

È l’8 agosto 1589 e Crezia Mariani è appena stata condannata a morte per stregoneria. Siamo nella Lucca rinascimentale: una città-stato prospera e laica, dalla florida economia mercantile, con palazzi in pietra e marmo che si innalzano nella luce dorata dell’estate toscana. Niente a che vedere con le cupe atmosfere in stile Il nome della rosa che popolano il nostro immaginario quando pensiamo alla caccia alle streghe. Tutto era cominciato quasi come una formalità, durante una delle inchieste che il governo cittadino conduceva periodicamente contro le cosiddette “malie d’amore”: istruttorie che si concludevano quasi sempre con sanzioni leggere, volte a punire quelli che le autorità consideravano per lo più come “affari di donnicciole sentimentali”.
Nel caso di Crezia però le cose erano andate diversamente: era una donna anziana, vedova e povera – condizioni che per molti rappresentavano già una colpa – ma soprattutto, era una guaritrice. Curava le persone con erbe e formule propiziatorie, custode di una tradizione empirica tramandata di generazione in generazione attraverso una rete di conoscenze condivise. E questo, nella sedicente epoca d’oro del Rinascimento toscano, era un problema: si stava infatti consolidando un curioso sodalizio tra la Chiesa della Controriforma, chiamata a serrare i ranghi contro ogni manifestazione di possibile eresia, e la nuova classe professionale dei medici accademici, ansiosi di assicurarsi il monopolio corporativo. Il risultato fu la persecuzione di tutte quelle figure professionali – soprattutto femminili – che da secoli si sporcavano le mani alleviando concretamente le pene dei malati: cerusici, norcini, barbieri e, soprattutto, levatrici.
Spostare il nostro sguardo evolutivo
La figura della levatrice è, con ogni probabilità, molto più antica di quanto immaginiamo, e la sua importanza è stata radicalmente sottovalutata, anche dal punto di vista evolutivo. Quattrocentotrentacinque anni dopo la condanna di Crezia, Cat Bohannon, ricercatrice presso la Columbia University, nel suo saggio Eva. Come il corpo femminile ha plasmato l’evoluzione umana (2024) si interroga su una questione apparentemente provocatoria: “qual è stata l’invenzione più decisiva nella storia dell’umanità? La ruota, la lancia, internet?” La risposta che propone è sorprendente nella sua evidenza: la ginecologia, con il suo corredo di ostetricia, baliatico e assistenza prenatale. Proprio quelle pratiche che donne come Crezia Mariani portavano avanti a rischio della vita, mentre il sapere medico ufficiale ancora brancolava nel buio.
Tra bacini stretti, teste sovradimensionate, bambini bisognosi e fragili – senza contare una gravidanza, un parto e una ripresa post partum lunghi e laboriosi – è evidente che senza ingegno, e soprattutto senza cooperazione, la nostra specie non avrebbe avuto lo stesso successo evolutivo.
Tra bacini stretti, teste sovradimensionate, bambini bisognosi e fragili – senza contare una gravidanza, un parto e una ripresa post partum lunghi e laboriosi – è evidente che senza ingegno, e soprattutto senza cooperazione, saremmo spariti dall’Africa preistorica senza lasciare più di qualche fossile. “Forse l’evoluzione”, scrive Bohannon, “ricorda in qualche modo il film Magnolia di Paul Thomas Anderson o Crash di Paul Haggis o anche Babel di Alejandro Iñárritu. Non è possibile capirli a fondo a meno di non prestare molta attenzione a più di un protagonista alla volta”. Da qui la necessità di un racconto delle origini che tenga conto di una prospettiva finora ignorata.
Bohannon ci invita a immaginare un incipit alternativo a 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Non più la celebre sequenza “dall’osso-clava all’astronave”, con l’ominide maschio che scopre come uccidere e dominare. Al suo posto, un’altra scena: un piccolo gruppo di ominidi, maschi e femmine, adulti e bambini, tra cui una femmina in avanzato stato di gravidanza, che trova in una compagna più anziana un sostegno e una muta alleanza. Il bambino nasce, piccolo e fragile come tutti i neonati umani, e viene immediatamente sollevato, ripulito e attaccato al seno. È in scene di questo tipo che si nasconde il vero balzo evolutivo della nostra specie: la cooperazione che ha permesso la sopravvivenza collettiva.
