

E siste un ramo della cosmetica di lusso che promette di intervenire sulla longevità cellulare. Tra i prodotti di punta, una crema all’estratto di peonia dal costo superiore ai tremila euro per cento millilitri. Non viene presentata come un semplice cosmetico, ma come un vero trattamento farmacologico: agisce – si legge ‒ sulla matrice extracellulare, ripristinando l’equilibrio dei tessuti e riportando la pelle a uno stato più giovane. Il tempo non si nasconde, si tratta. E davanti alla promessa di tornare indietro, l’investimento non sembra più così eccessivo.
Negli ultimi anni, il concetto di skin longevity si è affermato come uno tra i trend più significativi nel settore beauty di fascia alta. Le strategie antietà non si limitano più a voler cancellare rughe e segni del tempo, ma promettono di intervenire prima che compaiano, agendo sui meccanismi profondi dell’invecchiamento cutaneo. La pelle smette di essere una superficie da migliorare e diventa una struttura vivente da mantenere in equilibrio. Le formulazioni più avanzate combinano principi attivi funzionali con ingredienti preziosi come oro, caviale, polvere di diamante o zafferano. Ne risulta un’immagine ambigua e potente, tra cosmetico e trattamento, tra lusso e scienza. Il messaggio è chiaro: non trasformare, ma conservare; non correggere, ma prevenire. In fondo, la skin longevity sembra dare adito all’antico sogno di rimanere – e non soltanto sembrare ‒ giovani il più a lungo possibile.
Le strategie antietà non si limitano più a voler cancellare rughe e segni del tempo, ma promettono di intervenire prima che compaiano, agendo sui meccanismi profondi dell’invecchiamento cutaneo.
Alcuni tra gli ingredienti che trovano spazio nei cosmetici di fascia premium ‒ peptidi biomimetici, enzimi epigenetici, molecole antiglicazione – sembrano richiamare la lingua parlata nei laboratori di biologia molecolare. Ma nei centri di ricerca si muovono processi ben più ambiziosi.
Da anni, la biomedicina cerca di isolare le caratteristiche cellulari dell’invecchiamento e di sviluppare tecniche in grado non solo di rallentarle, ma anche ‒ in parte ‒ di invertirle. Tra i luoghi dove questa ricerca prende forma, uno dei più attivi (e discussi) è il laboratorio di David Sinclair alla Harvard Medical School. Il suo team lavora su un’ipotesi audace: che le cellule, invecchiando, perdano memoria di come funzionare. E che questa memoria, in determinate condizioni, possa essere recuperata. La tecnica attraverso cui recuperarla si chiama riprogrammazione cellulare parziale. Nel 2020, su Nature venne pubblicato un esperimento destinato a far discutere. Alcuni topi adulti, a cui era stato danneggiato intenzionalmente il nervo ottico, vennero trattati con tre dei quattro “fattori di Yamanaka” ‒ un cocktail proteico capace, in teoria, di riportare le cellule adulte a uno stato più giovane. I risultati furono sorprendenti: i topi riacquisirono la vista, e le cellule trattate mostrarono un profilo simile a quello di un tessuto non ancora invecchiato. In altri esperimenti su topi, la riprogrammazione cellulare ha prodotto pelle più tonica, muscoli più forti, marcatori biologici più giovani.
Sebbene questi risultati siano a oggi limitati a esperimenti su cellule animali non-umane, non si parla più soltanto di prevenzione, ma di una possibile riscrittura del tempo biologico anche per l’essere umano. Cosmetica e ricerca sembrano quindi muoversi lungo la stessa traiettoria: giovinezza e longevità come aspirazioni convergenti, tra il desiderio di vivere a lungo e quello, forse più radicale, di non invecchiare mai.
La vecchiaia, da condizione naturale a questione biologica
Per secoli, il desiderio di prolungare la vita ha trovato spazio nella sfera della magia più che in quella scientifica. Alchimisti, medici e filosofi, ciascuno a suo modo, hanno immaginato formule, rimedi ed elisir per ritardare l’arrivo della morte. Ma l’invecchiamento in sé non era messo in discussione. Era parte dell’ordine delle cose: una fase naturale, prevista e accettata, che accompagnava la vita verso la sua conclusione. Galeno lo descriveva come un progressivo raffreddamento del corpo, causato dalla perdita di calore e umidità. Per Cicerone era una stagione dell’esistenza da attraversare con dignità e misura, un tempo di riflessione, e non di ribellione contro la natura.
