da un lavoro avvilente, oppure da un capo che non paga quanto pattuito, da una videochiamata a casa andata male, dall’attesa della convocazione in Commissione. Se il giorno di un musulmano è scandito da cinque preghiere, due anni nella Cavarzerani significano fra le tre e le quattromila preghiere, corpo e anima rivolti alla Mecca lontana. Significa condividere per due anni gli spazi della propria esistenza, anche i più intimi e personali, con compagni di lingue e culture diverse. Significa dividere per due anni con gli altri ogni millimetro cubo di una camera arrangiata, e per due anni conservare le proprie cose in una piccola valigia sotto il letto, o stipate in un armadio insieme a quelle dei compagni. Significa schiacciare la propria mente dentro uno stato di permanente precarietà. Come ci si sente a invocare la grandezza di Dio per migliaia di volte dentro un cubo di plastica?
Dormire in moschea
Nella Cavarzerani di Udine, oltre i padiglioni-parcheggio in cui 550 persone alloggiano con regolare badge e attendono per mesi il disbrigo delle loro pratiche di asilo, oltre i servizi igienici in parte fuori uso che emanano odori fatiscenti a ogni ora del giorno e della notte, c’è un grande stanzone. Nel tempo è stato adibito a luogo di preghiera: la “moschea” della Cavarzerani era una grande area coperta da tappeti, insospettabilmente pulita rispetto agli spazi adiacenti. I ragazzi si rifugiavano nel silenzio della moschea per pregare senza interruzioni, per sciacquarsi l’anima affaticata dal quotidiano prima di volgerla ad Allah.
Perché ospitare i richiedenti asilo in cubi di plastica di tre metri quadrati, se l’esito della loro domanda di asilo arriverà tra degli anni?
La moschea della Cavarzerani non deve essere stata diversa da tante moschee sorte nei Balcani: spazi ricavati dalla popolazione migrante nei luoghi di bivacco in attesa di avanzare lungo la rotta. Attraversando gli squat della Serbia o le fabbriche del periodo titino al confine con la Croazia, tra tende impregnate di pioggia e lattine di cibo bruciate, si incappa talvolta in una stanza dove la luce del sole filtra da tende colorate e si riversa su un pavimento cosparso di tappeti, e il vento invita quello spettro di colori a una danza mistica. Lungo la rotta, nei luoghi di transito, nelle fabbriche abbandonate e nelle ex caserme delle rotte musulmane, le moschee improvvisate palpitano nell’immondizia come fiori del deserto.
Nel 2023, la moschea della Cavarzerani è stata gradualmente dismessa. Al posto di tappeti e tende sono stati sistemati materassi e brandine, e in quello stanzone hanno finito per bivaccare i richiedenti asilo esclusi dalle misure di accoglienza. Chi sono queste persone? Provengono dalla rotta balcanica. In genere hanno attraversato la frontiera di terra con la Slovenia a Tarvisio. Per la maggior parte si tratta di giovani uomini provenienti dal Bangladesh, dal Pakistan e dall’Afghanistan. I migranti che attraversano questo confine vengono intercettati (è questo il termine tecnico: intercettati) dalle autorità di frontiera e portati a Udine, la provincia territorialmente competente per formalizzare la domanda di protezione internazionale.
“Se un cittadino straniero manifesta l’intenzione di fare richiesta di asilo”, spiega A., operatrice di strada, “non riceve immediatamente il relativo permesso di soggiorno. Di solito esce dalla Questura con due carte: la dichiarazione di indigenza, nella quale ha dichiarato di non essere in possesso di mezzi di sostentamento sufficienti, e un appuntamento per formalizzare la domanda di protezione.” Ma a causa delle lunghe attese delle pratiche di asilo, una persona che entra in Italia nel 2024 potrebbe formalizzare la domanda di protezione dopo due, tre o quattro mesi. E nel frattempo?
