S e penso a Berlusconi non mi viene in mente niente che non sia stato già detto da altri. Scrivo questo e mi rendo conto che è più o meno la cosa che scrisse Karl Kraus novant’anni fa a proposito di un primo ministro tedesco, il che ci porta a un altro problema complementare: parlando di Berlusconi si finisce per parlare d’altri e d’altro per parlare di lui, o per evitare di parlare di lui. Negli anni è stato paragonato a Superman, Batman, Gesù Cristo, il popolo ebraico, Mussolini, Andreotti, Pertini, Satana, Alessandro il Grande, Topolino, Zio Paperone, un caimano – e molte altre bestie, personaggi storici, di fantasia, entità e astrazioni. Dei paragoni sopra elencati, i primi quattro sono stati proposti da Berlusconi stesso, e il fatto che anche un tale egomane dovesse ricorrere ad altri quando parlava di sé ci dice fino a che punto la narrazione avesse preso il sopravvento sull’uomo.
Molto è stato detto sulla funzione di Berlusconi come fonte di identità: “cosa dice di noi il fenomeno Berlusconi?” è stato probabilmente uno dei più triti argomenti da editoriale sociologico di Repubblica del periodo 1995 – 2011. Se accettiamo per vero lo stereotipo che Berlusconi abbia in qualche modo incarnato l’Italia e il suo bisogno di figure divisive, e se riconosciamo che l’eccesso di narrazione abbia reso l’uomo indistinguibile dalla narrazione stessa, allora l’analisi del discorso su Berlusconi ci può in effetti fare capire qualcosa su di noi – ad esempio può dirci qualcosa sul nostro bisogno di un capo carismatico o di un odioso nemico, di un vendicatore dei torti subiti o di un redentore dei nostri peccati. Trovandosi a scrivere di un soggetto irrintracciabile dietro alle molte maschere ed archetipi dietro cui si è protetto e che gli sono state proiettate addosso, conviene di più studiare la maschera che il soggetto che la indossa; anche perché, si sa, una maschera indossata troppo a lungo finisce per diventare indistinguibile dall’identità, sia per chi la indossa che per chi la osserva. Per semplicità operativa e come presupposto teorico ho quindi deciso di non fare distinzione tra quello che si è detto di Berlusconi e quello che lui è stato “veramente”: sarebbe impossibile, perché la sua identità ha coinciso con la sua narrazione.
Da previsione o auspicio nei primi anni Novanta a dura presa di coscienza nei primi anni Dieci, la cifra che ha descritto la nostra epoca è quella della fine della prospettiva storica. Il ritorno della storia tuttavia si annuncia tempestoso, con le sfide sempre più aperte all’egemonia globale americana: la difficoltà di immaginare un presente diverso, e un futuro che non sia l’iterazione continua del presente, si traducono tra le altre cose nella tentazione del ritorno al passato, e nel ritorno alla ribalta di ideologie tradizionaliste, in qualche modo aggiornate al presente, spesso portate avanti da un qualche tipo di uomo forte. Silvio Berlusconi non è stato un uomo forte in senso classico, eppure il suo carisma, il machismo, le sue promesse profetiche, la fedeltà tra il feudale e il fanatico che gli tributavano sottoposti e sostenitori sono i segni inconfondibili di un uomo forte. Resta da vedere di che tipo.
Abbiamo un redentore che perdona non per generosità ma per necessità, perché i peccati-reati che perdona-condona sono anche e soprattutto i suoi. Un capo che sfugge al giudizio e combatte la legge, sostenuto da un’etica personale costruita come opposizione ad un’etica pubblica nemica e ingiusta – o meglio inaccettabile. Ed eccoci arrivare al paradosso apparente alla base del cosiddetto berlusconismo: come è possibile che milioni di persone si identifichino nell’etica privata e quindi personale di un uomo radicalmente distante da loro per censo, bisogni, desideri, stile di vita, insomma per tutto ciò che normalmente provoca identificazione? O, rovesciando la domanda, come può una legge pensata per applicarsi a un solo specifico individuo diventare la legge di una comunità? Domande simili se le pone chi studia i culti e gli schemi piramidali, rispondendo di solito che il seguace segue il leader nella convinzione di poter essere un giorno lui stesso (come il) leader. In questo specifico caso, possiamo ricorrere direttamente alla narrazione che testimonia del potere mitopoietico del leader: “un ossimoro vivente”, come lo definì sul Foglio Salvatore Merlo il giorno della sua morte biologica, il 12 giugno del 2023.
A un anno da quella data e a tredici dal suo ultimo governo, ho scansionato il discorso pubblico italiano su Berlusconi (articoli, interviste, opinioni) alla ricerca delle rappresentazioni simboliche del personaggio (paragoni, definizioni, descrizioni, metafore), scegliendo quelle più rappresentative, ovvero quelle che ricorrevano così spesso e così diffusamente da far intuire la presenza di un modello – di un archetipo. Il risultato è un ritratto parziale, certamente, ma anche, io credo, utile a descrivere e a comprendere il discorso, e quindi il linguaggio, e quindi la società che hanno prodotto, descritto e creato Berlusconi.
Gesù Cristo
L’Italia non è solo un paese cattolico: è il primo paese cattolico del cattolicesimo, il posto in cui il vescovo della capitale è anche il capo di tutti i vescovi del mondo, dove gli eredi di Pietro hanno conteso la terra ai Longobardi, agli Angioini, al Sacro Impero Germanico e via accoltellando fino al 1871. È il paese delle bestemmie, dei santi patroni, della sovrapposizione tra radici pagane e radici cristiane, della controriforma e dei Patti Lateranensi. Insomma è un paese in cui se hai un approccio pragmatico al potere politico, e nessun debito verso il Vaticano, dichiararsi più o meno esplicitamente come la seconda venuta di Cristo è una buona idea per avere successo.
Bisogna riconoscere che i segni e i simboli si sono manifestati nella persona di Berlusconi, a suggello della grande opera che è stato chiamato a compiere: carisma sacrale, riconoscimento da parte della casta sacerdotale, acclamazione da parte della folla, odore di santità (letteralmente un aroma olfattivo che si manifesta di solito in ospitate televisive, come al Maurizio Costanzo Show, 2001, e a Porta a Porta, 2008); ma anche disposizione al sacrificio, persecuzione da parte dell’autorità giudiziaria, tradimento e rinnegamento da parte dei discepoli, e resurrezione.
La cosa inizia presto, anzi subito, nel 1993, un anno prima del suo ingresso ufficiale nell’agone politico, con un episodio reso pubblico solo tredici anni più tardi: di ritorno da un incontro con lui, il fondatore della setta cattolica Comunione e Liberazione, il presbitero Luigi Giussani, confida a un seguace che “Berlusconi è l’uomo che ci manda la Provvidenza. Dobbiamo seguirlo. Dillo a tutti gli amici” (Il Giornale, 30/8/2006).
Forte di questa benedizione, commentando la propria nomina a Presidente del Consiglio (Conferenza stampa, 27/11/1994) Berlusconi chiarisce che “chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore” e che “c’è del divino nel cittadino che sceglie il suo leader” (anche se dire il vero questa pare più fedeltà tribale pagana che fede messianica), dimostrando di aver vinto l’esitazione di qualche mese prima, quando nel celebre video della “discesa in campo”, l’inizio della sua carriera politica, riconosceva che “l’Italia, (…) giustamente diffida di profeti e salvatori” (Messaggio televisivo, 26/2/1994) . D’altra parte nello stesso video aveva pur sempre annunciato un “nuovo miracolo”, seppure italiano e non divino.