L’idea che l’invecchiamento sia un processo rallentabile, attraverso cambiamenti nello stile di vita e interventi fisiologici mirati, comincia a farsi strada verso la fine del Cinquecento.
All’inizio del Novecento, alcuni fisiologi iniziano a considerare un legame tra le ghiandole endocrine ‒ con le loro misteriose secrezioni ormonali ‒ e la longevità. Si considerava, in particolare, come la produzione di androgeni e ormoni sessuali cambiasse con l’età, e si iniziò a pensare che, forse, correggendo quegli squilibri si potesse fermare il declino. Nel 1889, durante una conferenza a Parigi, Charles-Édouard Brown-Séquard, oggi ricordato come uno dei padri dell’endocrinologia, annuncia di aver sperimentato su di sé iniezioni sottocutanee di estratti ottenuti da testicoli di cane e di cavia. Dice di sentirsi più forte, più giovane. A Brown-Séquard è dedicato Tre colpi di genio e una pessima idea, ultimo libro di Silvia Bencivelli. La “pessima idea” del brillante scienziato, che decreterà la rovinosa fine della sua reputazione, fa il giro del mondo, riscuotendo inizialmente un enorme seguito. Si racconta che persino Émile Zola e Louis Pasteur abbiano provato il suo fluido. Negli anni successivi, anche il fisiologo austriaco Eugen Steinach porta avanti teorie simili. Sostiene che la vasectomia, usata come forma di sterilizzazione parziale, possa favorire il ringiovanimento. L’idea conquista anche ambienti intellettuali, convincendo pure Sigmund Freud, che si sottopone al trattamento. Ma è il chirurgo e biologo Serge Voronoff a rendere questo filone spettacolare. Negli anni Venti diventa celebre per i suoi trapianti di ghiandole testicolari di scimmia in uomini anziani, convinto di poter restituire vigore e giovinezza. Pubblica libri, apre cliniche, accoglie pazienti da tutto il mondo. Solo decenni dopo, con l’avanzare dell’endocrinologia, i suoi esperimenti verranno riconosciuti come privi di validità scientifica.
La prima importante intuizione la ebbe l’immunologo ucraino Il’ja Mečnikov, che incuriosito dalla longevità degli abitanti di un paese del Caucaso, ipotizzò fosse dovuta ai batteri contenuti nello yogurt che i paesani consumavano in gran quantità.
La cellula come nuova frontiera
Intanto, un nuovo protagonista cattura l’attenzione della ricerca sulla longevità: la cellula. Nei primi decenni del Novecento, Alexis Carrel ‒ chirurgo e premio Nobel francese ‒ avanza l’ipotesi rivoluzionaria dell’immortalità cellulare. Nei laboratori del Rockefeller Institute di New York, Carrel lavora al comportamento cellulare in vitro. In particolare, coltiva un ceppo di cellule prelevate dal cuore di un embrione di pollo. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, quelle cellule continuano a vivere e a replicarsi. Si dice che siano rimaste vitali per ben 34 anni ‒ persino oltre la morte dello stesso Carrel ‒ e che non mostrassero alcun segno di declino. Il risultato è così straordinario da conquistare attenzione internazionale e far nascere l’idea che, in condizioni ideali, le cellule possano davvero vivere per sempre. Lo stesso Carrel sosteneva che la senescenza e la morte non fossero eventi inevitabili, ma “fenomeni contingenti” e dichiarava che il vero scopo dei suoi esperimenti fosse quello di determinare come prolungare indefinitamente la vita di un tessuto al di fuori dell’organismo.
Fu Leonard Hayflick a scoprire che le cellule non si dividono all’infinito. Dopo circa cinquanta cicli di divisione, entrano in uno stato di arresto detto di senescenza, in cui smettono di moltiplicarsi e iniziano a produrre molecole infiammatorie che alterano l’ambiente circostante.