Inghippi giuridici
Chi esprime anche solo verbalmente la volontà di chiedere protezione internazionale risulta a tutti gli effetti un richiedente asilo. In condizioni di indigenza, queste persone sono titolari delle misure di accoglienza previste dal sistema italiano. Eppure, in assenza di posti ufficiali nei CAS di un sistema ingessato come è quello del Friuli Venezia Giulia, molti di loro sono costretti a dormire in strada o in aree dismesse, spesso a pochi passi dal centro città, senza il beneficio del vitto e dell’alloggio, senza accesso al sistema sanitario e all’assistenza legale.
Chi chiede protezione internazionale risulta a tutti gli effetti un richiedente asilo. Eppure, molti sono costretti a dormire in strada o in aree dismesse, senza accesso al sistema sanitario e all’assistenza legale.
Circa un anno fa, dunque, la moschea della Cavarzerani di Udine è diventata un vero e proprio parcheggio informale per i richiedenti asilo che sono rimasti fuori dai circuiti istituzionali dell’accoglienza pur avendo pienamente diritto ad accedervi. A Trieste si è assistito a dinamiche simili. Le persone con appuntamento in Questura hanno occupato il Silos, un vecchio edificio di pietra su tre piani a pochi passi dalla stazione dei treni. Con una pianta simmetrica, un grande corpo centrale e due navate laterali, il Silos è nato nell’Ottocento come deposito di treni merci. Nel 1943 è diventato punto di partenza per i campi di sterminio. Negli ultimi anni, transenne e blindaggi vengono utilizzati come deterrenti temporanei all’ingresso di persone senza tetto, soprattutto migranti. Il Silos è stato continuamente chiuso e riaperto, sottoposto a videosorveglianza, pattugliato dalle forze dell’ordine, ripulito e riabitato, e poi di nuovo transennato.
Ma non si ferma il mare con le mani. Le persone migranti, che le si voglia o no, che le si intimidisca o no, continueranno a lasciare i loro paesi e a muoversi tra gli Stati. Per questo, da oltre un anno il Silos è luogo stabile di soggiorno di tutti i richiedenti asilo rimasti fuori accoglienza nella provincia di Trieste. Nel tempo, il Silos è diventato un accampamento di tende piantate nel terreno tra le volte di pietra, senza elettricità né acqua corrente, tra i fuochi appiccati con legna e materiale di fortuna per scaldarsi e cucinare. Vasilika e Patrasso in Grecia, i boschi oltre Edirne in Turchia, Bihać e Velika Kladuša un soffio dal game per la Croazia. Infine Trieste. Negli ultimi anni, la frontiera mobile delle rotte balcaniche, fatta di squat, bivacchi di fortuna e tendoni di plastica a ridosso dei confini, si è spostata sempre più a occidente. Con il Silos, è arrivata alle porte di casa nostra. Da oltre un anno, i richiedenti asilo vincolati alla Prefettura di Trieste per il proprio iter di asilo occupano per settimane o mesi il piano terra delle gigantesche navate di pietra. Le tende da campeggio sono aumentate durante lo scorso autunno ed erano decine e decine durante il freddo inverno del Carso. Nelle giornate di gennaio, brevi e rigide, quando la bora fischiava contro i palazzi del centro città, oltre i binari e i treni della stazione di Trieste Centrale, nelle ore del primo pomeriggio, quando il buio iniziava a impastare l’aria secca, i migranti del Silos accendevano piccoli fuochi per scaldarsi, cucinare una zuppa, ingannare in compagnia il tempo sospeso dell’attesa.
E poi c’è stata la primavera. S., il ragazzo dello shalwar kamiz, è arrivato a Trieste il 15 maggio. Il giorno dopo, i questurini di via Demenego gli hanno consegnato un foglio con giorno e ora del suo appuntamento: 20 luglio 2024. “Ho dormito tante settimane nel Silos”, racconta. A Udine, M. ha vissuto in moschea per due mesi. Anche lui è arrivato a Trieste prima di proseguire per Udine. Forse ha incrociato S. nell’ultima parte del suo viaggio, o in qualche tratto precedente della rotta tra i boschi dei Balcani. Le storie della rotta che approda nel nostro nord-est si intrecciano, si sdoppiano, si rincorrono. “Senza i documenti non posso cercare un lavoro. Come mi pago il cibo quando finisco i soldi?”
