

L o scorso 28 aprile la penisola iberica è rimasta senza elettricità. Attorno alle 12 e 30 una serie di piccole interruzioni concentrate nel sud della Spagna ha innescato una reazione a catena che ha compromesso la rete elettrica spagnola. I computer che regolano le delicate esigenze di un’infrastruttura energetica moderna sono subito intervenuti, riportando la rete in equilibrio. Ma dopo pochi istanti è arrivato un secondo evento, e poi un terzo. Nel giro di cinque secondi il sistema elettrico spagnolo è collassato, portandosi dietro quello portoghese. Per dieci ore in media ‒ in alcune città, in realtà, parecchie di più ‒ hanno smesso di funzionare le metro, i treni, gli ascensori, gli elettrodomestici, la connessione telefonica e internet, le lampadine.
Per alcuni il blackout è stata una tragedia: almeno quattro persone hanno perso la vita per cause legate all’assenza di corrente, chi intossicato da vecchie stufe a gas e chi dal fumo di un incendio originato dalle candele. Per altri ‒ quelli che hanno avuto la sfortuna di rimanere bloccati in un ascensore o in un vagone ‒ è stato come minimo un brutto pomeriggio. Ma la stragrande maggioranza degli spagnoli e dei portoghesi ne conserva un ricordo diverso. La luce è mancata a mezzogiorno di un tiepido giorno di primavera, col sole che splendeva su praticamente tutta la penisola. Le aziende hanno chiuso, il governo ha mandato per strada le volanti della polizia a chiedere alla gente di rimanere dove si trovava e di non prendere l’auto, e senza telefono non c’era modo di sapere cosa stesse succedendo o contattare i propri cari. Per tanti, la cosa più sensata da fare è stata trovare il parco più vicino ‒ o un bar che vendesse birre anche con la cassa spenta e i frigoriferi ormai tiepidi ‒ e aspettare. A camminare per il centro delle città iberiche, nelle ore del blackout, sembrava di essere nel mezzo di una domenica di ferie, più che in una emergenza.
Quel lunedì ero anche io in Spagna. Quando nella notte è tornata la connessione, ho visto un tweet di un utente madrileno. Diceva: “sono stato meglio oggi col blackout che tutti gli altri giorni con la luce”.
L’economia del benessere
A molti accademici che si occupano di economia del benessere non piacerebbe che un articolo sulle loro proposte iniziasse con la descrizione di un collasso della rete elettrica. “Quello che vogliamo non è una società senza tecnologia o un salto indietro di secoli” mi spiega Tommaso Felici, docente di economia ambientale all’Università di Utrecht. Ha ragione lui, ovviamente, ma rimane il fatto che il tema di questo articolo ha a che fare col cambiare ‒ e in qualche modo ridurre ‒ i nostri consumi, anche energetici, al fine di costruire una società più sostenibile.
I teorici dell’economia del benessere concordano sulla necessità di valutare diversamente il funzionamento delle società in cui viviamo, concentrandoci su fattori come l’aspettativa di vita media, il tasso d’istruzione, l’accesso ai servizi di base, la salute degli ecosistemi naturali e la felicità percepita.
I diversi filoni di studio interni a questo ambito hanno in comune la necessità di misurare il successo dell’economia su parametri che abbiano a che fare, per l’appunto, con il livello di benessere di una società, e indirizzare di conseguenza l’azione politica. L’indicatore oggi comunemente accettato per valutare lo stato di salute di un’economia è il prodotto interno lordo (PIL). Si calcola sommando il valore di tutti i beni e servizi prodotti in un territorio in un dato lasso di tempo: quando sentiamo frasi come “L’Italia entra in recessione” o “la Cina continua a crescere”, stiamo parlando dell’aumento o della diminuzione di questo parametro. Tutti i teorici del benessere concordano sulla necessità di valutare diversamente il funzionamento delle società in cui viviamo, centrandoci su fattori come la felicità percepita, l’aspettativa di vita media, il tasso d’istruzione, l’accesso ai servizi di base, la salute degli ecosistemi naturali. Le Nazioni Unite usano nei loro report l’Indice di sviluppo umano (ISU o HDI, Human Development Index), che include reddito pro capite, aspettativa di vita e istruzione. Alcuni ricercatori dell’Università di Londra lo hanno modificato per includere al suo interno anche una serie di parametri ecologici, dando così vita all’Indice di sviluppo sostenibile (ISS o SDI, Sustainable Development Index). In questa classifica, i tre Paesi con la migliore combinazione di reddito, stile di vita e impatto ecologico sono Costa Rica, Uruguay e Sri Lanka; gli ultimi Lussemburgo, Kuwait e Qatar.
