L a fisica è fuori rotta? Rischia di schiantarsi seguendo il canto di sirene dai nomi irresistibili di simmetria, naturalezza ed eleganza matematica? Cassandra di questo possibile naufragio è Sabine Hossenfelder, fisica teorica della gravità quantistica all’Istituto di Studi Avanzati di Francoforte, blogger e ora autrice di Lost in Math: How Beauty Led Physics Astray (letteralmente “Smarriti nella matematica: come la bellezza ha portato la fisica fuori strada”), uscito il 12 giugno e ancora in cerca di un editore italiano. Hossenfelder guida, assieme ai suoi colleghi Peter Woit e Lee Smolin, una minoranza crescente di eretici convinti che la fisica contemporanea sia diventata una mosca che sbatte contro il vetro senza accorgersi della via d’uscita. Hossenfelder non ci gira intorno: “Non riesco a credere cosa sia diventata questa professione un tempo rispettabile. I fisici teorici una volta spiegavano quello che veniva osservato. Ora cercano di spiegare perché non possono spiegare quello che non viene osservato. E non sono neanche molto bravi a farlo”, scrive.
A metà tra testo divulgativo e pamphlet, fitto di dialoghi con i protagonisti della fisica contemporanea, Lost in Math è allo stesso tempo mappa degli incantesimi in cui rischia di essere intrappolata la ricerca, denuncia delle politiche perverse dell’accademia e cronaca della disperata ricerca di un senso.
La grave bellezza
Oggi abbiamo due teorie che non hanno senso e funzionano perfettamente: il Modello Standard della fisica quantistica e la relatività generale di Einstein. Non hanno senso perché descrivono lo stesso universo, eppure a livello fondamentale è impossibile miscelarle, come olio e acqua. Né dicono nulla su materia oscura o energia oscura, che compongono gran parte del cosmo. Funzionano perfettamente perché ogni volta che vengono messe alla prova ne escono con successo totale, precise fino all’inverosimile. Questo significa che non ci sono dati capaci di indicarci la strada per trovare nuove teorie, perché quelle vecchie bastano sempre.
Il sentiero, quindi, i fisici se lo sono trovato da soli, ed è l’eleganza matematica. Rendere le teorie, se non più efficaci, almeno più belle. Capaci di spiegare il più possibile con pochi principi profondi, facendo sbocciare una natura complessa da una manciata di assiomi semplici. “Se la natura non fosse bella non varrebbe la pena conoscerla, e non varrebbe la pena di vivere” scriveva Henri Poincaré in Scienza e Metodo nel 1908. Dovendo scegliere tra le infinite teorie possibili, l’eleganza è una lanterna, che brucia della fede in una natura semplice e profonda. “Di solito è una sensazione a pelle, niente che si possa misurare matematicamente. È quella che si chiama intuizione fisica”, dice il fisico italiano Gian Francesco Giudice a Sabine Hossenfelder, nelle prime pagine di Lost in Math.
Sabine Hossenfelder però non sente niente, a pelle. Quando la contatto, la mia prima domanda è se avesse fatto fisica per seguirne il fascino. Replica secca, scuotendo la testa: “Non ho iniziato come fisica, ma come matematica. Il motivo per cui ho fatto matematica non ha nulla a che fare con la bellezza. Facevo matematica perché ero brava in matematica. E mi affascinava che implicasse una verità assoluta. Io penso che la matematica sia come una forma d’arte – non c’è niente di male in questo. Se vuoi fare matematica però, allora, fai matematica. Non spacciarla per fisica. […] Il tema della bellezza [in fisica] è qualcosa di cui, per molto tempo, non sono stata davvero consapevole. Certo, lo si leggeva ovunque nei libri divulgativi, ma non ci prestavo attenzione.”
Per capire il senso che guida i fisici verso le loro teorie, Sabine Hossenfelder è andata in pellegrinaggio da vari protagonisti della fisica contemporanea – da Steven Weinberg a Nima Arkami-Hamed a Joseph Polchinski, passando per outsider come Garrett Lisi, confrontandosi direttamente con i teorici che critica. I dialoghi che ne risultano sono il cuore di Lost in Math, e testimoniano il suo logoramento. Ogni volta Hossenfelder chiede, supplica i protagonisti della sua disciplina di spiegare le basi razionali della loro fede in certe teorie. Ogni volta ne emerge delusa.