Ben presto la natura divina del novello Cristo viene affiancata da quella vittimaria: già nel dicembre 2000 (intervista con Enzo Biagi), pur ammettendo di aver “fatto un miracolo”, commenta il ritiro della fiducia al proprio governo da parte della Lega Nord di Bossi dicendo che “perfino a Gesù è capitato di ritrovarsi tra i dodici apostoli uno che si chiamava Giuda”. Si può qui osservare per la prima volta quella che diventerà una costante: Berlusconi sarà Cristo trionfatore nei momenti di successo, e Cristo crocifisso nella sconfitta, con Cristo risorto a mediare tra i due poli. A queste tre nature si aggiunge, completandole, quella del salvatore. Si tratta della più delicata delle funzioni messianiche: un messia che non salva nessuno sarebbe difettoso (se non ne fosse capace) o direttamente un truffatore (se non ne avesse intenzione), e in entrambi i casi non riuscirebbe a conquistarsi un gregge. Berlusconi decide di non correre rischi e sceglie di salvare il gregge più ampio possibile dal pericolo più remoto possibile: proteggerà l’Italia dai comunisti: “ho scelto di scendere in campo (…) perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare. (…) [Sento] il dovere civile di offrire al Paese una alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti” (Messaggio televisivo, 1994).
La cosa inizia a farsi strada, qualcuno lo definisce già “immortale” (Corriere della Sera, 24/11/2007), e lui d’altra parte rassicura ancora di “[essere] un santo” (10/7/2008) – anche se dadaisticamente ritratta un anno dopo con “non sono un santo” (22/9/2009), per poi contro-ritrattare dichiarando: “dopo il terremoto ho fatto un vero e proprio miracolo: vi dico solo che quando vado in Abruzzo mi trattano come un santo” (corriere.tv, 4/1/2013). Preparato il terreno con generiche affermazioni della propria cristità, passa al citare direttamente i Vangeli: “Padre perdonali, non sanno cosa fanno” (Repubblica, 16/3/2004); “a Veltroni ho detto, testualmente: io sono il tuo Messia perché posso liberarti dall’abbraccio mortale con la sinistra estrema” (Corriere della Sera, 9/1/2008); “lasciate che i bambini vengano a me” (17/1/2009)”.
Solo un democristiano inflessibile come Pierferdinando Casini rifiuta pubblicamente di riconoscerlo come nuovo messia (“Berlusconi come Gesù? Non diciamo sciocchezze”, 12/2/2006): persino la Chiesa Cattolica si tiene al di fuori della controversia, limitandosi ad approvare per voce di qualche anonimo ministro vaticano l’isolata ammissione di non-santità del 2008 (La Stampa, 23/7/2009). Per altri, laici forse privi di fiuto spirituale o poco abituati al contatto col divino, la conversione è travolgente: alcuni lo riconoscono prima di altri, come il senatore Antonio Razzi – “lui è il mio Messia, per lui potrei morire” (19/6/2013) – e Daniele Capezzone: “i garantisti di sinistra (…) non si illudano: non praevalebunt” (‘non prevarranno’, dal Vangelo secondo Matteo, 16 17-19, in origine riferito al trionfo della Chiesa sulle porte degi inferi); opinioni condivise anche da alcuni anonimi sostenitori che dopo la sua condanna per frode fiscale sfilano con cartelli come “la beatitudine Silvio il migliore di sembre (sic) santo subito voialtri siete in malafede pentitevi” e dichiarano “la giustizia umana no! Perché anche Gesù, Dio (e) uomo è stato condannato da tre tribunali” (4/8/2013).
Il 2011 segna la fine della supremazia politica simblica di Berlusconi, ovvero della sua vita politica, un evento che coerentemente viene interpretato secondo la categoria del sacrificio dell’innocente: tra le molte occorrenze del tema, citiamo tra le più potenti “Berlusconi sacrificato? (…) immolato sul’altare di un accordo sulla crisi dell’eurozona [?]” (Il Sole 24 Ore, 26/10/2011), e “Berlusconi finì immolato sulla pira” (Tempi, 2/11/2014). Da questa morte simbolica in poi ogni rimonta nei sondaggi, ogni archiviazione di processo, ogni minimo successo elettorale o diagnosi medica dilatoria è una “resurrezione”. “Berlusconi ‘risorto’ nelle strade di Roma” (La Repubblica, 21/1/2014); “La resurrezione di Berlusconi” (Paolo Becchi, Colpo di Stato permanente, 2014); “Silvio Berlusconi è risorto?” (formiche.net, 17/6/2015); “Che miracolo, resuscita Silvio” (Libero, 31/5/2017), e così via fino all’auspicio vagamente iettatorio di Gianni Letta “la strada della rinascita se non della resurrezione è imboccata”, due mesi prima della morte (8/4/2023). Unica voce contraria Gad Lerner in un isolato articolo del 2014, “Berlusconi non è risorto” (Il Post).
Come da tradizione cristologica, però, è con l’avvicinarsi della fine e con la fine stessa che l’uomo viene finalmente riconosciuto come divinità. Si comincia con i pellegrinaggi, tra cui spicca quello di un pensionato calabrese che “[è] venuto direttamente per zio Silvio e [ha] portato l’abitino votivo, una bottiglietta con l’acqua santa di San Francesco di Paola e dei santini” (Il Giornale, 10/4/2023), acqua nota per fare resuscitare le trote, come spiega un frate dell’omonimo convento – e se il pesce è simbolo di Cristo e Berlusconi è figura di Cristo, allora magari c’è quest’acqua santa dietro le sue dimissioni dall’ospedale un mese dopo.
L’ultima resurrezione, la partecipazione alla convention di Forza Italia dopo le dimissioni dall’ultimo lungo ricovero, serve da prova generale per il compimento dell’identificazione di Berlusconi con Gesù Cristo. Viene raccontata sia da Berlusconi che dai media in toni evangelici: lui descrive il partito come una “religione laica (…), della libertà, del cuore, della mente”, e i suoi dirigenti come “santi laici, della libertà e del benessere”; Repubblica accetta la metafora con un articolo intitolato “Berlusconi riappare ai suoi discepoli”, in cui si parla di “evento messianico”, di “parabola: la cacciata dei comunisti dal tempio”, di “discepoli” appunto, e di “autocanonizzazione” (6/5/2023).
Ma è il decesso finale a dare il via all’agnizione di massa. Si raccoglie aneddotica utile alla canonizzazione: c’è chi ricorda la profezia ricevuta (“le do una dritta: quando uscirà la notizia della mia morte, prima di prenderla per buona lasci passare tre giorni”), in un articolo che lo descrive come l’Alfa e l’Omega, sintesi di ogni cosa (“La politica? Lui. Il calcio? Lui. La tv? Lui. (…)”, seguono altri sette “lui”, Corriere della Sera, 13/6/2023); “un uomo che per avere ragione adorava presentarsi come vittima, al punto da arrivare ad infliggersi il martirio da solo” (Corriere della Sera, 14/6/2023); “non saremo degni di continuare la storia di un grande uomo come Silvio Berlusconi, che si è immolato per difendere i principi di libertà” (Convention di Forza Italia, 18/11/2023). Tra tutti spicca per ardore agiografico Il Giornale (16/6/2023), che ricorda come un giovane tifoso milanista si svegliò dal coma dopo aver ascoltato una registrazione della Sua voce, e per non lasciare spazio a dubbi titola sobriamente “Il miracolo di Berlusconi” (nel sottotitolo si precisa: “uno dei suoi tanti miracoli”), lamentando poi “la sua perdita [che] ha lasciato un vuoto. Dentro ognuno di noi. Lo ha lasciato a chi lo ha amato e anche a chi lo ha combattuto, perseguitato. Quasi odiato”, e celebra “la forza, gentilezza, generosità di un uomo che si è sempre dato. Per tutti”, per poi proclamare che “ci ha fatto sperare, credere”, e che “in tanti gli devono qualcosa e c’è chi gli deve la vita”. Sacro e mondano si affiancano in armonia, come quando la richiesta di aiuto del padre del giovane tifoso viene definita sia “una preghiera” che “una cortesia”, esprimendo bene la natura di messia laico del defunto, che “non si risparmiò” nel registrare quell’ “audio di ben 15 minuti”.