Una cooperazione fondamentale anche dopo il parto, perché a differenza degli altri primati, i cuccioli umani completano il loro sviluppo neurologico fuori dal grembo materno, secondo la “strategia dell’altricialità secondaria”. Questa peculiarità evolutiva, che permette al cervello di continuare a crescere senza i vincoli del canale del parto, crea però una dipendenza prolungata che rende impossibile la sopravvivenza senza una fitta rete di cure. Come evidenzia Bohannon, questa caratteristica ha plasmato non solo la biologia umana, ma anche le nostre strutture sociali fondamentali, rendendo la cooperazione non un’opzione, ma una necessità evolutiva.
C’è chi suggerisce che furono le femmine le prime a fare uso di strumenti e utensili, spinte dalla necessità di risolvere problemi immediati. In quest’ottica, la tecnologia emergerebbe non tanto come estensione della forza, ma come amplificazione dell’intelligenza pratica e della capacità di adattamento.
Ma Bohannon va oltre, suggerendo che anche gli strumenti di caccia potrebbero avere avuto un’origine femminile. A supporto di questa ipotesi, cita uno studio del 2007 condotto da Jill Pruetz e Paco Bertolani, che hanno documentato come gli scimpanzé femmine nel Senegal sud-orientale modifichino rami con i denti per creare lance rudimentali. Quando gli scimpanzé maschi vanno a caccia, il loro corpo più grande e forte è spesso un’arma sufficiente. Le femmine, gravate dal peso dei piccoli e dalla responsabilità del loro nutrimento, hanno invece sviluppato strategie più complesse e collaborazioni più stabili.
La norma maschile
Come un fotografo che inquadra ostinatamente solo un lato del paesaggio, la scienza ha sviluppato una curiosa miopia di genere. E non è stata una svista casuale. La storia della medicina è costellata di esempi di questo pregiudizio, che ha influenzato non solo la nostra comprensione del passato, ma anche la pratica contemporanea. Quando, nel 1603, il medico veneziano Girolamo Fabrici d’Acquapendente pubblicò il suo De formato foetu, uno dei primi trattati di embriologia, fu acclamato come pioniere. Eppure, nelle sue pagine abbondantemente illustrate, il feto sembrava galleggiare in un vuoto astratto, mentre l’utero che lo ospitava appariva come un semplice contenitore passivo, quasi un dettaglio tecnico.
Fin dall’antica Grecia il corpo maschile è sempre stato considerato come lo standard e l’ideale, mentre quello femminile era ritenuto una versione imperfetta, una deviazione dalla norma.
Una delle concezioni distorte più radicate è quella che vede la donna come una sorta di uomo mancato. Fin dall’antica Grecia il corpo maschile è sempre stato considerato come lo standard e l’ideale, mentre quello femminile era ritenuto una versione imperfetta, una deviazione dalla norma. Galeno, ad esempio, le cui teorie dominavano ancora il sapere accademico ai tempi di Crezia Mariani, immaginava il sistema riproduttivo femminile come un pene rovesciato, con l’utero come un fallo cavo e le ovaie come testicoli interni. Una visione che trascurava completamente la specificità degli organi femminili e che ha influenzato per secoli la comprensione del corpo delle donne.
Ma questa miopia scientifica non è limitata all’antichità. Nel corso del Novecento, con il graduale accesso di sempre più donne alla professione medica, la situazione è migliorata ma non risolta. Certo, non si crede più, come sosteneva Galeno, che le anziane abbiano uno sguardo velenoso perché non espellono più le impurità attraverso le mestruazioni. Né si pensa, come sosteneva il medico e antropologo evoluzionista Paolo Mantegazza alla fine del Diciannovesimo secolo, che le donne abbiano il cuore più grande per compensare il loro cervello minuto, e siano pertanto naturalmente predisposte al sacrificio silenzioso.
Eppure, secondo Bohannon, persiste un problema di fondo che potremmo definire “la norma maschile”. Caroline Criado Perez l’ha documentato nel suo Invisible Women (2019), rivelando l’esclusione ancora massiccia delle donne dalla ricerca scientifica. Un’esclusione giustificata per lo più dal fatto che ignorare le differenze sessuali rende il lavoro più semplice. Si pensi che ancora negli anni Settanta del Novecento negli Stati Uniti veniva “fortemente sconsigliato” includere soggetti femminili (umani o animali) nei test clinici, per timore che “interferenze ormonali” falsassero i risultati. Molti articoli scientifici non dichiarano nemmeno di aver studiato solo soggetti maschili, e Bohannon riferisce di essersi trovata più volte a dover contattare direttamente gli autori per verificarlo.