Corpi esposti, corpi nascosti
Il problema dei richiedenti asilo fuori accoglienza in Friuli Venezia Giulia è strutturale. Da più di un anno decine e centinaia di persone richiedenti asilo “in eccesso” continuano a restare escluse per mesi dalle misure di accoglienza a cui hanno diritto. Udine, Trieste, ma anche Trento, Palermo. Da nord a sud dello stivale, negli ultimi mesi decine di volontariə e attivistə hanno denunciato la condizione dei richiedenti asilo rimasti esclusi dalle misure di accoglienza. In ogni comune, chi si è trovato per settimane senza una sistemazione si è ricavato degli spazi in cui bivaccare: un casolare abbandonato, la base di un ponte, una struttura istituzionale poco attenzionata da forze dell’ordine e operatori.
Le persone migranti, che le si voglia o no, che le si intimidisca o no, continueranno a lasciare i loro paesi e a muoversi tra gli Stati.
Da questo punto di vista Trieste e Udine sono emblematiche. Se a Trieste i migranti in arrivo si arrangiavano nel Silos, “posto di nessuno”, quelli appena arrivati a Udine non hanno occupato aree abbandonate. Con il tacito assenso della Prefettura e del Comune, sono stati stipati nello stanzone-moschea della Cavarzerani. Entravano e uscivano liberamente dalla porta principale insieme a tutti gli altri. Di fatto, i richiedenti della Cavarzerani hanno subito un’ulteriore gerarchizzazione tra “registrati” e “abusivi”. Quando l’occupazione è divenuta sistematica, la moschea è diventata una stanza dall’aria irrespirabile, coperta di brande e materassi, senza vie di fuga, senza adeguata areazione: abusivi in quello stesso CAS che avrebbe dovuto ospitarli regolarmente, vittime della macchina inceppata della burocrazia italiana, esclusi da ogni servizio legato all’accoglienza. A fine aprile del 2024, oltre ai 550 registrati, il casermone Cavarzerani ospitava informalmente altri 150 richiedenti asilo: fuori accoglienza, eppure nascosti in una struttura prefettizia.
Il Silos, al contrario, non era sottoposto ad alcun controllo; non era un CAS, non era di competenza della Prefettura di Trieste, non era in gestione a una cooperativa. Col tempo è diventato un vero e proprio accampamento, con tende piantate nel terreno tra le volte di pietra, tra fuochi appiccati con materiale di fortuna e immondizia in putrefazione. In pashtun “Khandwala” significa “casa in rovina”, ed è per questo che gli abitanti del Silos, e poi lə volontariə di strada, hanno iniziato a chiamarlo così. Luogo di degrado, ma anche di autodeterminazione. Nonostante gli abitanti di Khandwala fossero costretti alla precarietà, vivere in luoghi informali vuol dire anche abitarli senza imposizioni provenienti da strutture esterne. Come in molti squat lungo la rotta, i migranti di Khandwala hanno organizzato autonomamente gli spazi, negoziando tra di loro i termini della convivenza ed esponendo il degrado anche a chi ha scelto di entrare nel Silos per prenderne coscienza: il 2 marzo gli abitanti del Silos hanno cucinato per lə cittadinə di Trieste e hanno tenuto lezioni di urdu e di pashtun agli italiani. Lə attivistə e lə abitanti di Trieste sono tornatə nel Silos il 10 aprile per festeggiare con i ragazzi la fine del Ramadan. A Khandwala, sobborgo triestino ora soppresso, si è ballato, si è suonato. È stato meta dei Fornelli Resistenti per la distribuzione delle zuppe durante tutte le sere invernali, è stato spazio di cura e di politica.