Parlare di Gesù in politica equivale per contrasto a evocare l’ombra di Barabba, figura che nonostante la buona affinità con Berlusconi (se non altro nelle fortune processuali) non è mai stata davvero sfruttata per descriverlo. È un peccato, e non se ne capisce immediatamente il motivo, perché un redentore che rifiuta la trascendenza e combatte per un regno e una giustizia terreni avrebbe potuto ben rappresentare la contraddizione berlusconiana (ricordiamo infatti che, lungi dall’essere un criminale comune, Barabba era un capo politico-militare dell’insurrezione ebraica contro i romani). Per contraddire questa tendenza e avere almeno un caso da archiviare dobbiamo ricorrere al più fissato tra gli antiberlusconiani d’Italia, Marco Travaglio: “Berlusconi dice che (…) da sempre il popolo, tra Gesù e Barabba, sceglie Barabba? Se fosse così si spiegherebbe perché gli italiani hanno scelto 3 volte in 20 anni Berlusconi. E comunque è lui che ricorda di più Barabba, visto che è un pregiudicato” (Otto e Mezzo, 22/5/2019) – ma dobbiamo notare che si tratta più di reazione a uno stimolo che di iniziativa propria, dato che si limita a rovesciare l’ennesimo paragone con Cristo.
Proviamo a tirare le somme di questo vertiginoso viaggio nel Berlusconi messianico. L’identificazione pare completa: tutti i cristo-criteri sono stati rispettati, sacrificio e salvezza del gregge inclusi (è un fatto ineluidibile che i comunisti non abbiano conquistato l’Italia). Eppure, se un alieno atterrasse in Italia e volessimo spiegargli le affinità tra Berlusconi, Gesù e Barabba, sarebbe difficile convincerlo che un capo di partito, intrallazzone e profano, sia stato giudicato più affine all’archetipo dell’uomo senza peccato che a quello del farabutto. Tuttavia dobbiamo ricordarci che queste identità non sono analitiche quanto strategiche. La simpatia per il personaggio nasce certo dalle sue caratteristiche più ribalde, ma è impensabile ammetterlo pubblicamente: e quale modo migliore per occultare questa inconfessabile ed evidentissima identità archetipica che investire tutto sul suo opposto polare? Stando agli esperti, in ogni peccatore c’è l’intimo, segreto desiderio di emanciparsi dal peccato, ma essendo l’Italia un paese di medi e non estremi peccatori non c’è in noi un desiderio di redenzione bruciante quanto quello di una complicità indulgente. Quale guida migliore quindi di un Barabba in veste di Cristo, o di un Cristo dagli istinti da Barabba?
Anima del gioco
Secondo un’abusata e forse apocrifa citazione di Winston Churchill “gli italiani perdono le partite di calcio come fossero guerre, e le guerre come fossero partite di calcio”. Non sarà riuscito difficile quindi per il pubblico britannico capire cosa intendesse Bob Lasagna, ex dirigente della agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi e consulente alla prima campagna elettorale di Forza Italia, in un’intervista con la BBC: “la strategia, per Berlusconi (…) è stata, prendere la politica e poi sostituire la politica col calcio (….) è stata di portare 999 italiani su 1.000 a parlare di politica come parlano di calcio” (BBC’s Late Show, 26 September 1994). Un insider dal nome jacovittiano che in poche parole spiega un fenomeno complesso e ci fornisce la prospettiva su cui basarne l’intera analisi è il tipo di fonte che fa felice chi come me fa dietrologia linguistica. Con un tale preambolo possiamo saltare interamente l’introduzione e passare direttamente al lavoro.
Partiamo dall’inizio: una delle identità fondative di Berlusconi è stata quella di Presidente – Presidente del Milan, tra le altre cose. Essere un imprenditore ricchissimo aiuta a livello pratico chiunque voglia costruirsi una carriera politica, ma mai quanto essere l’uomo che salva una delle più nobili squadre italiane dalla bancarotta e la porta a vincere cinque scudetti e tre Champions League in sei anni. I successi personali di Berlusconi come immobiliarista ed editore parlano al pubblico delle sue abilità concrete, ma è con il calcio che conquista il cuore dei suoi elettori. Nessuno si appassiona a fusioni societarie e strategie aziendali, ma il boato dello stadio parla alla nostra natura più intima e inconscia.
Alla luce della strategia illustrata da Lasagna, tutto diventa di facile comprensione, a partire dal nome del partito: Forza Italia, il grido di incoraggiamento della Nazionale. Chi sta con noi è prima di tutto un italiano, e subito dopo un tifoso, più che un elettore da convincere. Chi ci vota in fondo non lo fa davvero per il nostro programma, ma per i sentimenti che prova. Forza Italia peraltro non è presentata come un partito, come notano Elena Semino e Michela Masci in un incredibile paper del 1994 a cui devo alcune intuizioni fondamentali, ma come una squadra supportata da un movimento che nasce dal bisogno di unità degli italiani, dal bisogno di sentirsi italiani – dagli azzurri, stesso nome per candidati ed elettori, questi ultimi organizzati non in circoli ma in club, sul modello dei Milan Club sparsi per la penisola. La coalizione del 1994 è “una squadra vincente” che “scende in campo” guidata dal “centravanti” Berlusconi, che dichiara esplicitamente: “nel paese ci deve essere una parte che governa e una parte che sta all’opposizione e per arrivare a questo occorre aggiungere voto a voto, consenso a consenso, così come una squadra, quella delle sinistre ha già fatto e così come deve fare la squadra liberal democratica se non vuole consegnarsi alla sconfitta” (6/2/1994).
Per funzionare, la metafora deve diventare totale, e anche gli avversari diventano “una squadra”: quella perdente, ovviamente, nelle intenzioni e nei fatti, come sempre succede quando il tuo avversario cambia le regole non scritte senza che tu te ne accorga. La potenza del nuovo frame narrativo infatti è tale da passare inosservata all’Alleanza dei Progressisti, ancora convinti di partecipare a un’elezione novecentesca, per giunta libera dalle costrizioni della Guerra Fredda, non capendo che si tratta invece della prima elezione di una nuova fase della democrazia liberale, che adesso diamo per scontata e che riconosciamo ad esempio nel successo di Trump – un successo che il Partito Democratico statunitense fatica ad arginare perché, come la sinistra italiana trent’anni fa, pensa ancora in categorie politiche ormai inadeguate. (Non è rassicurante notare che una vittoria del Partito Repubblicano significherebbe che ad essere sorpassate dai tempi siano cose come la separazione dei poteri dello Stato e il rispetto dei risultati elettorali, ma tant’è).
Con queste premesse, la competizione e la vittoria trascendono la politica e diventano esperienze esistenziali e pre-razionali come le partite di calcio: “così ho sentito cha la partita si faceva pericolosa, che era tutta giocata nelle aree di rigore e che il centrocampo era desolatamente vuoto (…) e ci siamo detti che non potevamo lasciare quell’immenso spazio libero” (26/2/1994), “io il successo me lo sono meritato, come Franco Baresi che si è fatto i suoi miliardi giocando da grande difensore” (7/4/1994), “io sono come un centravanti acquistato per fare 30 gol, a cui i compagni non hanno fatto i passaggi giusti e gli avversari hanno spaccato le gambe. Lasciate lavorare il Centravanti” (24/12/1994), fino alla rottura della metafora e al passaggio da essere-come-un-campione a essere-un-campione: “ho insegnato al Milan come si gioca al calcio” (23/3/2001) – o un ex-campione: “rimango a fianco dei più giovani che debbono giocare e fare gol. Ho ancora buoni muscoli e un po’ di testa” (24/10/2012).
