

T utti abbiamo in mente la classica rappresentazione visiva dell’evoluzione umana. Una serie di silhouette di ominidi posti di profilo: all’estremità di sinistra il più rozzo e primitivo, che ancora cammina su quattro zampe, e all’estremità di destra, a conclusione di una serie di passaggi intermedi, la rappresentazione dell’essere umano moderno, snello, alto, bipede e, tipicamente, dotato di strumenti sofisticati.
Oggi sappiamo che questa rappresentazione, per quanto intuitiva e suggestiva, è sbagliata. E lo è a diversi livelli e per diversi motivi: innanzitutto perché, come gli antropologi hanno ricostruito, soprattutto grazie alle scoperte degli ultimi decenni, l’evoluzione umana non è stata una storia di progresso lineare da una forma “primitiva” all’altra, con un lento perfezionamento fino alla forma umana “moderna”, più perfetta delle precedenti. Più in generale – ed è questo il punto più interessante, nel nostro caso – questa rappresentazione tradisce un nostro pregiudizio inveterato sulla traiettoria dell’evoluzione della vita: seguendo una convinzione che ci tramandiamo fin dall’antichità (si pensi alla narrazione aristotelica della storia naturale), noi occidentali crediamo che l’evoluzione delle specie sia proceduta su una linea più o meno retta che va da forme semplici a forme via via più complesse – e dunque, implicitamente, più compiute.
Che nel corso della storia della vita la complessità sia aumentata è un fenomeno osservabile: i primi organismi viventi erano, se non altro sul piano anatomico, molto più semplici di quelli odierni. Ma sarebbe un errore – seppur comprensibile e molto umano – concludere che vi sia una qualche legge naturale che postula una tendenza all’aumento della complessità della vita. Al contrario, oggi è noto che, in molti casi, nel corso dell’evoluzione la complessità delle forme di vita può anche diminuire, e che questo fenomeno (noto come regressione) può avere un valore adattativo, aumentando le chance di sopravvivenza e di riproduzione delle specie in cui si manifesta.
Che nel corso della storia della vita la complessità sia aumentata è un fenomeno osservabile. Ma sarebbe un errore dedurre che vi sia una qualche legge naturale che postula una tendenza all’aumento della complessità della vita.
Un concentrato di evoluzione
Oikopleura dioica è un minuscolo animale marino che vive nelle acque superficiali di molti oceani del pianeta. Rientra nella categoria ecologica dello zooplancton, quell’insieme di microscopici (o quasi) animali galleggianti che formano la base della catena alimentare degli oceani. Questo tunicato dalla forma simile a una larva è composto da una lunga coda e da un tronco nel quale sono contenuti, in forma rudimentale, gli organi necessari alla nutrizione e alla circolazione del sangue. La famiglia delle Oikopleuridae, di cui questa specie fa parte, appartiene alla classe degli Appendicolarie, piccoli organismi marini che, a dispetto delle apparenze, non sono poi così distanti da noi mammiferi: infatti, sono i rappresentanti originari del phylum dei Cordati, al quale anche noi apparteniamo. I Cordati sono gli animali dotati di una notocorda, una forma rudimentale di spina dorsale che corre lungo tutto il corpo dividendolo in due lati perfettamente simmetrici.
Al di là della sua storia familiare evolutiva, O. dioica è salita agli onori della cronaca scientifica perché da alcuni anni è studiata, come organismo modello, da alcuni gruppi di ricercatori in varie parti del mondo (specificamente in Giappone, Spagna e Norvegia), per alcune sue sorprendenti particolarità. Nello specifico, si è scoperto che il genoma di questo animale, nel suo percorso evolutivo, è andato incontro prima a un’estrema semplificazione e, in seguito, a una nuova ondata di diversificazione.
Una prima scoperta sorprendente su questa specie è emersa dall’esito di un’analisi genetica condotta su individui teoricamente appartenenti alla stessa specie ma prelevati in tre aree marine diverse. Gli individui delle tre popolazioni non presentavano differenze nella struttura corporea, nei comportamenti o nelle pressioni ecologiche a cui erano sottoposti, ma avevano differenze molto evidenti a livello genetico. Questa discrepanza poteva essere spiegata ipotizzando che, in queste tre popolazioni, lo stesso fenotipo si esprimesse attraverso combinazioni geniche diverse – un fenomeno che gli autori della ricerca, pubblicata nel 2024 sulla rivista scientifica Genome Research, hanno definito “genome scrambling”, rimescolamento genetico.