La moschea sotto sgombero
Sul caso dei richiedenti asilo alloggiati abusivamente nella moschea della Cavarzerani, lo scorso 26 aprile le associazioni solidali alle persone in movimento della rete Diritti Accoglienza Solidarietà Internazionale del Friuli Venezia Giulia (rete DASI FVG) avevano pubblicato il report “Invisibili ed escluse” per denunciare le misure illegittime della Prefettura, chiedendo un incontro con il Prefetto e il Sindaco di Udine per discutere soluzioni alternative.
Poco dopo, il 9 maggio, la moschea è stata sgomberata. È accaduto alle 4 del mattino, nel silenzio dell’alba, lontano dallo sguardo di una società civile che avrebbe potuto opporsi, monitorare le prassi delle forze dell’ordine, pretendere che i diritti delle persone fossero rispettati pur nella confusione e nella violenza di uno sgombero. Secondo quanto riferito dalle autorità, le persone nascoste in moschea sono state ripartite: una cinquantina sono state trasferite in centri di accoglienza di altre province, venticinque sono rimaste nell’udinese, una quarantina sono state portate in Questura per accertare la propria posizione giuridica. La maggior parte dei fuori accoglienza sgomberati hanno trascorso il mese di maggio all’addiaccio, privati di quell’unico materasso che era stato garantito loro in moschea. L’unico dormitorio permanente di Udine (23 posti letto totali) è occupato prevalentemente da senza tetto e senza fissa dimora “di altra natura” ed è saturo. Per chi non ha un posto dove dormire, non ci sono altre soluzioni alloggiative.
Entro la fine del 2025, l’intera area della caserma verrà dismessa per diventare un gigantesco polo che ospiterà Polizia di Frontiera, Polizia Stradale e nucleo operativo di protezione. E i richiedenti asilo?
Pochi giorni dopo lo sgombero, il Prefetto di Udine ha ricevuto una delegazione della Rete DASI. Alla richiesta di attivare dormitori e strutture di accoglienza adeguate ha dichiarato che senza il supporto del Comune di Udine ha “le mani legate”. Il Sindaco, nonostante svariate richieste di incontro, tutte spedite e protocollate, ha risposto a un tentativo di confronto soltanto a fine giugno. Il Prefetto è stato molto esaustivo sui progetti futuri: entro la fine del 2025, l’intera area della Cavarzerani verrà dismessa per diventare ‘Cittadella della Sicurezza’: un gigantesco polo che ospiterà Polizia di Frontiera, Polizia Stradale e nucleo operativo di protezione. E i richiedenti asilo?
Khandwala sotto sgombero
L’11 giugno, il Sindaco di Trieste Roberto Di Piazza ha disposto ufficialmente, con scadenza entro i successivi 15 giorni, lo sgombero del Silos. Il 16 giugno le associazioni triestine impegnate da anni al fianco delle persone in movimento hanno convocato un’ultima assemblea aperta per concordare azioni concrete con cui opporsi ai provvedimenti delle istituzioni. Nei giorni successivi, volontariə e attivistə a staffetta hanno monitorato continuativamente il Silos, ed erano lì la mattina del 21 giugno, quando intorno alle 8 le forze di polizia hanno iniziato lo sgombero. Di circa 90 persone trovate all’interno, solo una decina è risultata senza documenti e ha manifestato la volontà di fare domanda di protezione internazionale; tutti gli altri erano già richiedenti asilo, aventi diritto da settimane o mesi a tutte le misure di accoglienza previste dalla normativa italiana. Dopo lunghe procedure di identificazione, alcuni sono stati trasferiti a Campo Sacro, altri fuori regione, in Lombardia o altrove. A fine giornata, il Silos è stato chiuso con il filo spinato.