Una delle implicazioni più strane di questa prospettiva è che inconsciamente i tifosi-elettori finiscano con l’aspettarsi dalla vittoria nient’altro risultato che la vittoria stessa, così come la vita di un milanista non cambia nella sua concretezza dopo aver vinto il derby: quindi le promesse non mantenute, gli scandali, la sostanziale inefficacia dell’azione di governo (quando non la sua aperta ostilità verso il cittadino, come nel caso delle riforme dei sistemi educativo e ospedaliero), tutte queste cose non diventano mai un motivo per smettere di tifare-votare Forza Italia, perché non era quello che contava davvero: quello che contava davvero era l’agonia della gara e la gioia estatica della vittoria, o meglio dell’aver battuto il nemico, o meglio ancora di aver evitato la sconfitta. Come i tifosi di solito infatti ben sanno, spesso la soddisfazione di aver vinto non è altrettanto intensa quanto la frustrazione di aver pareggiato o la rabbia di aver perso. La vittoria calcistico-elettorale diventa quindi solo momentaneo sollievo, fragile consolazione dello scampato pericolo, e, quello che più conta, tormentoso rinnovo della paura di perdere, accresciuta dalla responsabilità di mantenersi vincitori.
Berlusconi se non altro sembra sempre aver agito in istintivo accordo con questa mentalità, che ancora una volta precede la carriera politica, come quando dichiara: “tutte le cose di cui mi occupo sono profane; ma il Milan è sacro” (27/7/1988) – una cosa che magari appare sacrilega a un cristiano devoto ma perfettamente sensata e anzi sensibile per un greco antico ai Giochi Ellenici, un azteco davanti a una partita di pelota, o un tifoso che aspetta il fischio d’inizio. Se il calcio è quanto resta del paganesimo nella nostra società cattolica, non stupisce che l’eulogia di Tuttosport, dedicata apparentemente al Berlusconi presidente del Milano ma sostanzialmente al Berlusconi politico, sia in fondo più sincera e adeguata di quello pronunciata in Duomo: “ha vinto tutto e più volte, in modo trionfante, a volte schiacciante, magari esagerato, tracotante, perfino volgare, ma ha vinto, che nello sport non è, e non sarà mai, un dettaglio” (13/6/2023).
Patriarca
“In senso ampio e generico, e con riferimento al più antico ordinamento sociale, il capo di una grande famiglia, che ha piena e indiscussa autorità su tutti i suoi discendenti. Nell’uso odierno, per estensione, la persona più anziana e più autorevole di un gruppo o in un campo di attività” (questa e tutte le successive definizioni sono prese dal dizionario online Treccani). In ambo i sensi, non c’è dubbio che Berlusconi sia stato un patriarca. Se vogliamo, con l’aiuto dell’antropologia, allargare il campo alla politica, è ancora più evidente quanto sia stato l’alfiere del patriarcato nel panorama pubblico italiano: perché se nessuno può negare che abbia incarnato un “tipo di sistema sociale in cui vige il ‘diritto paterno’, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo”, è altrettanto certo che sia stato il maggiore rappresentante del potere maschile sulla donna, nella sua accezione più carnale, pubblicizzandolo e giustificandolo dai massimi livelli della classe dirigente.
Uno dei suoi epiteti classici, Papi, ci parla proprio di questo, e il fatto che gli sia stato tributato ormai verso la fine, nel 2009, sa più di riconoscimento di una onorata carriera che di aggiunta posticcia – tanto più che gli è stato conferito da una giovane donna frequentata all’epoca, Noemi Letizia. (Per una certa ironia storica, Berlusconi convidide il soprannome solo con politici dell’opposto spettro politico: “piccolo padre” era uno degli appellativi di Stalin, ed è ancora così che Lukashenko viene talvolta chiamato dalla stampa bielorussa). Berlusconi stesso non ha mai fatto mistero del suo profondo legame col sesso, sempre più esibito col passare degli anni, tale da far dubitare a volte che fosse una semplice pulsione, quanto piuttosto un dovere a cui assolvere – per ossessione? O per sfoggiare una virilità su cui basare il proprio prestigio di capo? Per Guido Ceronetti “la maialità senile è enigma e dramma maschile. Il vecchio perde il ritegno più per disperazione che per vizio” (La Stampa, 15/7/2008). La ex moglie Veronica Lario, più concisa, commenta: “non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni. (…) Mio marito è un uomo malato” (quest’affermazione, così perentoria, viene spesso citata da giornalisti e commentatori a partire dall’affaire Letizia del 2009, e tuttavia risulta irreperibile nella sua versione originale. La prima attestazione è in un articolo di Famiglia Cristiana del 2010). E in effetti a volte dietro al vitalismo esibito pare di scorgere, se non la paura della morte, perlomeno una certa consapevolezza del ticchettare del tempo: “stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: ‘Presidente, ma se lo abbiamo fatto un’ora fa…’. Vedete che scherzi che fa l’età?” (L’Unità, 2/7/2010).
Quale che sia il motivo, l’uomo ha sfoggiato fino all’ultimo quello che potremmo definire un priapismo morale. A volte sembrava che il sesso gli uscisse di bocca, concreto come la parola che esce dalla chiostra dei denti simile a freccia dall’arco o a bestia dal bosco secondo Omero. Riesce mirabilmente a parlarne persino in occasioni dove apparentemente non c’entra niente, come durante l’inaugurazione della prima linea Freccia Rossa: “dite la verità: vi piace il presidente ferroviere, eh? […] Ah sì? Io invece preferisco il presidente puttaniere”(Dagospia, 18/7/2009), o come quando a cena con esponenti di partito rivela che gli piacerebbe intitolare la propria autobiografia “Il Santo Puttaniere” (ibid.).
Parla così tanto e così significativamente di sesso da far pensare che voglia dirci qualcosa, forse convincerci, convertirci a questa sua visione del mondo, questa sua sorta di religione laica. Il proselitismo si fa a volte esplicito e rivendicato, come quando, forse per sensibilizzare sul tema degli stupri di migranti nei campi di detenzione finanziati da Italia e Unione Europea, racconta: “sono andato nei centri di accoglienza e non ho visto bidet. Ho cercato di dire che erano necessari, ed ho pensato: voglio insegnare a questi scopatori libici che anche i preliminari sono importanti” (visita a Ischia dopo il terremoto, 14/10/2017).
Ci sono tre punti di vista al riguardo: uno favorevole; uno critico; e uno per così dire neutrale, che si limita a prendere atto del fenomeno.
Ad esprimere il primo sono commentatori (maschi anziani bianchi cisgender senza eccezione, per usare espressioni del nostro tempo) che intendono “patriarca” come titolo onorifico, laico o sacrale: non sono molti, ma la qualità compensa la scarsità. Berlusconi stesso innnanzitutto si definisce così nell’intervista celebratoria dei suoi ottant’anni con Alfonso Signorini (Chi, 29/9/2016): “cinque figli e dieci nipoti fanno un patriarca. E io questo mi sento”. Patriarca eclettico però, dobbiamo notare, dato che considera la figlia Marina “madre, sorella e figlia”. Lo ribadisce poi Vladimir Putin nel suo elogio funebre, e si può dire che sa di cosa parla, data la sua affinità con il Patriarcato Ortodosso di Mosca e l’importanza della Tradizione nella sua ideologia politica: “era giustamente considerato il patriarca della politica italiana e godeva di grande prestigio internazionale” (telegramma alla Presidenza della Repubblica, 12/6/2023), grazie a tipiche virtù patriarcali come “la sua saggezza, la sua capacità di prendere decisioni equilibrate e lungimiranti anche nelle situazioni più difficili”.