L’animale marino O. dioica è da anni oggetto di studio perché il suo genoma, nel suo percorso evolutivo, è andato incontro prima a un’estrema semplificazione e poi a una nuova ondata di diversificazione.
Perdere geni è un’opportunità evolutiva?
Che la perdita di geni sia più pervasiva di quanto si pensasse è stato confermato grazie al potenziamento, negli ultimi decenni, delle tecniche di sequenziamento genetico. Questo fenomeno consiste nella disattivazione o nell’eliminazione fisica (ad esempio a causa di mutazioni) di alcuni geni che, in relazione al mutare delle condizioni ambientali e ad altre pressioni selettive, non sono più necessari alla sopravvivenza e al successo evolutivo di una specie, diventando così “eliminabili” per la selezione naturale. Analisi genetiche comparative hanno mostrato che questo fenomeno è pervasivo nell’albero filogenetico della vita sul pianeta: se ne trovano esempi in tutti i sei regni, dai batteri agli animali, dalle piante ai funghi, anche se la perdita di geni non avviene in modo casuale, ma è correlata ad alcune caratteristiche: si verifica soprattutto in specie con maggiore ridondanza genetica (dove, cioè, più geni diversi possono svolgere la stessa funzione), com’è il caso di molte piante.
A lungo si è ritenuto che la perdita di geni non potesse offrire alcun vantaggio evolutivo, poiché la prospettiva evoluzionistica standard prevedeva che l’evoluzione si manifestasse in un progressivo aumento della complessità delle forme di vita. Ma come abbiamo detto, questo paradigma è stato messo in discussione quando venne avanzata l’ipotesi “less is more”.
Quando le condizioni ambientali variano può accadere che mantenere funzioni attivate da geni che in passato avevano consentito a una specie di sopravvivere e riprodursi divenga svantaggioso: in questi casi, la perdita di geni può garantire un vantaggio evolutivo.
“Se, come suggerisco, meno è spesso meglio quando si tratta di funzioni genetiche”, scrisse nel 1999 il biologo molecolare Maynard Olson, “la perdita adattativa di funzionalità potrebbe verificarsi di frequente e diffondersi rapidamente in popolazioni di piccole dimensioni”. In altri termini, quando le condizioni ambientali variano, potrebbe accadere che mantenere le funzioni attivate da alcuni geni, che in passato avevano consentito agli esemplari di una specie di sopravvivere e riprodursi, divenga svantaggioso: in questi casi, un organismo in cui si verifichi la perdita di uno di quei geni potrebbe essere favorito dalla selezione, avere quindi più successo evolutivo e diffondere il proprio genoma “difettoso” nella popolazione. La perdita di geni sarebbe, in questo quadro, una vera e propria forza evolutiva, contribuendo all’adattamento e, di conseguenza, al mutamento evolutivo di popolazioni e specie.
Strade evolutive diverse, stessi risultati
Questa teoria è stata nel tempo largamente confermata a livello sperimentale, anche grazie agli studi condotti proprio su O. dioica. Questo tunicato occupa una posizione filogenetica particolarmente interessante: fa parte del gruppo tassonomico evolutivamente più vicino a quello dei vertebrati. A differenza di tutti gli altri Cordati, il gruppo degli urocordati (a cui O. dioica appartiene) sembra esser stato particolarmente esposto alla perdita di geni durante il suo percorso evolutivo, e questo fenomeno pare aver raggiunto una manifestazione estrema proprio in O. dioica.
Secondo la teoria del “paradosso inverso” esistono casi in cui gli organismi sono in grado di sviluppare morfologie incredibilmente simili pur avendo sostanziali differenze genetiche.
Questa mancanza, in particolare, è sorprendente: l’acido retinoico, infatti, ha il ruolo di guidare lo sviluppo dell’asse anteriore-posteriore durante le prime fasi di sviluppo dell’embrione. Pur essendo privi dei geni che regolano questo processo, gli individui di O. dioica non mostrano alcun problema nello sviluppo embrionale dell’asse antero-posteriore, sebbene, a rigore, ci si aspetterebbe che la mancanza di questi geni culmini in gravi malformazioni della parte posteriore del corpo dell’embrione.
Perdite e duplicazioni
A partire da queste osservazioni, i ricercatori hanno sviluppato la teoria del “paradosso inverso” della biologia dello sviluppo, secondo cui in alcuni casi gli organismi sono in grado di sviluppare morfologie incredibilmente simili pur avendo sostanziali differenze genetiche. Questo fenomeno risulta particolarmente evidente nel caso in cui ad aver perso geni nel corso dell’evoluzione siano stati i “kit” di geni che governano le diverse fasi dello sviluppo dell’organismo.