Per colpa della sottorapresentazione femminile nella ricerca medica oggi molti dosaggi farmacologici sono calibrati su corpi maschili anche per farmaci come antidepressivi e antidolorifici, i cui effetti non sono affatto così generalizzabili.
Quando la scienza rafforza i pregiudizi
I pregiudizi di genere nella medicina si manifestano anche nella formazione delle nuove generazioni di medici. Un’analisi recente sui libri di testo raccomandati dalle venti università più prestigiose di Europa, Stati Uniti e Canada rivela un dato emblematico: su 16.329 immagini usate per rappresentare il corpo umano, quello degli uomini è presente tre volte di più rispetto al corpo femminile. Anche nella rappresentazione visiva, dunque, il corpo maschile continua a essere proposto come standard, mentre quello femminile appare come eccezione o variante.
Il risultato di questo approccio riduttivo è davanti ai nostri occhi: donne che muoiono più spesso di infarto perché i loro sintomi sono diversi e meno riconosciuti, o dosaggi farmacologici calibrati su corpi maschili anche per farmaci come antidepressivi e antidolorifici, i cui effetti non sono affatto così generalizzabili come si crede. In pratica, le fisiologiche differenze sessuali, a lungo strumentalizzate prima dalla Chiesa e poi dalla scienza per legittimare e imporre funzioni sociali di grado inferiore, non possono però nemmeno essere cancellate, perché, sostiene Bohannon, esistono delle specificità che, se ignorate, rischiano di interpretare nuovamente il corpo femminile come una variazione di quello maschile, con effetti anche gravi per la salute.
Questa sistematica esclusione naturalmente esisteva anche tra i dotti medievali, per i quali la ginecologia era soprattutto un argomento scabroso su cui era meglio soprassedere. Nel Cinquecento il corpo femminile riacquisisce centralità, ma in un’ottica forviante: tutte le malattie delle donne vengono interpretate come malattie dell’utero, con la conseguenza di considerare patologiche anche manifestazioni che non lo sono, come le mestruazioni o la menopausa.
Per molto tempo il sapere medico ufficiale ha fornito una giustificazione “oggettiva” all’esclusione delle donne dalle istituzioni e dalla vita pubblica: non era la cultura patriarcale a relegarle in uno spazio limitato, ma la loro stessa natura “instabile” a renderle inadatte a compiti di responsabilità.
Nel mondo dei guaritori empirici, invece, le cose funzionavano diversamente. Mentre la medicina ufficiale costruiva teorie distanti dall’esperienza, figure come Crezia Mariani perpetuavano un sapere pratico basato sull’osservazione. Riconoscevano, secoli prima di Pasteur, l’importanza della pulizia e il rischio del contagio e comprendevano che le malattie cambiano col tempo e al variare delle condizioni di clima, di lavoro o di nutrizione. Enrica Chiaramonte, Giovanna Frezza e Silvia Tozzi, nel loro Donne senza rinascimento (1991), lo descrivono come “un sapere del corpo”: concreto, efficace, tramandato da una comunità prevalentemente femminile che, pur esclusa dalle università, continuava a curare e guarire.
Al contrario, i medici laureati prestavano attenzione solo a quelle manifestazioni che, leggendo, avevano imparato a riconoscere e non gli interessava chiedere al malato, come un tempo faceva il medico ippocratico, notizie sulla propria malattia, sui sintomi e sul decorso. Se in un primo tempo l’attività degli empirici si affiancava a quella dei maestri laureati, disposti anche a rubare alcuni trucchetti e ad attingere alle vecchie ricette più efficaci, col tempo la medicina ufficiale rifiutò sempre più di sentirsi contigua a quella che veniva considerata “mera tecnica”.
Gli attacchi all’artigianato minuto della professione non procedevano tanto da una verifica di inefficacia, quanto dal loro non essere omogenei agli orientamenti e ai canoni fissati da un’impalcatura teoretica autoritaria. Si creò così un clima di delazione che coinvolse anche la nostra Crezia: capro espiatorio per una condanna esemplare che non verrà mai eseguita, perché la Mariani morirà in cella – probabilmente a causa delle torture – pochi giorni prima della data fissata per l’esecuzione.
Quella che veniva presentata come una battaglia della scienza contro la superstizione si rivelò, in molti casi, un arretramento della conoscenza empirica a favore di teorie astratte e spesso inefficaci.