Chi invece la vede in modo critico raramente lo esprime a zero layer: più spesso prevale l’approccio ironico o sarcastico, che prende in prestito la figura tragica del vecchio dittatore senza nome del romanzo di Garcìa Màrquez: “L’autunno del patriarca” è il frame narrativo con cui si raccontano i suoi ultimi anni, invocato già dal 2009 (La7, Omnibus, 27/08/2009) e poi sempre più spesso e in toni sempre più cupi a partire dalla caduta dell’ultimo governo Berlusconi nel 2011: “nell’autunno del patriarca, il vocabolo ‘decadenza’, variamente declinato e inteso, sostituisce ‘modernità’” (L’Espresso, 26/11/ 2013); “sono cambiati il Capo e l’epoca. (…) Siamo in primavera, ma è l’autunno del patriarca.” (formiche.net, 15/4/2015); “il lunghissimo autunno del patriarca Berlusconi” (La Repubblica, 29/5/2015); “tanto il corpo suggerisce riposo, tanto il patriarca nel suo autunno prova a resistere uguale a se stesso” (Huffington Post, 7/6/2016); “l’autunno dell’inventore del partito-azienda si consuma nell’aspirazione di diventare presidente della Repubblica” (strisciarossa.it, 29/9/2021); “il patriarca vive il suo autunno circondato da cattivi e irrispettosi consiglieri. Abbandonato persino dai suoi fedelissimi nani di Corte” (Affari Italiani, 20/2/2023, primo a citare ed evocare la “tiepida e tenera brezza di morto grande” con cui si sveglia un giorno il paese del romanzo); fino a diventare un topos nelle retrospettive dei giorni dopo il decesso, tra cui scegliamo per lirismo quella di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 14/2/2023), che evoca ancora la “brezza di morto” come un miasma che torna ad ammorbare il paese dalla tomba, a mantenere viva l’eredità “[del]le sconcezze di un potere senza freni, senza limiti né confini”.
Ma “patriarca” diventa un semplice epiteto funebre per molti giornali (dal Corriere della Sera al Fatto a Latina) , che può anche sostituire il nome, senza valutazioni di merito; questa neutralità va però considerata alla luce della norma aurea dei coccodrilli giornalistici di non parlare male dei morti. Se il termine avesse avuto accezione negativa non sarebbe stato usato, e quindi il suo uso è da intendersi in tono positivo. Direi quindi che è questo che lega in modo definitivo l’uomo all’archetipo: il fatto che anche nella morte sia stato utile a difendere un ordine simbolico in cui si riconosceva e che è sempre più minacciato dalle guerre culturali contemporanee.
Re
La democrazia è una forma di governo dalle radici antiche ma dalla vita giovane. Tralasciando il dibattito sullo schiavismo ateniese e americano, o quello sull’appartenenza o meno delle monarchie costituzionali al campo democratico, possiamo dire comunque che sia una “forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico”. L’Italia contemporanea basa gran parte della sua identità sul suo essere una democrazia – e in effetti poche cose sono così democratiche come vincere un referendum a suffragio universale contro la monarchia, e per i suoi primi 55 anni di vita è stata governata, pur se ininterrottamente e quindi secondo alcuni maligni non troppo democraticamente, da un partito che omaggiava questa identità nel nome stesso, la Democrazia Cristiana.
Che sia stata la caduta della Prima Repubblica o il desiderio sotterraneo di un condottiero da seguire, l’ingresso in politica di Berlusconi ha dato la stura a un certo linguaggio monarchicheggiante. Prima di lui solo Andreotti e Craxi erano stati retoricamente incoronati, e quasi mai con accezione positiva ma piuttosto alludendo a una sorta di potere occulto e oscuro. Tra i suoi contemporanei notiamo l’ambigua regalità di Re Giorgio Napolitano, onorifica o biasimevole a seconda dell’allineamento politico di chi ne parla.
Il tabù resta in vigore quasi sempre, come vedremo: fino all’ultimo la monarchicità di Berlusconi è implicata più che dichiarata. Come spesso accade, è lui stesso a impostare il discorso: “non ho scelto io la politica: mi è stata imposta dalla Storia”, annuncia senza falsa modestia per giustificare la sua discesa in campo nel 1994; e ne approfittiamo per notare che il campo, oltre a essere quello da calcio, può ben essere quello di battaglia su cui i re antichi calavano a cavallo. Da queste premesse, non stupisce che più che una campagna elettorale Berlusconi bandisca una vera e propria crociata chiamando a raccolta “l’elettorato cattolico, il grande esercito del volontariato e la grande armata degli uomini di buona volontà” (febbraio 1994), o che pronunci una sorta di voto guerriero per galvanizzare le truppe: “rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere la mia esperienza a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione e con la più grande fermezza” (gennaio 1994). In quesi primi mesi del 1994 la retorica arriva a sembrare quella di un paese prossimo alla guerra: “è per questo (…) che noi siamo qui (…). Quando c’è un pericolo per il paese, c’è una chiamata, quando il pericolo è grande, c’è una grande chiamata (…) questa specie di chiamata alle armi! (…) Io credo che mai come ora l’Italia abbia bisogno (…) di uomini che vengano dalla trincea della vita e del lavoro” (febbraio 1994). A contrastare questo incipit napoleonico arriva qualche anno dopo, altrettanto sincero, una bella espressione di istinto ancien régime: “i DS sono i mandanti delle procure giacobine”, temperata, va detto, da un parziale riconoscimento della separazione dei poteri statali: “noi non attacchiamo la magistratura, ma pochi giudici che si sono fatti braccio armato della sinistra per spianare a questa la conquista del paese” (1/12/1999).
Quando però la Storia chiama, l’uomo è pronto ad assumersi le proprie responsabilità: nel supportare l’intervento statunitense in Afghanistan pronuncia parole degne di un Carlo Martello liberale: “l’Occidente deve avere la consapevolezza della superiorità della sua civiltà che ha garantito benessere largo e il rispetto dei diritti umani, di quelli religiosi, che non c’è nei paesi islamici, il rispetto dei diritti politici” (26/9/2001) (ci azzecca meno quando garantisce che la guerra sarà senza vittime civili, ma tra tutte le cose non ha mai detto di essere un veggente quindi non possiamo fargliene una colpa). Il suo diritto al comando è quello del primus inter pares dei primi imperatori romani – “dimostrerò nero su bianco di essere eticamente superiore agli altri protagonisti della politica europea” (11/1/2002) – e addirittura più profondo, intrinseco: “non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, che ha la storia che ho io. Da un punto di vista personale se c’è qualcuno che ha una posizione di vantaggio questo qualcuno sono io. Quando mi siedo a fianco di questo o quel premier o capo di stato, c’è sempre qualcuno che vuole dimostrare di essere il più bravo, e questo qualcuno non sono io. La mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano” (7/3/2001).
Afferiscono all’archetipo del re e del condottiero anche due dei soprannomi più iconici di Berlusconi, il cavaliere e il presidente.
Iniziamo col più antico. Berlusconi viene decorato “all’ordine del merito del lavoro” nel 1977, un’onoreficenza che premia tra le altre cose la “specchiata condotta civile e sociale”, l’ “autonoma responsabilità” negli affari e l’adempimento agli “obblighi tributari”. Secondo la leggenda è Gianni Brera in persona, bardo calcistico e vero poeta dell’Italia del secondo dopoguerra, a imporre il titolo nel discorso pubblico. La sua efficacia sta prima di tutto nel suo anacronismo e nella polisemia che ne consegue: un cavaliere, un membro dell’aristocrazia guerriera che ha dominato l’Europa per millenni, che viene ordinato non dal suo sovrano ma da un presidente in nome del popolo sovrano; e che quindi porta nel mondo democratico e moderno un’autorità e un potere ancestrali. La proficua contraddizione si accentua nell’evoluzione del soprannome, “il Cav.”, dall’abbreviazione del titolo associata alla firma ufficiale, un’espressione di affetto familiare e tipicamente borghese-milanese-anni-’80, non a caso adottata dal Giornale, suo personale coro sulla scena pubblica.