Muovendo da questi risultati, il gruppo di ricerca spagnolo ha raffinato le proprie conoscenze sia in ambito sperimentale, sia sul versante teorico. A inizio 2025, un nuovo paper pubblicato sulla rivista Molecolar Biology and Evolution ha chiarito come la perdita di geni potrebbe aver plasmato la traiettoria evolutiva degli urocordati, suggerendo che proprio questo meccanismo potrebbe aver contribuito in modo fondamentale al passaggio dalla modalità di vita sessile (ancorata a un substrato) delle Ascidie ‒ piccoli animali dalla forma molto semplice che vivono ancorati ai fondali marini filtrando acqua ‒, alla vita libera delle Appendicolarie, ossia gli organismi planctonici di forma larvacea come O. dioica.
Nello studio i ricercatori si sono concentrati su come, in questo animale, l’assenza dei geni che regolano la funzionalità dell’acido retinoico abbia influito sulle variazioni della famiglia di geni che codificano alcune proteine, come l’eparina, note come fattori di crescita dei fibroblasti (Fibroblast Growth Factors, FGF): queste sono essenziali per la regolazione dei meccanismi di riparazione dei tessuti e per la formazione dei vasi sanguigni, e inoltre, facendo da contrappunto ai percorsi di segnalazione dell’acido retinoico, sono altrettanto essenziali per lo sviluppo embrionale.
Secondo questa nuova teoria la perdita di geni non sarebbe solo una strategia adattativa, ma anche un vero e proprio motore di diversificazione evolutiva, capace di liberare spazio per soluzioni innovative.
Conducendo un’indagine comparativa tra Ascidie e Appendicolarie, i ricercatori hanno concluso che, nell’evoluzione della famiglia a cui appartiene O. dioica, a una radicale riduzione della sottofamiglia di geni FGF è seguita una duplicazione genica e una successiva diversificazione proprio a partire dalle due sottofamiglie rimaste. Questa diversificazione ha consentito a questa specie di acquisire nuove funzioni che potrebbero addirittura aver contribuito al passaggio dallo stile di vita sessile a quello “libero”, in grado di nuotare. Tali funzioni si sarebbero poi conservate nei vertebrati.
Meno, ma di più
Secondo i ricercatori, questo scenario di perdita di geni, liberazione di spazio “esplorativo” e ridiversificazione conferma la teoria del “less is more” ma, in più, la completa, con un’integrazione che gli studiosi hanno proposto di chiamare “less, but more”. In questa prospettiva, la perdita di geni sarebbe non solo una strategia messa in atto per adattarsi al variare delle condizioni ambientali o delle pressioni selettive, ma anche un vero e proprio motore di diversificazione evolutiva. La perdita di geni, infatti, libererebbe spazi per l’esplorazione di soluzioni innovative, che potrebbero avere, nel tempo, conseguenze evolutive imprevedibili – e tutt’altro che lineari – come, in questo caso, lo sviluppo di piani anatomici non più ancorati a un substrato ma in grado di nuotare liberamente nell’acqua – un’innovazione fondamentale nella storia della vita.
Come ha affermato il biologo Cristian Cañestro nel presentare questa ricerca, “Il modello evolutivo ‘less, but more’ ci consente di comprendere come, a volte, perdere qualcosa apra nuove possibilità per guadagni futuri, e come, quindi, le perdite siano necessarie per favorire l’origine evolutiva di nuovi adattamenti”. È una prospettiva che ci permette di guardare con occhi nuovi a un processo a lungo ritenuto secondario, non perché lo fosse davvero, ma perché, nell’osservarlo, non ci si aspettava che proprio da una riduzione della complessità – una semplificazione delle forme di vita, con tutto il carico valoriale che questo concetto porta con sé – potesse derivare, grazie all’imprevedibilità dei processi evolutivi, una nuova ondata di diversificazione. Se dovessimo disegnare con una linea continua il percorso evolutivo del corredo genetico di Oikopleura dioica, quella linea sarebbe un arzigogolo tutt’altro che lineare, che contraddirebbe tutte le nostre aspettative. Tutto questo apre uno spiraglio su quanto sia non lineare e imprevedibile – e, per questo, insostituibile e preziosa – l’evoluzione della vita.