Il capitolo di Khandwala si è concluso con uno sgombero pacifico. Pulito, senza intoppi. I tre ragazzi pakistani sono tornati a mostrare le foto dei gazebo sorti nei pressi dell’edificio: tendoni di un bianco irreale, stagliati contro il giallo secco delle pietre baciate dal sole. Alcuni ragazzi del Silos sono finiti lì.
Ma gli sgomberi non risolvono nulla. Soprattutto quando, come in questo caso, sembrano strumentali a sbattere la città contro un battiscopa per ripulirla. Il 3 luglio è stato qui Sergio Mattarella, il 7 luglio il Papa. Lo sgombero ha avuto tutti i tratti di un’azione punitiva, estemporanea, netta. Ma per far fronte a posti in accoglienza insufficienti rispetto al numero degli arrivi, nessuna soluzione di lungo periodo è stata proposta in città. Come dice Gianfranco Schiavone, esperto di migrazioni e Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, “le persone che erano al Silos sono state trasferite altrove, ma dove andranno quelli che stanno arrivando adesso? Al momento non c’è nessuna garanzia che non si formi un nuovo imbuto da un’altra parte.”
Tornare in strada
Anche se viene spesso pensato come un non-luogo, un ventre rigido e sterile, senza schiuse o punti di uscita, il sistema di accoglienza è, o dovrebbe essere, un luogo di vita temporaneo per i richiedenti asilo che vivono nelle nostre comunità. La legge definisce in maniera chiara tanto i criteri di accesso alle strutture di accoglienza quanto quelli di uscita.
Gli sgomberi non risolvono nulla. Soprattutto quando sembrano strumentali a sbattere la città contro un battiscopa per ripulirla.
Trascorsi 60 giorni dalla formalizzazione della domanda di asilo (cioè dal giorno in cui ottengono il primo permesso di soggiorno come richiedenti asilo), i cittadini stranieri in Italia hanno diritto a esercitare regolare attività lavorativa. Si tratta di lavori di retrovia, in fabbrica alle macchine semplici, in cucina come lavapiatti, nei casi migliori come aiuto cuochi. Alcuni di loro hanno studiato nel paese di origine, ma non esiste alcun sistema di conversione dei titoli di studio eccetto per poche, rare eccezioni. Per questo si arrabattano in qualunque mestiere. Alcuni hanno lavorato come agricoltori o pastori nel paese di origine e poi nel settore edile per qualche gigantesca multinazionale nei paesi di transito, e arrivati in Italia cercano di sfruttare come possono le competenze che hanno acquisito.
Gli uffici INPS effettuano controlli periodici delle buste paga dei richiedenti asilo alloggiati nei CAS. Quando la somma degli stipendi, a partire da gennaio, raggiunge l’importo dell’assegno sociale annuo, la Prefettura emette un provvedimento di revoca delle misure di accoglienza: assume cioè che il richiedente asilo possieda le risorse per provvedere autonomamente a sé e gli impone di lasciare l’alloggio e tutti i servizi dell’accoglienza, di trovare un posto dove stare e pagarsi le bollette. L’assegno sociale fissato per il 2024 ammonta a 6.947,33 € lordi: per lo Stato italiano, il richiedente che con le sue buste paga raggiunge questa cifra sarebbe nelle condizioni di vivere autonomamente. Ma 6.947,33 €, spalmati su 12 mesi, sono 578,94 €: una miseria. A queste condizioni la vita in Italia è impossibile per chiunque. Eppure le Prefetture delle province di Udine e Trieste, per movimentare il ricambio all’interno dei CAS e consentire ai migranti appena arrivati di accedere all’accoglienza, emettono provvedimenti di revoca per le persone già accolte senza preoccuparsi di come faranno a mantenersi nel concreto una volta fuori. Il cerchio si chiude: dopo un tempo indefinito tra padiglioni indegni e strutture-parcheggio, molti richiedenti asilo si trovano di nuovo per strada.