“Faccio il mestiere di presidente”: così Berlusconi stesso, in un’intervista su Repubblica nel 1988 a tema Milan, si sceglie l’epiteto, con una formula che in cinque parole dice moltissimo del personaggio che si appresta a diventare. Anche la forza di questa frase che suona come una battuta sta nel suo essere sintesi di un contrasto, quello tra la concretezza quotidiana del “mestiere” e l’autorevolezza, l’esclusività del “presidente”: termini il primo più da lavoratore che da professionista, più operaio che borghese (una retorica che ritroveremo anni dopo, questa volta esplicita, quando si definirà “presidente operaio”), il secondo invece evocativo dei più alti livelli della gerarchia sociale. Da questo contrasto nasce l’immagine di un uomo che fa il presidente come altri fanno l’idraulico o il muratore: qualcuno che di lavoro presiede consigli di amministrazione, società sportive, e perché no consigli dei ministri – qualcuno che viene chiamato quando c’è qualcosa da presiedere con successo. In questo modo viene presentata al pubblico la triplice equazione “imprenditore di successo = condottiero sportivo (e quindi militare, come abbiamo visto) = guida politica”, e, quel che più conta, viene presentata implicitamente, con la naturalezza del dato di fatto. Da qui in poi Berlusconi è il Presidente, e i confini tra impresa, sport e politica si fanno sfumati, e ogni campo semantico trae forza dagli altri, e il Presidente da ognuno e tutti e tre. Conseguenza non meno importante è che l’autorità del presidente societario o sportivo, tanto più indiscussa quanto è quello che ci mette i soldi, viene trasposta nell’ambito della democrazia rappresentativa, dando origine a un equivoco su cui si basa l’intera concezione berlusconiana del potere, e la sua sincera difficoltà a comprendere i limiti del proprio ruolo istituzionale. Essere questo tipo di Presidente consente infatti a Berlusconi di pensarsi (e talvolta agire) sovrano, e allo stesso tempo di legittimarsi come rappresentante della volontà popolare.
Come vedremo, e come abbiamo già visto per la cristità, la maggior parte dei commentatori aspetterà però il decesso per accettare la sua regalità (in una interessante rivisitazione della formula assolutista francese “il re è morto, viva il re”). Berlusconi stesso smorza i toni in un intervento al Senato (21/6/2011), contraddicendo in pubblico il motto di Luigi XV e assicurando che “dopo di [lui] non ci sarà il diluvio” (e chiosando cripticamente “so bene che i cimiteri sono pieni di persone che si ritenevano indispensabili”, a metà tra Enrico IV ed Eric Cantona) – non convincendo comunque i francesi, se qualche anno dopo il quotidiano economico francese Les Echos gli dedica un articolo che si apre così: “‘Dopo di me il diluvio’: Silvio Berlusconi, monarca assoluto della destra italiana (…)” (31/3/2016, traduzione mia). Nel frattempo possiamo contare comunque su pagine Facebook come SILVIO BERLUSCONI RE D’ITALIA (attiva dal 2010 al 2016. 921 followers), e sull’occasionale sparata carolingia da difensore d’Europa, come l’auspicio di “un Occidente unito e forte, anche nuclearmente forte, con gli arsenali nucleari degli Stati Uniti, di Russia, Inghilterra e Francia, [che] potrebbe costituire un deterrente che potrebbe evitare un’immigrazione di massa da parte degli africani verso l’Europa. Sono un miliardo e mezzo e potrebbero diventare nei prossimi vent’anni due miliardi e mezzo” (13/10/2019).
A dare discretamente il la, qualche giorno prima del trapasso, ci pensa un cortigiano impeccabile come Vittorio Feltri, che ribatte sul tema del primus inter pares: “non sono credente ma prego per il miglior italiano che c’è” (6/4/2023). Una dopo l’altro suonano le risposte al richiamo, tra cui scegliamo quella del Foglio (17/6/2023) che titola, shakespeariano: “L’ultimo atto di Berlusconi: ‘Il re è morto’ e non è il momento di essere sobri”, e in effetti non si lascia frenare dalla sobrietà ricordandolo come “una perturbante variazione moderna dei re sacri dell’Africa subsahariana”, un “re divino”, “uno di quei sovrani arcaici dalla cui integrità fisica e dalla cui potenza sessuale dipendevano la salute o la rovina, la fertilità o la desolazione della città”, “[il cui] regno non era che un’estensione smisurata del suo corpo che aspirava a inglobare tutto”, “un Edipo a Cologno, il re appestato che dal trono diffonde via etere il contagio su tutta la città” (da apprezzare la fantasia lisergica dell’articolista, che immagina l’“ultima follia di Emilio Fede che aspira a gettarsi sulla pira come una vedova indiana”). Impossibile però non citare anche Denis Verdini che sul Tempo (13/6/2023), lo paragona a Luigi XIV e Napoleone con toni da vassallo barocco: “Berlusconi, sovrano inattaccabile e generoso: la sua luna non è mai tramontata” (…). È morto Silvio l’immortale (…) entrato nei libri di storia prima ancora di morire, come condottiero delle imprese impossibili (…)”, e ricorda nostalgico i “troppi servili encomi e altrettanti codardi oltraggi che lui ha sempre schivato con la postura gentile e beffarda di chi, nato come primattore, vive coi piedi piantati in una realtà di caratteristi da dominare, blandire, spremere, premiare e all’occorrenza accantonare”.
Genio/mago
Un ben noto luogo comune ci dice che buona parte del successo di Berlusconi risiede nel suo rifiuto della missione educativa della politica, che era stata una delle ideologie fondanti della Prima Repubblica. In un coccodrillo sul Corriere della Sera (13/6/2023), Massimo Gramellini la spiega così: “quel pubblico che la Rai democristiana e comunista cercava di spingere verso il liceo a colpi di prediche e polpettoni, Berlusconi lo ha trattenuto nel paese dei Balocchi, ammannendo svago e facilità come l’omino di burro che trasforma Pinocchio in un ciuchino. Anche se, quando glielo dissi, mi rispose che il personaggio della favola in cui più si riconosceva era la Fata Turchina”. La magia (“pratica e forma di sapere esoterico e iniziatico che si presenta come capace di controllare le forze della natura”) sembra una categoria particolarmente adatta attraverso cui guardare a Berlusconi, prima di tutto per la sua intrinseca amoralità: bene e male vengono dimenticati nella meraviglia dell’impossibile che si manifesta tra noi non iniziati, ad opera di un individuo straordinario.
A partire dalla sua imprevista e forse imprevedibile vittoria alle elezioni nazionali del 1994, vero e proprio mito fondativo pubblico del berlusconismo, e prima ancora dal misterioso successo imprenditoriale degli anni Settanta, un alone di magia avvolge la figura di Silvio Berlusconi (e se volessimo fare etimologia arcana: Silvio, “abitante dei boschi”, ambiente fatato per eccellenza, è anche il nome del primo figlio del semidio Enea e di Lavinia, proto-fondatori di Roma). Nanni Moretti, grande etnoantropologo dell’Italia berlusconiana, racconta quel successo coi toni del realismo magico nel suo film Il Caimano (2006): una valigia piena di soldi che frana dal soffitto nel mezzo dell’ufficio di un giovane palazzinaro, che si trova così a gestire denaro consegnatogli evidentemente da un potere superiore. Il vero mistero di questa scena non sta tanto nel modo eccezionale in cui si manifesta il denaro ma nel comportamento del personaggio di Berlusconi. Egli siede formidabilmente alla scrivania, solo, di notte, nel suo ufficio, vegliato da luce lunare; all’improvviso, ma senza fretta, chiude la telefonata che sta facendo, si alza e si sposta di qualche passo, mettendosi a fissare il punto della stanza dove, dopo qualche secondo, pioverà il denaro senza apparente preavviso. Berlusconi non è stupito, quanto soddisfatto e quietamente euforico, come se l’incredibile evento fosse stato da lui non solo previsto ma in qualche modo provocato. Sappiamo che Dio non gestisce direttamente i contanti (funzione per la quale esistono appositi banchieri di Dio), e quindi dobbiamo escludere l’origine celeste del malloppo; devono essere quindi soldi ctoni, inviati da qualche spirito. Secondo James Frazer, i maghi traggono il loro potere da “una speciale simpatia fisica con la natura”, tale che ciò che il mago fa influenza immediatamente l’universo, e ciò che accade nelle profondità dell’universo si manifesta anche nel mago (Il ramo d’oro, 1973). “Da dove vengono tutti quei soldi?”, ci si chiede nel “Caimano”, e la risposta può essere: dall’universo, che ha oscuramente deciso che Berlusconi dovesse entrarne in possesso.