Le proposte che ricadono sotto l’etichetta di economia del benessere sono molte. Prima di esplorarle, però, è necessario comprendere perché la crescita economica non possa essere una buona approssimazione del benessere di una società.
Crescere o non crescere
I periodi di crescita economica sono stati spesso anche periodi di ottimismo, ed è legittimo domandarsi da dove provenga la necessità di abbandonare un paradigma che a lungo sembra aver funzionato. “Te lo dico con uno slogan un po’ datato ma efficace” risponde Riccardo Mastini, ricercatore al Politecnico di Milano e consulente delle Nazioni Unite: “la crescita infinita in un mondo dalle risorse finite è impossibile”. Il concetto chiave è quello di limite. L’ecologo svedese Johan Rockström, insieme ad altri autori, pubblicò nel 2009 uno studio ‒ tutt’oggi citatissimo ‒ che teorizzava la presenza di nove limiti planetari, superati i quali la stabilità degli ecosistemi sui quali abbiamo costruito le nostre civiltà viene messa a rischio. Il primo riguarda la concentrazione di gas climalteranti in atmosfera, e quindi la necessità di stabilizzare le temperature medie del pianeta, ma ugualmente cruciali sono il ciclo dell’azoto e del fosforo, la perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani, la riduzione dell’ozono atmosferico, l’inquinamento da sostanze chimiche, l’accumulo di particolati, il consumo di acqua dolce e di suolo, e l’acidificazione degli oceani.
In un cruciale studio del 2009, l’ecologo svedese Johan Rockström ha teorizzato la presenza di nove limiti planetari, superati i quali la stabilità degli ecosistemi sui quali abbiamo costruito le nostre civiltà viene messa a rischio.
Questa conclusione trova in disaccordo molti economisti, che per quanto divisi tendenzialmente concordano sull’idea che la crescita economica sia condizione necessaria per l’avanzamento della società. Per alcuni studiosi, l’economia del benessere assomiglia davvero al blackout spagnolo di cui sopra: poca energia, poche risorse, poca sicurezza. “Ma è un’idea vecchia” spiega Felici che, pur essendo economista, dissente da buona parte dei suoi colleghi. “Sicuramente in passato la crescita ha portato a maggior benessere, e questo rimane vero per molti dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Ma nella nostra Europa industrializzata non è più così. Anzi, quando il PIL aumenta, aumentano anche le disuguaglianze. Il caso italiano è emblematico: i salari reali sono fermi da trent’anni, nonostante ci sia stata crescita”.
Ciò che dice Felici trova riscontro nei dati. Nel 2018 un gruppo di ricercatori dell’Università di Leeds ha pubblicato uno studio intitolato A Good Life for all within Planetary Boundaries, che rileva come l’aumento del reddito medio pro capite corrisponda effettivamente a un aumento della qualità di vita, ma solo fino a una certa soglia. Superata questa, che i ricercatori ritengono stia attorno ai 20.000 dollari, l’aumento di questo parametro non è più correlato ad un’aspettativa di vita più alta, a tassi di istruzione migliori o a più felicità percepita. Tradotto: nella Spagna del blackout per far star meglio la gente, piuttosto che accrescere l’economia complessiva della nazione, sarebbe utile distribuire diversamente la ricchezza che già c’è. Ad esempio, investendo su una rete elettrica più pulita e sicura.
A un aumento del reddito medio pro capite corrisponde effettivamente un aumento della qualità di vita, in termini di aspettativa di vita, tassi di istruzione o felicità percepita, ma solo fino ad una certa soglia.