I tempi di Commissioni Territoriali e Tribunali sono diventati sempre più lunghi e i servizi per l’inclusione abitativa e sociale sempre più esclusivi, una forbice che continua a divaricarsi lasciando nel mezzo un vuoto desolante. Prima del 2018, le persone richiedenti asilo erano inserite nel sistema ordinario di accoglienza (il cosiddetto SAI, “Sistema di Accoglienza e Integrazione”). Questi percorsi mettevano al centro l’autonomia abitativa: circoli virtuosi, con i quali le competenze, il vissuto, la ricchezza delle persone diventavano risorsa per i territori. Facendo tesoro della propria esperienza lavorativa nei paesi di origine, i richiedenti asilo potevano imparare un mestiere e inserirsi gradualmente nella filiera produttiva locale, prima con piccoli stipendi e poi con veri e propri contratti lavorativi. Inoltre, le amministrazioni comunali mettevano in affitto degli appartamenti con contratti a prezzi calmierati, accessibili a chi in Italia non ha nessuna garanzia e sta costruendo tutto daccapo. Con il passare degli anni, le persone venivano gradualmente incluse nelle comunità, fino alla piena autonomia reddituale e abitativa, con contratti di lavoro stabili e affitti in abitazioni dignitose.
I Decreti Sicurezza hanno escluso i richiedenti asilo da tali circuiti. Lo smantellamento del sistema ordinario è partito da qui ed è continuato negli anni successivi, con l’ultima sonante batosta nel 2023 con il decreto Cutro: esclusione di tutti i richiedenti asilo dal sistema ordinario di accoglienza (a eccezione di specifici portatori di vulnerabilità). L’unica modalità di accoglienza rimasta accessibile sono proprio i CAS: parcheggi senza alcuna progettualità, privi di assistenza legale e di connessioni con i territori. Al contempo, la macchina giuridica che macina le domande di protezione nelle Prefetture e nei Tribunali è inefficiente, si inceppa. Ad oggi, i richiedenti asilo attendono in media fra i tre e i quattro anni per vedere concluso il proprio iter giuridico. E nel frattempo?
L’unica modalità di accoglienza rimasta accessibile sono proprio i CAS: parcheggi senza alcuna progettualità, privi di assistenza legale e di connessioni con i territori.
Nel frattempo si fanno spazio come possono. H., ricorrente, ha un contratto di lavoro di quattro mesi. Il precedente datore di lavoro, credendo che il suo permesso di soggiorno non fosse rinnovabile alla scadenza, non ha prorogato il suo contratto in fabbrica. “Anche noi gli abbiamo parlato”, racconta A., operatrice del CAS in cui H. vive, “ma lui non si è fidato. Qui sono molti i datori che non conoscono la normativa sulle persone straniere. Non vogliono avere problemi. E allora li licenziano. Tanto «la manodopera si trova sempre»…” Quello che racconta A. è cruciale. Le difficoltà dei richiedenti asilo vanno aldilà della mera questione economica, non sono riconducibili unicamente al superamento di una soglia reddituale prefissata, per altro spaventosamente bassa. “La precarietà dei richiedenti asilo scaturisce dalla natura stessa del loro permesso di soggiorno: un permesso con scadenza semestrale, anche se rinnovabile alla scadenza, non costituisce una garanzia di lunga permanenza, neanche quando in realtà le pratiche dell’asilo si trascinano per anni.” La breve durata di questo permesso di soggiorno schiude la povertà economica e la questione abitativa come fossero tessere di un gigantesco domino. Un soggiorno breve porta a contratti di lavoro di pochi mesi e senza prospettive, spesso in condizioni di grigio e di sfruttamento. Ma senza garanzie reddituali trovare una stanza o un posto letto in affitto sul mercato immobiliare non è soltanto difficile, è impossibile.