Tra le conoscenze accantonate vi furono anche quelle che aiutavano (pur in modo rudimentale) il controllo delle nascite. Strategie che Bohannon indica come antichissime e fondamentali per la specie: “A ogni stadio della sua evoluzione”, scrive, “la ginecologia umana comprende anche molti tipi di controllo delle nascite, l’aborto e altri interventi contro la fertilità. La scelta riproduttiva femminile è di antica data”. Come dimostrano, per esempio, alcune tavolette sumere scritte in caratteri cuneiformi che offrivano consigli per aumentare o ridurre la fertilità. Lungi dall’essere una “invenzione moderna”, la scelta riproduttiva femminile è una strategia evolutiva antica. Come abbiamo visto, la gravidanza e il parto comportano rischi significativi; di conseguenza, avere troppe gravidanze troppo ravvicinate aumenta le complicanze e il tasso di mortalità. Per contro, la capacità di regolare la fertilità ha permesso alle popolazioni umane di adattarsi a diverse sfide ambientali e di migrare con successo in ambienti molto diversi tra loro.
Conoscenze interrotte
Nel suo monumentale lavoro, che ha richiesto un decennio di studi, Bohannon cerca di fornire spiegazioni che intrecciano biologia e assetto sociale. Spiegazioni che a volte risultano incerte o soffrono di eccessivo determinismo, come accade spesso con i saggi di antropologia più ambiziosi. Ma la sua galleria di “Eve primordiali”, progenitrici esemplari che hanno plasmato l’evoluzione umana, è potente, e a tratti commovente nel suo permetterci di empatizzare con creature tanto distanti da noi, vissute qualche milione di anni fa, che con noi condividono comuni tratti ancestrali. In questo modo riesce nell’impresa di trasformare la preistoria in un racconto popolato di personaggi a cui possiamo affezionarci, rendendo tangibile quella che altrimenti resterebbe una fredda successione di specie e mutazioni genetiche.
La storia dell’evoluzione dimenticata del corpo femminile e quella della persecuzione storica delle guaritrici sono in fondo la stessa: quella di una conoscenza sommersa che continua a riemergere nonostante i tentativi di cancellarla.
In contrasto con la narrazione tradizionale dell’evoluzione umana – incentrata quasi esclusivamente su maschi cacciatori e sulla competizione per le risorse – Bohannon ci presenta figure come Morgie, vissuta nelle paludi umide della fine del Triassico: una sorta di incrocio tra una donnola e un topo, un animale che deponeva le uova e che fu probabilmente la prima creatura ad allattare. O Donna, vissuta tra 67 e 63 milioni di anni fa, una specie di donnola-scoiattolo, antenata dei mammiferi con un utero simile al nostro. “Non abbiamo dunque una sola madre”, scrive Bohannon, “ne abbiamo molte. E ognuna di queste Eve ha un suo Eden personale”.
Le nostre gambe da bipedi, la capacità di servirci di utensili, il tessuto adiposo del cervello: sono tutte caratteristiche che ci rendono “umani” e sono comparse in momenti diversi del nostro passato evolutivo, plasmando non solo la biologia ma anche le strutture sociali della nostra specie. Strutture che, come ci ricorda Bohannon, si sono formate anche grazie alla pressione di necessità specificamente femminili.
La storia dell’evoluzione dimenticata del corpo femminile e quella della persecuzione storica delle guaritrici sono in fondo la stessa: quella di una conoscenza sommersa che continua a riemergere nonostante i tentativi di cancellarla. Dietro la persecuzione delle guaritrici e la delegittimazione del loro sapere empirico si nascondeva qualcosa di più profondo della semplice competizione professionale: il tentativo di disciplinare non solo i corpi, ma anche il modo in cui questi corpi venivano compresi e raccontati.
Non è un caso che gli stessi secoli che videro l’ascesa della medicina accademica e il declino delle guaritrici popolari coincidano con una sempre più rigida codificazione dei ruoli di genere. Il caso di Crezia Mariani si inserisce in questo complesso intreccio di fattori: la sua condanna non fu solo il risultato di una specifica accusa di stregoneria, ma parte di un più ampio processo di ridefinizione dei confini della conoscenza legittima. In gioco non c’era solo la competizione tra sistemi terapeutici diversi, ma anche il controllo su chi potesse produrre e trasmettere il sapere sul corpo, soprattutto quello femminile.
Al di là delle specifiche tesi biologiche, se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia evolutiva femminile, come dalla storia di Crezia e delle antiche guaritrici, è che la conoscenza è sempre situata, sempre parziale. E che recuperare le narrazioni sommerse non è un esercizio di correttezza politica, ma una necessità epistemologica per comprendere più pienamente chi siamo e come siamo diventati tali.