I cavalli di Weinberg
Questo approccio rende Lost in Math un po’ ripetitivo, ma la cadenza ostinata è un messaggio in sé. L’intervista-simbolo del libro è quella a Steven Weinberg, premio Nobel per la fisica 1979, uno dei padri del Modello Standard della fisica moderna. A un certo punto Weinberg, per giustificare il ruolo dell’estetica, tira fuori un’analogia: “Un allevatore di cavalli guarda un cavallo e dice ‘Che bel cavallo!’ Potrebbe esprimere una mera emozione estetica, ma io dico che c’è di più. L’allevatore ha visto molti cavalli, e dalla sua esperienza sa che quello è il tipo di cavalli che vince le gare.”
Però, nota Hossenfelder, non sempre i cavalli belli vincono le gare. Quando Keplero scoprì che le orbite dei pianeti non sono cerchi perfetti ma ellissi, diede scandalo confutando la perfezione dei cieli. Quanto riteniamo “bello” dipende dal contesto, nella scienza come altrove – come disse Leibniz, quello che è brutto sembra brutto perché non sappiamo cosa sia la vera bellezza. Finora l’evidenza dei fatti separava rapidamente il vero dal falso. Keplero arrivò alle ellissi dopo aver scoperto che i dati non si adattavano al suo modello precedente, assai più simmetrico. Ma ora?
Contro natura
Molte quantità fisiche sono bizzarramente grandi o minuscole. I fisici interpretano queste cifre come delle coincidenze improbabili, e cercano allora delle teorie che siano o appaiano “naturali”. Ovvero, per capirci, se in una teoria c’è un parametro libero che può andare da 0 a 1000 ci si aspetta in effetti che assuma un valore tipo 700, o 200. Se invece quel valore è 0,00000001 sembra che ci sia qualcosa di strano: è come se, di tutto lo spazio permesso a quel parametro, si fosse andato a infilare proprio in fondo alla scala. Suona come se ci fosse qualcosa sotto – e a volte, in effetti, questo principio ha permesso di scovare una spiegazione.
Ma perché un ragionamento di questo tipo dovrebbe essere “naturale”? Sabine Hossenfelder ritiene sia un’ossessione numerologica, non una guida razionale: “Non abbiamo alcun modo di dire se le leggi di natura che osserviamo siano plausibili – non abbiamo un modo per calcolarne la probabilità. Per dire che siano improbabili ci serve un’altra teoria, e da dove nasce questa teoria, a sua volta?”, scrive. Quelle che noi chiamiamo “coincidenze” per Hossenfelder sono improbabili solo di fronte a un giudizio istintivo. Un esempio che si fa spesso è il diametro apparente della Luna e del Sole. Visti dalla Terra, appaiono grandi uguali: la loro differenza è un numero “stranamente” piccolo, e fa sì che le eclissi di sole siano lo spettacolo eccezionale che sono. È una coincidenza che può suonare sospetta: ma in realtà oggi sappiamo che è proprio un caso. Succede.
Per i colleghi di Hossenfelder invece l’apparente mancanza di naturalezza è una macchia inaccettabile. Implica che l’universo sia fine-tuned, ovvero “finemente sintonizzato” su parametri molto particolari che permettono a strutture complesse come gli esseri viventi di esistere. Serve, secondo loro, quindi, una teoria che riporti ordine nella natura, ricca di simmetria: una supersimmetria. I fisici cercano in particolare uno “specchio” matematico, finora ignoto, tra le due grandi classi di particelle, i fermioni e i bosoni. Come hanno scritto i fisici Keith Olive e Misha Shifman sul bollettino del CERN:
Nel passato, praticamente tutti i grandi balzi in avanti concettuali [della fisica] avvennero perché i fisici volevano comprendere qualche aspetto noto della natura. Al contrario, la scoperta della supersimmetria negli anni ‘70 è stata una conquista puramente intellettuale, guidata dalla logica dello sviluppo teorico invece che dalla pressione di dati esistenti
.
La supersimmetria, a sua volta, è condizione necessaria della teoria delle stringhe, principale candidata all’unificazione della fisica in una singola teoria, la spiegazione ultima da cui sorgano naturalmente sia la gravità che il Modello Standard. Nella teoria delle stringhe le particelle diventano in realtà manifestazioni di cordicelle subatomiche che vibrano, come le corde di una chitarra.
Ma la bellezza, si sa, costa cara. La supersimmetria prevede l’esistenza di una particella simmetrica, per l’appunto, a ciascuna di quelle che conosciamo – più qualche altra. La teoria delle stringhe esige 9 o 10 dimensioni rispetto alle quattro (tre spaziali e una temporale) in cui viviamo. Per spiegare quelle che non vediamo, devono essere “ripiegate” in modo molto particolare. Inoltre, la teoria delle stringhe sembra funzionare meglio in un universo in cui l’espansione rallenta: ma sappiamo che nel nostro universo accelera. Praticamente niente di quanto predice la teoria delle stringhe è affrontabile sperimentalmente, tranne l’esistenza della supersimmetria. E la risposta dovrebbe essere già qui.