Abitare la lotta
Dopo lo sgombero della Cavarzerani, una parte dei richiedenti asilo è stata trasferita in Sardegna. Decine di loro sono tornati in Friuli dopo poche settimane: alla possibilità di vivere in accoglienza preferiscono tornare in un luogo in cui potrebbero trovare lavoro più facilmente. Lasciare una volta il sistema di accoglienza è un grosso rischio, perché una volta fuori non è possibile rientrarci, anche se per una molteplicità di motivi non si riesce a trovare soluzioni alternative. Per garantire un posto ai nuovi arrivati, tuttavia, non bastano i trasferimenti fuori regione, né i provvedimenti di revoca delle misure di accoglienza. Durante l’estate nuovi richiedenti asilo hanno continuato ad arrivare dalla rotta balcanica, ma in Friuli-Venezia Giulia le prassi nelle Questure, nelle stazioni di polizia e nelle Prefetture sono rimaste le stesse. Nuovi richiedenti asilo hanno visto negarsi un posto in accoglienza, molti ancora riceveranno un appuntamento tra mesi e mesi per formalizzare la domanda di protezione e nel frattempo dormiranno in strada.
Il sole torna a splendere sopra Trieste. La vegetazione del Carso sta iniziando ad arrossire. Le foglie degli aceri resistono all’ultimo soffio di vento estivo, carico di odori dell’est. La rotta ha continuato a calpestare i boschi del Carso e a ritroso quelli della Slovenia, della Croazia, della Bosnia e della Serbia, al ritmo irregolare dei passi di tutti quei piedi. Dormire, alloggiare, abitare. Le storie di migrazione sono storie di case perdute e ritrovate, di case negate e ricostruite. Osservate dal punto di vista dell’abitare, le migrazioni illuminano gli elementi distintivi delle società europee. È come il calco di un volto: di questo moto perpetuo, la casa è lo schema fisso.
La difficoltà dei richiedenti asilo nel trovare una casa nei nostri territori è la cartina al tornasole di un sistema basato sul mantenimento dello status quo. I confini – queste linee che recintano gli Stati nazione – irregimentano la convivenza nelle nostre comunità tramite una distribuzione selettiva dei diritti. Una distribuzione basata sulla condivisione di tre somme cose: suolo, sangue e lingua. Coloro che non ricadono in questa cerchia di privilegiati, quando entreranno nel perimetro della nazione troveranno soltanto nuovi confini. La loro permanenza in Europa non sarà gratuita, e sarà sanzionabile dalla legge. Gli spazi dell’abitare si stringeranno fino a diventare luoghi indegni anche per le persone che il loro passaporto definisce “legali”. Il valore dei loro corpi sarà stimato sulla base della loro forza produttiva.
La breve durata del permesso di soggiorno implica la povertà economica e la questione abitativa come fossero tessere di un gigantesco domino.
Il 22 giugno, il giorno dopo lo sgombero, un presidio si era raccolto nella piazza a due passi da Khandwala. In una calda giornata estiva, circa 200 persone avevano chiesto a Trieste quello che si chiede anche a Udine: condizioni abitative dignitose per tuttə, l’accoglienza per tuttə lə aventi diritto, l’attivazione di un dormitorio e di servizi di bassa soglia da parte del Comune. Il presidio del 22 giugno era stato l’ultima azione di un percorso collettivo iniziato mesi prima intorno al sobborgo di Khandwala. Durante le assemblee indette nel piazzale antistante il Silos, i solidali avevano concordato tra di loro le richieste da portare al Prefetto e avevano discusso i passi successivi. A prescindere da come sarebbe andata, lì la lotta aveva preso senso e direzione. Tra gli attivisti presenti, c’erano anche dei richiedenti asilo – quelli che in Italia ci vivono da tempo e sostengono i compagni appena arrivati. Gli italiani lasciavano il microfono ai ragazzi migranti e ascoltavano. In questa storia di negazioni, per la prima volta non c’erano dicotomie tra oppressi e oppressori. Lo spazio degli uni fluiva in quello degli altri, come in un passaggio di testimone. Khandwala sarebbe stata soppressa dopo pochi giorni, ma il sole brillava sulle pietre gialle.