Circa vent’anni dopo l’istituzione del limite di Hayflick, i tre scienziati Elizabeth Blackburn, Carol Greider e Jack Szostak identificano i telomeri, piccole porzioni di DNA che proteggono le estremità dei cromosomi e si accorciano ogni volta che la cellula si divide. Funzionano, quindi, come una sorta di conto alla rovescia biologico. Quando diventano troppo corti, la cellula interrompe le divisioni, attivando i segnali della senescenza o della morte programmata. La scoperta valse a Blackburn, Greider e Szostak il premio Nobel per la medicina nel 2009, e diventerà parte di un disegno più ampio. Pochi anni più tardi, infatti, un gruppo di studiosi descrive tutti i meccanismi condivisi dai tessuti che invecchiano. Li chiamano hallmarks of aging (in italiano: “segni distintivi dell’invecchiamento”), nove caratteristiche ricorrenti ‒ tra cui, appunto, l’accorciamento dei telomeri e la senescenza cellulare ‒ che non agiscono isolatamente, ma si influenzano e si rafforzano a vicenda. Dieci anni dopo, nel 2023, quel modello viene aggiornato. I segni distintivi diventano dodici e includono nuovi fattori come il microbioma intestinale e la risposta cellulare allo stress.
L’industria della longevità
Attorno a queste ricerche negli ultimi anni è esplosa una vera e propria economia della longevità. Come ricostruisce il biologo e premio Nobel per la chimica Venkatraman Ramakrishnan nel suo libro Why We Die (in uscita per Adelphi a giugno con il titolo Perché moriamo), solo nell’ultimo decennio sono stati pubblicati più di 300.000 articoli scientifici sull’invecchiamento e sono nate più di 700 start up, tutte con l’obiettivo esplicito di rallentare, invertire o persino fermare il tempo biologico. In gioco ci sono decine di miliardi di dollari, un flusso di investimenti che intreccia scienza, tecnologia e finanza.
La longevità non è un parametro osservabile nel breve termine, e mancano ancora marcatori biologici affidabili che ci dicano ‒ con chiarezza e rigore ‒ se un corpo ha davvero smesso di invecchiare.
Eppure, al di là dell’euforia, viene da chiedersi: come si misura davvero l’efficacia di un trattamento contro l’invecchiamento? Non esistono, al momento, strumenti certi per quantificare i processi che ci fanno invecchiare. La longevità non è un parametro osservabile nel breve termine, e mancano ancora marcatori biologici affidabili che ci dicano ‒ con chiarezza e rigore ‒ se un corpo ha davvero smesso di invecchiare. Nel 2002, un gruppo di cinquantuno gerontologi ha pubblicamente messo in discussione le promesse dell’industria della longevità. Tra i punti principali della loro dichiarazione, si legge: “Eliminare tutte le cause di morte legate all’invecchiamento non aumenterebbe l’aspettativa di vita di più di quindici anni” e “Le possibilità che gli esseri umani possano vivere per sempre sono oggi tanto improbabili quanto lo sono sempre state”.
Ma fuori dai laboratori, la narrazione dell’eterna giovinezza avanza spedita. Pensiamo all’impatto mediatico di Bryan Johnson, milionario della Silicon Valley, che ha adottato un protocollo quotidiano da due milioni di dollari l’anno, tra supplementi, dieta vegana, controllo estremo dei dati corporei e trasfusioni di plasma tra padre, figlio e sé stesso. O a Peter Thiel, fondatore di PayPal, noto per i suoi investimenti in start up antiaging e per il suo dichiarato interesse verso pratiche di biohacking e progetti di estensione della vita. Anche in Italia, non mancano esempi. Silvio Berlusconi ha incarnato per anni l’ideale di un corpo da tenere giovane a ogni costo, tra trattamenti farmacologici e interventi estetici, mentre Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida pare si affidino a pratiche come la crioterapia e a consulenze di longevity expert.
Solo nell’ultimo decennio sono nate più di 700 start up, tutte con l’obiettivo esplicito di rallentare, invertire o persino fermare il tempo biologico. Se la longevità è diventata un’impresa privata, resta aperta una questione etica e sociale: chi potrà permettersela?
Ma se la longevità è diventata un’impresa privata, resta aperta una questione etica e sociale: chi potrà permettersela? E ancora, può la scienza ‒ per sua natura lenta, fallibile e collettiva ‒ reggere il passo di un’industria che si muove con logiche di profitto e di accelerazione permanente? Come osserva Ramakrishnan, oggi, anche scienziati di grande reputazione hanno interessi finanziari diretti nel settore della longevità, perché fondatori, dipendenti o consulenti di start up. Questo non è necessariamente un problema, ma ‒ scrive ‒ quando li vede promuovere con entusiasmo i risultati delle proprie ricerche o le promesse delle loro aziende, si chiede se ci credano davvero. Citando Upton Sinclair: “È difficile far capire qualcosa a un uomo, quando il suo stipendio dipende dal fatto che non la capisca”.