Il tunnel in fondo alla luce
Vi ricordate il bosone di Higgs? Doveva essere solo l’antipasto di un banchetto molto più ricco. L’Higgs era l’ultimo tassello della vecchia fisica, di una teoria che era nata all’inizio del XX secolo e che era culminata alla fine degli anni ‘70. Ma la non troppo segreta aspettativa del Large Hadron Collider (LHC), l’immane pista da corsa per protoni tra Svizzera e Francia, era portare alla luce la nuova fisica. E invece, come scrive Hossenfelder, “La natura ha parlato, e ha detto il silenzio, forte e chiaro”. Niente particelle supersimmetriche, niente indizi di dimensioni oltre le nostre quattro, niente mini-buchi neri, niente di niente che non sia conforme al maledetto Modello Standard – paradossalmente, se non avesse trovato neppure l’Higgs, sarebbe stato più interessante, perché il Modello Standard sarebbe crollato. Siamo in quello che i fisici chiamano lo “scenario da incubo”. Allo stesso modo, le particelle supersimmetriche potrebbero spiegare la materia oscura, ma i vari esperimenti che sperano di individuarla continuano a registrare solo il silenzio.
È possibile che la supersimmetria esista, e si riveli a energie più alte. Ma se è così, la supersimmetria ha fallito uno dei suoi compiti più importanti. Se LHC avesse trovato la supersimmetria, molte delle profonde costanti di natura avrebbero avuto una spiegazione “naturale”. Ora invece i dati implicano che i parametri della supersimmetria siano innaturali a loro volta.
I cavalli di Weinberg, al buio del tunnel di LHC, hanno perso la corsa. Ma non si fermano.
La montagna e le stelle
C’è la possibilità che siamo in vista del capolinea. Gli esperimenti che potrebbero rivelare qualcosa di più potrebbero semplicemente essere fuori portata, richiedendo energie o macchinari troppo grandi per essere realizzati. Come qualcuno che scala una montagna per raggiungere le stelle: ci siamo avvicinati fin dove abbiamo potuto, e ora non possiamo far altro che guardare un cielo irraggiungibile.
Ma Sabine Hossenfelder non si arrende. Conta farsi le domande giuste, cercare modelli che possano essere verificati con l’osservazione e gli esperimenti, e concentrarsi su quelle che vede come contraddizioni vere interne alla fisica.
Sappiamo ad esempio che c’è la materia oscura, o qualcosa che sembra materia oscura. È qualcosa di ovvio dove guardare. Un’altra cosa a cui ho pensato negli ultimi dieci anni è come trovare nuove evidenze sperimentali della gravità quantistica. Non è così disperata come molti vogliono farci credere. Ci sono effetti e proprietà che potrebbe essere possibile misurare in laboratorio, a basse energie. Inoltre si possono misurare effetti quantistici nello sfondo di radiazione cosmico, o nei dati di onde gravitazionali. L’altro problema è nei fondamenti stessi della meccanica quantistica, specialmente il problema della misura. Credo sia un problema molto serio e molto trascurato – nessuno vuole toccarlo da quanto Einstein ci si è scottato le dita. Se però facciamo progressi in questo campo, avrà un impatto su qualsiasi altra teoria.
Produci, quantizza, crepa
Nonostante il collegamento con la realtà sia sempre più tenue, i fisici teorici si ostinano a seguire le stesse strade, creando migliaia di varianti di quei modelli allo scopo, secondo Hossenfelder, di sfuggire dal dato sperimentale, invece di affrontarlo.
Forse dovremmo fare un passo indietro. E invece alcuni si gettano entusiasti dal precipizio: si inizia a parlare apertamente, come fa il filosofo della scienza Richard Dawid, di fisica post-empirica, ovvero di non considerare l’esperimento necessario per decidere la verità di una teoria fisica, qualora questa sia sufficientemente elegante, profonda ed esplicativa. Se l’universo non ci dà ragione, peggio per lui. Una prospettiva a cui molti scienziati reagiscono con orrore – ma che molti sembrano poter accettare. Al di là del gergo e della matematica, significa fondamentalmente tornare ad Aristotele, Platone, Archimede.