Uno spazio operativo sicuro e giusto
I teorici dell’economia del benessere concordano su un assunto di base: non deve essere la crescita a guidare le scelte di una società. Come debba funzionare un modello alternativo, però, è tema di dibattito. Un grande interrogativo è cosa fare dell’economia del presente, che si prefigge un aumento del PIL trimestre dopo trimestre. Per la maggioranza degli studiosi di quest’area, è impossibile disaccoppiare l’aumento del PIL dal deterioramento degli habitat naturali, dalle emissioni, e dallo sforamento di quei limiti che abbiamo descritto sopra. È questa la posizione anche di Riccardo Mastini: “La crescita del PIL è stata un grande calmante sociale. Di fronte alla povertà, invece di distribuire diversamente la ricchezza che già esisteva si è deciso di crearne di nuova, promettendo che un po’ di quelle risorse fresche sarebbero andate a tutti. E ha funzionato, almeno in parte, ma al prezzo inevitabile di esternalità negative sempre più pesanti ‒ dal riscaldamento globale alla crisi degli ecosistemi. Effetti collaterali che, paradossalmente, mettono a rischio le conquiste fin qua avvenute”.
Sarebbe più utile parlare di post-crescita, piuttosto che di decrescita. Il punto non è decrescere in sé e per sé, quanto cambiare il nostro parametro guida, dall’aumento del PIL all’aumento della qualità di vita delle persone.
Ciò su cui tutti gli studiosi del benessere sono invece concordi è la necessità di porre al centro i bisogni essenziali delle persone: cibo, un tetto sopra la testa, la possibilità di istruirsi, di curarsi, di avere tempo libero. L’economia del benessere è, in questo senso, erede diretta dello Stato sociale novecentesco: l’intera struttura produttiva, l’intero mercato del lavoro, devono essere prima di tutto al servizio del welfare, nel senso ampio del termine. Per ottenere ciò non serve necessariamente un’economia pianificata sul modello sovietico, ma di sicuro occorre che si contragga lo spazio del mercato e si ampli l’intervento pubblico. Un passaggio ineludibile è la redistribuzione della ricchezza. L’economista inglese Kate Raworth ha teorizzato per prima il modello economico della ciambella, in cui lo spazio operativo per l’umanità andrebbe cercato nella fascia compresa tra due limiti: uno ecologico esterno e uno sociale interno. Per Raworth, nessuno dovrebbe essere troppo povero da non poter accedere a risorse e diritti fondamentali, e nessuno dovrebbe essere così ricco da incidere negativamente sui limiti planetari.
Tradurre in politiche concrete i principi di cui sopra è tutt’altro che facile, ed è su questo che si è focalizzata buona parte del lavoro di quest’area politica e culturale degli ultimi decenni. Una misura da tempo proposta è quella del reddito di base universale. Si tratterebbe di un sussidio erogato dallo Stato a chiunque possegga la cittadinanza ‒ o, addirittura, la residenza ‒ a prescindere dal lavoro. Una grande operazione di redistribuzione della ricchezza, ovviamente, ma anche il principio di una trasformazione più profonda. Nel breve termine, un reddito universale permetterebbe di rendere socialmente accettabile la contrazione della produzione industriale o la chiusura di certi settori particolarmente impattanti; nel lungo, di iniziare a slegare il lavoro dalla necessità di avere un salario, e costruire un’economia non più basata sui consumi. L’accorciamento delle catene del valore ‒ cioè, riportare i luoghi di produzione più vicino a quelli di consumo ‒ è un’altra politica che mira assieme a ridurre il consumo energetico e logistico, oltre ad aumentare le possibilità di impiego.
Secondo il modello economico a ciambella di Raworth, lo spazio operativo per l’umanità dovrebbe avere un limite ecologico e uno sociale: nessuno dovrebbe essere troppo povero da non poter accedere a risorse e diritti fondamentali, nessuno così ricco da incidere negativamente sui limiti planetari.
L’economia del benessere è economia della cura
Un ripensamento dell’economia non può prescindere dal concetto di “lavoro di cura”, ossia quelle attività indispensabili ‒ come crescere i bambini, aiutare gli anziani, gestire le attività domestiche ‒ che tradizionalmente sono svolte in forma gratuita dalle donne. La redistribuzione e retribuzione di quel lavoro potrebbe essere la chiave di volta per un’economia diversa.