Similmente, il minuzioso lavoro che precede le elezioni del 1994 viene raccontato dal protagonista stesso con toni da investitura sacra, in cui i sacerdoti del rito rivelano la verità segreta: quando egli interroga i sondaggisti di Mediaset, la profezia è inequivocabile: “cosa possiamo fare per non far diventare l’Italia un Paese comunista?”. Risposero: “L’unica via è fondare un nuovo partito che sappia contrastare la sinistra”. “Ma c’è qualcuno in grado di farlo?” Si guardano, si sorridono e puntano il dito su di me. “Solo lei, Presidente (…)!” (Convention di Forza Italia, 6/5/2023). Non può quindi che riconoscere magnanimamente la sua missione: “penso che mi stia venendo il complesso di superiorità. E mi dico: meno male che ci sono io, un altro al posto mio cosa avrebbe fatto?” (3/12/2002).
Inizialmente solo i più attenti si accorgono del lato magico di Berlusconi, come Enrico Deaglio, che nel suo diario-cronaca dell’anno 1994 Besame Mucho (1995) racconta un retroscena del dibattito televisivo pre-elettorale contro Achille Occhetto, l’incredibile Spilla Incanta-Burini. Riportando quello che un tale Gino Cortellessa, misterioso traffichino di Cinecittà, gli ha rivelato, sostiene che Berlusconi abbia usato una spilla di Forza Italia tempestata di brillantini per creare un disturbo del fotogramma e attirare su di sé l’attenzione dello spettatore. Così Cortellessa: “quante volte l’ho usata! (…) È un effetto che al cliente piace molto, per questo noi dell’ambiente lo chiamiamo l’‘Incanta-Burini’. (…) Un classico messaggio subliminale. (…) La spilla che manda riflessi d’oro, che forma una x sul petto, più o meno all’altezza del cuore (…). Come la x che si fa sulla scheda elettorale! (…) Votami, votami, votami…”.
Forse seccato da questa mancanza di riconoscimento, è ancora una volta lui stesso a impostare il discorso, parafrasando in un certo senso Frazer. In un periodo che i contemporanei descrivono dicendo cose come “tutto deve essere o apparire nuovo, e Prima Repubblica [è] diventato il peggior insulto” (L’indice, febbraio 1995), Berlusconi dichiara di incarnare lo spirito del tempo – la vibrazione universale: “l’innovatore è uno che fa le cose in modo diverso da quello in cui si sono sempre fatte. Ritengo di essere geneticamente, istintivamente un innovatore” (La Stampa, 24/1/1997). Qualche anno dopo (Il Corriere della Sera, 2/2/2003) il suo medico personale, Scapagnini, che l’intervistatore Aldo Cazzullo chiama “il custode dell’elisir”, ci fornisce un interessante punto di vista scientifico su quello che possiamo ben definire un corpo paranormale: “Berlusconi ha un sistema neuro immunitario di tipo veramente straordinario per cui niente mina la sua salute e[d] è “tecnicamente immortale”. Di seguito, gli ingredienti dell’elisir appunto: “Provitamine, antiossidanti, immunostimolanti, enzimi, amminoacidi, e soprattutto minerali, magnesio e selenio attivato. Gli stessi che assorbono i centenari che ho incontrato sulla via della Seta, a Sud di Urumqi e nelle oasi tra il deserto del Taklamakhan e il Gobi. Poi un olio particolare, un certo yogurt”, e quasi nessuno dei segreti che hanno alimentato suggestioni da alchimia medievale, criniera di unicorno, lacrime di vergine, rugiada delle notti di plenilunio”, ci rassicura (o depista) Cazzullo. Scapagnini invece non si lascia ostacolare dal ritegno e pronuncia: “il suo fisico e la sua mente hanno dimostrato una capacità di difesa quasi sovrumana. Sta benissimo, e nessun traguardo gli è precluso. Geneticamente è eccezionale. Un profilo neuroendocrino eccellente. Un cervello veramente straordinario. È un tipo previsivo, dall’intelligenza fuori dalla norma, che gli consente di prevedere come andranno le cose. Ha una costanza, una capacità di concentrazione e di lavoro incredibili. Non molla mai”. I maligni potrebbero notare che tutte queste qualità non lo abbiano nemmeno portato alla soglia dei novant’anni, ma li invitiamo a tacere per timore che si attivi la fosca profezia di Cazzullo: “quando verrà il dopo Berlusconi saremo tutti morti”, che suonava burlesco ventun’anni fa e pianamente menagramo diciotto mesi dopo il decesso del tecnicamente immortale.
Duole dire che le altre migliori occorrenze del tema dell’imperscrutabile, pre-razionale superiorità di Berlusconi ci vengono fornite da Berlusconi stesso, che ci tiene però a puntualizzare che “non è un complesso di superiorità, è un fatto oggettivo. Berlusconi ha una caratura imparagonabile” (24/2/2001). Strani fenomeni si verificano nella sua persona, a metà tra la mutazione e l’incanto: “ho pochi [capelli] perché il cervello si è ingrossato e me li ha spinti fuori” (25/3/2001); “malato io? Sono Superman, anzi Superman a me mi fa ridere” (2/9/2009). Grazie a tali prodigi, gli è possibile ascendere a una perfezione spirituale preclusa ai profani, che generosamente estende ai suoi seguaci: “noi di Forza Italia abbiamo una moralità di livello così elevato che gli altri non possono nemmeno percepirlo” (10/5/2003). Anche i critici devono riconoscere le sue qualità di incantatore, se non di esserne rimasti vittima, come fa persino un sobrio scettico come Mario Monti: “mi ricorda la fiaba del pifferaio magico con i topini che vanno ad annegare in quel fiume. È uno che ha già illuso gli italiani tre volte. La prima vota mi sono fatto illudere anch’io” (14/1/2013).
Quando il Berlusconi-mago si riunisce al cosmo, i suoi accoliti ne celebrano il genio immortale. Riportiamo tra le tante le parole di due dei più fedeli: “la sua intelligenza era sempre mille passi avanti” (Denis Verdini, Il Tempo, 13/6/2023), bella immagine dell’intelligenza del mistico che si fa persona e guida il cammino dei seguaci; “sempre capace di inventare qualcosa. Sempre con una idea nuova. Arricchiva le persone che aveva attorno. Era unico, sia umanamente che politicamente. E dava consigli a tutti” (Marcello Dell’Utri, 2/12/2023), descrizione sobria ma non per questo meno potente nella sua precisione. Non stupisce più di tanto, quindi, che anche dopo la morte terrena Berlusconi sia presente in spirito a fianco dei seguaci più fedeli, un po’ come un maestro jedi accompagna i suoi discepoli sotto forma di ologramma azzurrino. In un bell’esempio di estetica nordcoreana, Forza Italia mantiene il nome e l’effigie del leader mistico sul proprio simbolo e sui cartelloni elettorali, caso a memoria mia unico in Occidente in cui si può votare per un Presidente Eterno. Certamente, occorre essere un iniziato per trovare “rassicurante” una forza che continua ad allignare tra noi dall’aldilà, ma Tajani non teme l’ignoto e stringe pubblicamente la mano al morto, che lo premia con 390.000 preferenze alle Elezioni.
Conclusione: archetipo e ambiguità
Nella sua classica analisi degli archetipi occidentali, James Frazer descrive, tra gli altri, due tipi di autorità ancestrale, “due tipi di demoni [:] (…) uomo-dio religioso e uomo-dio magico”. Il Berlusconi-Cristo è chiaramente una manifestazione del primo. Il secondo è ben rappresentato dal Berlusconi-genio-mago – ancora Frazer: “un uomo il quale possiede in grado straordinariamente alto dei poteri che la maggior parte dei suoi compagni si arroga in minor grado; poiché nelle società primitive è difficile trovare qualcuno che non s’immischi di magia”. La definizione di uomo-dio in Frazer non descriva necessariamente un individuo trascendente, ma un individuo in comunicazione con poteri presenti nella vita di tutti ma solo a lui accessibili liberamente, che siano magici, religiosi o semplicemente misteriosi. Berlusconi è uomo-dio anche nella sua natura, ad esempio, di Presidente, calcistico o del consiglio, perché porta tra i suoi seguaci un potere a loro precluso, di cui essi godono perlomeno indirettamente sotto forma di spettacolo – e che ad alcuni privilegiati viene consentito di esercitare, vicariamente e parzialmente.