Sono pazzi? No. Da un lato c’è un certo tipo di fascinazione irresistibile: il matematico e fisico Hermann Weyl dichiarò una volta che, costretto a scegliere tra la bellezza matematica e l’aderenza alla realtà, avrebbe seguito la prima. Forse lo stanno prendendo troppo sul serio. Ma secondo Hossenfelder, è soprattutto il risultato inevitabile delle politiche perverse dell’accademia. Me lo racconta con voce pacata, ma esasperata:
Abbiamo tutti dei bias cognitivi, e siamo tutti influenzati da chi ci circonda. Se molti tuoi colleghi lavorano su qualcosa, prima o poi inizi a credere che sia interessante. È puntare sul sicuro. È naturale, ma non è un buon modo di fare scienza. Se bisogna incentivare qualcosa, bisogna incentivare semmai ad andare contro queste distorsioni, ma non è quello che fa l’accademia. Invece peggiora il problema avvantaggiando chi lavora su quanto è popolare e ‘produttivo’ . Ma non funziona! […] Pressoché chiunque con cui ho parlato ammette che c’è un problema. […] Le persone che ci lavorano lo capiscono, ma continuano a macinare articoli per il semplice motivo che possono farlo e che verranno pubblicati. Si dicono che alla fine la scienza si corregge da sola, e quindi pensano che prima o poi tutto passerà e il problema si risolverà da solo. Ma se nessuno fa nulla, nulla si risolve. […] Se non analizzano cosa è andato storto all’inizio, ripeteranno di nuovo lo stesso errore.
Qualche anno fa, Hossenfelder ha condotto un’inchiesta per capire quante delle persone che lavorano in fisica teorica lavorino effettivamente su quello che li convince. Dal 10 al 30% ha dichiarato che, se non dovessero preoccuparsi di un posto di lavoro, cambierebbero argomento: ma non possono. È una minoranza, ma resta inquietante. È un fenomeno che anche lei ha subito, in gioventù:
La mia tesi di dottorato parla della produzione di buchi neri microscopici a LHC. Era qualcosa di piuttosto popolare all’epoca ed è ancora uno dei miei articoli più citati, ma onestamente l’ho fatto solo perché dovevo produrre articoli […] Non penso sia una ricerca sensata. Alla fine ho solo questa vita. Devo sprecarla pensando a buchi neri che non saranno mai reali? Ciò nonostante ho molti amici che continuano a lavorarci e ora hanno un posto fisso all’università. Alcuni – non posso dire chi – sono piuttosto cinici al riguardo: lo fanno perché è quello per cui sono stati assunti, per cui vengono pagati. Solo per questo è un argomento ancora così presente nella letteratura scientifica.
La competizione accademica è sempre più sanguinosa. Lavorare su teorie di moda, al cui interno è sempre possibile costruire nuovi modelli, è vantaggioso e sicuro. Chi cerca fuori dal seminato rischia di fallire: non viene premiato, ma punito. Se gli esperimenti non trovano quello che prevede il modello, lo si può sempre correggere per giustificare come mai non si trova nulla – un po’ come gli epicicli che Copernico aggiungeva per preservare il moto circolare dei pianeti. E se di certo dietro a certe teorie stanno ricercatori estremamente brillanti ed esperti, anche qui potrebbe esserci una distorsione all’opera, secondo Hossenfelder:
I teorici delle stringhe che conosco sono persone assai intelligenti, ragionevoli. Ma il problema sono proprio loro: persone molto influenti e ottimi pensatori. I premi Nobel o gli scienziati famosi, che appaiono nei media, non vedono che c’è un dramma. Perché non ne soffrono. Loro hanno un posto di lavoro sicuro, possono fare quello che vogliono. Ma dovremmo pensare al 99% dei ricercatori precari che vivono sotto questa pressione, col rischio di perdere lo stipendio.
La simmetria del nastro adesivo
C’è anche il problema che le risorse sono finite, e questo limita il tipo e il numero di esperimenti che si possono fare. Bisogna scegliere, e per scegliere bisogna seguire il consenso dei teorici. Andrea Giammanco, ricercatore all’Università di Louvain e uno dei principali esperti sul quark top a LHC (nonché autore di un romanzo a puntate ambientato nella fisica delle particelle), lo spiega bene:
I nostri progetti sperimentali costano molto, tanti gruppi si devono federare insieme perché, anche se individualmente siamo squattrinati, messi insieme possiamo fare grandi cose. Ma non riusciremmo mai a trovare l’accordo per un progetto comune in cui mettere le nostre risorse, se non esistesse un consenso nella comunità dei teorici sulle priorità. Senza quel consenso mancherebbe la forza d’impatto per attaccare i Grandi Problemi. Avremmo tanti tentativi di attaccare mille piccoli problemi. Cosa che qualcuno comunque fa, perché comunque anche i piccoli problemi a volte si rivelano la chiave inattesa per risolvere problemi grandi.