Ina Praetorius è una teologa svizzera, tra le fondatrici della Network Care Revolution. “Le donne sono il prosieguo degli schiavi dell’antichità. Platone distingueva tra liberi e dipendenti: i primi erano gli uomini adulti con la cittadinanza, i secondi erano i bambini, gli schiavi e le donne” mi spiega. “L’illuminismo abolisce l’impianto formale di questa divisione, ma rimangono in piedi gli usi. E il capitalismo, quando nasce, trova molto conveniente avere questa manodopera gratuita addetta ad attività indispensabili, dalla cucina al supporto ai malati. Tutt’oggi quante persone ‒ non solo uomini e non solo conservatrici ‒ ritengono naturale che certi lavori siano svolti dalle donne della famiglia?”.
Per economia della cura si intende un sistema economico centrato sul soddisfacimento dei bisogni delle persone in forma organizzata, legalmente riconosciuta ed equamente distribuita tra i generi. L’idea è che quelle mansioni storicamente svolte da donne in ambito familiare e senza salario diventino il punto focale delle nostre economie. Il reddito di base prima citato, ad esempio, permetterebbe di liberare almeno parte del tempo che impieghiamo nel normale lavoro salariato, permettendo a tutti ‒ a prescindere dal genere ‒ di usarlo anche per questo genere di attività così indispensabili.
Le assonanze con l’economia del benessere sono chiare. “L’idea della cura nasce nell’ambito del movimento femminista, ma non è un tema di genere: è di tutti” continua la teologa: “se penso al mondo tra cento anni, immagino molto più tempo libero: per curare la famiglia e la casa, certo, ma anche per l’ozio ‒ che è importantissimo ed è un diritto di tutti, non solo dei ricchi».
Un ripensamento dell’economia non può prescindere dalla redistribuzione e retribuzione del lavoro di cura, ossia quelle attività indispensabili che tradizionalmente sono svolte in forma gratuita dalle donne.
Il reddito di base universale è la prima delle proposte che mette d’accordo promotori della decrescita, dell’economia del benessere e delle istanze femministe. Spostare i capitali pubblici da settori ad alto impatto ecologico e bassa utilità sociale ‒ il fossile, le armi, il cibo spazzatura ‒ a settori poco impattanti ed essenziali come quelli della cura è un secondo, importante punto di contatto. Il terzo è la riduzione dell’orario lavorativo. “Produrre meno significa anche ridurre il monte ore lavorato. E se puntiamo a garantire a tutti un impiego, la logica conseguenza è lavorare meno” dice Mastini. L’idea è che da un lato l’economia del benessere richieda di produrre meno, e quindi liberi tempo nella vita delle persone; dall’altra che il tempo libero sia prerequisito per distribuire meglio il cosiddetto lavoro domestico.
Lo spazio per il benessere
Nonostante il relativo successo in campo accademico o nella bolla dei movimenti sociali, per ora molto poco dell’economia del benessere si è tradotto in prassi politica. La primazia del PIL come indicatore del successo di un’economia non è mai stata davvero messa in discussione da nessun governo, e lo spazio del welfare o dell’intervento pubblico, almeno in Occidente, si va riducendo, invece che aumentare. In Europa, il piano di riarmo delle istituzioni comunitarie e dei governi rischia di sostituire lo stato sociale e la transizione ecologica tra le prime voci dei bilanci pubblici del prossimo lustro.
Eppure, le questioni poste dai teorici del benessere non sono venute meno. E mai come oggi si avverte la necessità di riconcepire la nostra idea di benessere. Il giorno seguente al blackout, i social spagnoli si sono riempiti di persone che, più o meno ironicamente, si interrogavano sul fatto che, tutto sommato, senza corrente non si stesse poi così male. I cittadini di un Paese ricco e sviluppato, in cui il PIL cresce e gli indicatori macroeconomici tradizionali sono tutti positivi, hanno salutato più con sollievo che con paura l’assenza di elettricità. Nemmeno il più radicale dei “decrescisti” proporrebbe di farne a meno, ma quelle reazioni rimandano ugualmente a una riflessione: quali precondizioni, quali servizi e quali opportunità rendono la vita di una persona soddisfacente? Siamo sicuri che il sistema in cui viviamo ci renda più felici di quanto ci faccia sentire in trappola? E ancora: quale economia può consentirci di utilizzare diversamente le nostre risorse, indirizzandole verso beni e servizi che, nel loro insieme, contribuiscano a costruire una società felice?