Ma l’aspetto sacrale di Berlusconi in realtà è molto più carnale di quanto appare. A che Cristo pensa Berlusconi quando si proclama “il Gesù Cristo della politica”? Quanto Berlusconi condivide con il Cristo filosofo della nonviolenza, e quanto invece con il Cristo garante del potere in Occidente? La sua innocenza è quella del senza colpa o quella dell’imputato con un buon avvocato? Possiamo dire che la cristità di Berlusconi ha più a che altro a che fare con la generica immagine di una divinità antropomorfa, benigna e culturalmente affine all’elettorato italiano – ancora, “uno di noi, più grande di noi”. L’elettorato berlusconiano appariva spesso, totalmente nella sua parte più folcloristica e in misura minore in quella più cinica, comunque convinto di fare parte di un grande evento o di un grande movimento, tale da giustificare aspirazioni ben al di là della normale concezione della politica. La narrazione che emanava da Berlusconi tendeva a non distinguere tra lui stesso, gli italiani, l’Italia e il mondo tutto, ed era popolata da entità maligne come “le toghe rosse” e “i comunisti”, ed entità benigne come Berlusconi stesso, “gli imprenditori” e “le donne”, entità da blandire, combattere od omaggiare in un rituale di prosperità collettivo.
Confrontiamo con Frazer: “si pretendeva spesso dai re che dessero la pioggia e il sole (…). Il selvaggio difficilmente concepisce la distinzione comunemente tracciata dai popoli civili tra il naturale e il soprannaturale. Per lui, il mondo è in gran parte determinato da agenti soprannaturali, ossia da esseri personali che agiscono per impulsi e motivi simili ai suoi, e passibili quanto lui di essere influenzati da appelli alla loro pietà, alle loro speranze, ai loro timori. In un mondo così concepito egli non vede alcun limite alla sua capacità d’influenzare a proprio vantaggio il corso della natura”. Al netto del razzismo positivista dell’autore, resta la stupefacente precisione nel descrivere la politica parlamentare italiana degli ultimi trent’anni – soprattutto per quanto riguarda la connessione percepita, interamente arbitraria e non per questo meno totalizzante, tra la dedizione al rituale e i risultati che ne derivano. Quando Berlusconi prometteva il milione di posti di lavoro o la rivoluzione liberale non era diverso dai sacerdoti di una tribù africana che promisero la liberazione dal padrone bianco in cambio del sacrificio di tutto il loro bestiame in un rituale catartico raccontati da Elias Canetti in Massa e Potere.
I diversi archetipi che ho individuato non sembrano fornire un profilo coerente. Redenzione, giustizia privata, carnalità e trascendenza si mischiano tra loro, rendendo il ritratto di un individuo pubblico che sembra impossibile conoscere. Credo che questa ambiguità sia il vero risultato della ricerca: perché al suo centro sta l’incredibile, ineludibile fatto che per comprendere, per gestire il maggiore attore politico della Seconda Repubblica e della nostra contemporaneità italiana, un intero Paese, dagli intellettuali alla classe dirigente all’opinione pubblica, abbia fatto ricorso a categorie ancestrali e niente affatto legate alla politica parlamentare di una democrazia liberale, di uno Stato capitalista tra le prime dieci economie mondiali. Quello che conta, credo, non è tanto a quale incrocio di identità si posizioni Berlusconi, ma prima di tutto il fatto stesso che Berlusconi sono state attribuite varie identità, tutte diverse tra loro, ma accomunate dal loro essere archetipi.
Una possibile spiegazione di questo ritorno all’origine nascosta dell’autorità è che il traumatico passaggio dal XX al XXI secolo – che si voglia individuare nel collasso delle ideologie, nella mercificazione di ogni aspetto dell’esistente, nella fine del dominio dell’uomo bianco o nella preparazione della policrisi permante in cui sembriamo vivere – sia stato in qualche modo presentito dal discorso pubblico italiano in anticipo sui tempi. Se il berlusconismo ha fondato la sua forza sull’essere contraddizione, sul mischiare i campi semantici per confondere gli avversari ed esaltare i seguaci, questa contraddizione si trova anche nel modo in cui ha fatto interagire identità e archetipi. Quando Berlusconi presenta un lato genuino di sé, lo fa per destabilizzare il discorso politico tradizionale tramite campi semantici ad esso estranei, come la sessualità o l’attività sportiva. Quando invece fa uso di campi semantici più affini al discorso politico tradizionale, come l’autorità e autorevolezza, la fa inventandosi un’identità fittizia come quella del re condottiero. In altre parole: Berlusconi è stato davvero un dirigente di calcio, ma il valore destabilizzante di questa sua identità sta nel fatto che non ha niente a che fare con l’essere un buon presidente del consiglio. Essere una persona autorevole invece ha a che fare con l’essere un buon presidente del consiglio, ma per comunicare autorevolezza Berlusconi sceglie di presentarsi nei panni fittizi del re condottiero. La cosa inizia ad avere più senso se si considera la possibilità che quello che conta non sia tanto il significato simbolico delle identità assunte di volta in volta, il modo in cui vengono presentate, ma il trasformismo stesso, la natura teatrale dell’operazione.
Credo che le ragioni della volontaria irritualità della sua comunicazione politica diventino più comprensibili una volta accettata l’ipotesi che il berlusconismo non sia stato una forma di fare politica con modalità da spettacolo ma piuttosto la progressiva trasformazione della politica in forma di intrattenimento. La natura di questa trasformazione, e il successo crescente con cui sta venendo applicata un po’ ovunque nel mondo, ci aiuta a comprendere che spesso il cosiddetto populismo esprime più la necessità di adattare la democrazia liberale alla presente fase del capitalismo che l’analfabetismo politico dell’elettorato. In Dominio Marco D’Eramo teorizza, in sintesi, che negli ultimi quarant’anni la classe capitalista abbia strategicamente egemonizzato il discorso pubblico per gestire il trasferimento di sovranità dagli elettori ai mercati, a sua volta funzionale ad una colossale ridistribuzione del reddito a proprio favore. Se si accetta questa prospettiva, appare ragionevole pensare che ogni volta che un politico dà spettacolo il prodotto che sta vendendo non sia tanto sé stesso, o il suo programma o partito politico, ma soprattutto la narrazione che gli elettori possano ancora controllare le proprie vite tramite gli strumenti della democrazia liberale. Quello che conta, insomma, non è tanto chi, come e perché dia spettacolo, ma la continuazione dello spettacolo in sé: perché se venisse a mancare, si rischia di vedere che in fondo non cambia quasi niente.
Se ancora nel 1994 si può parlare di uso dello spettacolo a fini politici, in tempi più recenti abbiamo visto che dietro alle boutades di Salvini o alla seriosità di Meloni non c’è un piano: la loro politica – e in senso più ampio la nostra politica – è performance fine a sé stessa. Gli obbiettivi che essa si prefigge e a volte raggiunge sono simbolici, cosa che viene sempre più apertamente riconosciuta, con un dibattito pubblico tanto più chiassoso quanto più si concentra su questioni identitarie che hanno la loro ragione d’essere nella propria sostanziale irrilevanza. Si può dire che la funzione storica di Berlusconi, al di là degli interessi privati del soggetto, sia stato il cementare questo cambiamento, il diventare archetipo lui stesso, di sé stesso: un nuovo modo di intendere la politica e la vita pubblica, anticipato con intuizione quasi profetica da un’intera collettività, che ha definito e costruito il ruolo adatto al contesto addosso a un attore capitato per caso.