Ma chi sta quotidianamente vicino ai dati ha la stessa ossessione per l’eleganza? Non tutti. Continua Giammanco, parlando proprio della particella che è il suo argomento di ricerca:
Circa un articolo ogni otto/nove che esce da LHC ha a che fare con il quark top. Le conferenze di fisica delle particelle hanno quasi sempre una sessione dedicata agli ultimi risultati sul quark top. Perché? La risposta riguarda in gran parte la “naturalezza”, cioè il principio che fa tanto arrabbiare Sabine Hossenfelder. La massa del top è enorme, la più pesante delle particelle elementari note. È interessante perché questa massa enorme è l’unica teoricamente “naturale” mentre le altre sono troppo piccole. Eppure, concordo con lei che la naturalezza non è un principio convincente. E credo di non essere né atipico né eretico, nella mia bolla sperimentale, a pensare che la naturalezza è un esempio di
“wishful thinking”. Il training di uno sperimentale è diverso: macchinari tenuti assieme con nastro adesivo, algoritmi scritti di fretta, approssimazioni numeriche… Non c’è molta eleganza nel nostro quotidiano professionale. Chiaro che l’eleganza dei teorici non ci impressioni più di tanto.
Lost in science
Sabine Hossenfelder è anche musicista: sul suo canale Youtube ha pubblicato varie canzoni originali, in uno stile elettronico piacevole, vagamente new wave. Nei testi ritorna spesso il tema dell’estraneità. In This is how I pray, Hossenfelder canta:
Everyone’s cussing my name
Everyone comes to complain
Everyone loves to explain
Why I am the one who’s to blame
Come scrisse sul suo blog: “Questo non è un libro simpatico, e purtroppo è prevedibile che la maggior parte dei miei colleghi lo odierà. Scrivendolo, ho gettato via le mie speranze di avere una cattedra.”
Fin qui ho raccontato Lost in Math dal punto di vista di Sabine Hossenfelder. Non so se abbia ragione – trovo molti dei suoi argomenti convincenti, altri meno, ma non sono un fisico. Hossenfelder però va ascoltata in quanto fa parte di quei rari scienziati che ammettono quanto i meccanismi sociali, politici, economici e psicologici pervadono la scienza – inevitabilmente – e, meno inevitabilmente, la pervertono; e hanno l’onestà intellettuale di non cedere a compromessi. E così Sabine Hossenfelder, il giorno dell’uscita del libro, ha dichiarato che lascerà la carriera scientifica: “Non mi sono mai sentita comoda nell’accademia. […] A un certo punto ho concluso che non ne posso più di questo nonsense. Non voglio essere associata a una comunità che spreca i soldi delle tasse perché i suoi praticanti pensano di essere così superiori moralmente e intellettualmente da non poter soffrire di nessun bias cognitivo”.
La scienza non è una torre d’avorio. È un palazzo come tutti gli altri, con le sue crepe, le sue fondamenta da riparare, il tetto che cola acqua. Ma i suoi abitanti pensano di essere in una torre d’avorio. O quantomeno vogliono che il resto del mondo lo creda, come mi confessa Hossenfelder: “Quando parlo di queste cose, la prima reazione è sempre: ‘non dovresti parlarne in pubblico’. Non dovrei, dicono, perché la gente poi penserà male della nostra disciplina, ci taglieranno i fondi, etc. Al che rispondo: beh, se lavori su cose che non hanno senso, forse fanno bene a tagliarti i fondi! Ho provato a discuterne prima all’interno della comunità. Non è cambiato nulla. Per questo ho deciso di scrivere il libro”.
Queste menti critiche (menti critiche vere, non crackpots che vaneggiano pseudoscienza, sia chiaro) sono quello di cui la scienza ha bisogno, quello che la scienza vanta di essere. In realtà le sta buttando via. Lost in Math non è solo una riflessione sulla fisica, è un libro che ci obbliga a chiederci cosa stia diventando la scienza, il precipizio in cui la stiamo guidando.
“La verità è che la Scienza della Natura è stata per fin troppo tempo solo un’opera del Cervello e della Fantasia. È ora che torni alla modestia e salute dell’Osservazione di cose evidenti e materiali.”
Robert Hooke, Micrographia (1665)