

R
accontando di una città che si rinnova pur mantenendo dentro di sé il germe delle sue versioni precedenti, Italo Calvino descrive così Clarice, all’interno delle sue Città invisibili (1972):
farfalla suntuosa sgusciava dalla […] crisalide pezzente; la nuova abbondanza faceva traboccare la città di materiali edifici oggetti nuovi; […] Ogni nuova Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e morte.
Giocare con le città (raccontandole, riprogettandole o immaginandole dal nulla) non è un’attività di solo appannaggio della letteratura, ma anche dell’urbanistica e della sociologia. In queste discipline la metafora della città come organismo compare almeno da due secoli, con le prime avvisaglie che emergono già nella filosofia materialista di fine Ottocento quando, per analizzare la rapida industrializzazione e urbanizzazione della società, l’urbanistica inizia a prendere in prestito concetti della biologia e della fisiologia. Negli anni Sessanta questi concetti si consolidano nel termine metabolismo urbano, usato per la prima volta per descrivere il flusso di entrata e uscita di risorse naturali in una ipotetica città di un milione di abitanti. Col tempo, questo filone con tanti nomi, declinazioni e progetti ha incorporato anche elementi dell’ambientalismo, della cibernetica, dell’ingegneria gestionale.
La città quindi non esiste più come un’entità separata a livello concettuale dall’ambiente naturale, ma diventa un “antroma”, un bioma di origine antropica. È natura a sua volta: un luogo pulsante, attivo, che respira, mangia, espelle come se fosse cosa viva, in diretto contrasto con la concezione, ancora più antica, della città come un macchinario da far funzionare, fatto di parti meccaniche da riparare se si rompono. L’urbanistica organica cerca invece di vedere la città in maniera olistica: non si concentra su un singolo edificio o progetto urbano come se fossero ingranaggi sostituibili, ma li considera nell’insieme, come organi dello stesso corpo. Una città smart ma non in quanto iperconnessa e digitalizzata, bensì perché possiede quelle proprietà associate all’intelligenza animale: capacità di adattamento, flessibilità, risoluzione dei problemi per la propria sopravvivenza. Un luogo che quindi potrebbe, se così organizzato, essere in grado di affrontare problematiche epocali, come quella del cambiamento climatico, alla stregua delle altre creature viventi.
L’urbanistica organica concepisce la città in maniera olistica: non si concentra su un singolo edificio o progetto urbano come se fossero ingranaggi sostituibili, ma li considera nell’insieme, come organi dello stesso corpo.
La metodologia REAP (Rotterdam Energy Approach and Planning) in corso di sperimentazione in alcune aree della città olandese, ad esempio, è incentrata proprio sulla ridistribuzione dei flussi di energia e calore, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza della città di Rotterdam dai combustibili fossili e raggiungere la carbon neutrality. Iniziative come CityLoops, finanziate dall’Unione Europea, mirano invece a ridurre lo spreco di materiali di costruzione e demolizione e di scarti alimentari rimettendoli in circolo, a disposizione di altri progetti.
Logico, ma fin qui nemmeno troppo diverso dal concetto di economia circolare, che porta con sé i propri limiti, anche semantici. L’economia circolare sottintende un ritorno di investimento, una rimessa in circolazione delle risorse garantendo un guadagno per le aziende coinvolte. L’efficienza di un sistema è misurata in milioni di euro, che non sono sinonimi di tonnellate di CO2 e nemmeno di salute ambientale o benessere collettivo. Anche se molti progetti di urbanistica organica non sono incompatibili con un’economia circolare, in quest’ultima la logica aziendale ed estrattiva permangono, e continuano a fare a pugni con la termodinamica. A un certo punto il reinvestimento non è più economicamente produttivo, sopravvengono i diminishing returns (rendimenti decrescenti).
Per le città, come per gli organismi viventi, un’iperspecializzazione potrebbe rivelarsi rischiosa, poiché lascia il fianco scoperto a catastrofi inaspettate.
Alcuni ricercatori si sono anche spinti a calcolare il metabolismo di una città. Uno studio ha registrato e analizzato il pattern metabolico (quante risorse entrano, quanta energia si genera, quanti scarti vengono prodotti) delle quattro principali città della Danimarca. Ne è emerso che, rispetto ad altre metropoli di grandezza paragonabile, le città danesi hanno un profilo metabolico più basso, che sono riuscite ulteriormente a ridurre negli ultimi anni. Studiare le città come se fossero un organismo potrebbe quindi aiutarci a comprenderle meglio, a concepire e architettare nuove modalità di funzionamento.
Non è difficile capire come l’urbanismo organico riesca a catturare l’immaginazione, in particolare quella di ambientalisti ed ecologisti. Ma una domanda sorge spontanea: che tipo di organismo è, una città? Se ha un profilo metabolico, a quale creatura, nel regno dei viventi, assomiglia di più? Proviamo a ipotizzare. Le città consumano tanta energia e generano molti scarti rispetto alla loro massa: un profilo metabolico tipico di un piccolo animale molto mobile e attivo, come un roditore o un colibrì. Ma le città, oltre ad avere una massa enorme, sono anche sessili, assomigliando in questo molto di più a una massa fungina o algale di enorme estensione, tipo un micelio sotterraneo che abbraccia un’intera foresta. Se sono industrializzate producono anche molta energia, ma non fissano la CO2 come gli organismi fotosintetici, e quindi non possono neanche essere paragonate a loro. Non riconvertono gli scarti in materia fertile come fanno i funghi, semmai ne producono di ulteriori. Forse assomigliano a un qualche tipo di corallo, o una colonia batterica (viste dall’alto, sembrano crescere proprio come loro) ma i batteri consumano il substrato sul quale si trovano, mentre le città moderne e globalizzate hanno la capacità di trarre risorse per il loro sostentamento dall’altra parte del pianeta.
E noi esseri umani che la abitiamo che cosa siamo, in questa similitudine? Organismi separati, come simbionti che abitano il suo corpo colossale? Anche noi una colonia batterica? Oppure un parassita che ne infesta le membra e che ne detta le decisioni, una sorta di fungo Cordyceps su scala metropolitana? Siamo i suoi neuroni?
Se la città davvero è viva, allora è una qualche forma di vita ancora poco conosciuta, un nuovo phylum tutto da scoprire e catalogare.
Forse è il caso invece di capire davvero se l’approccio organico all’urbanistica sia sufficiente a farla funzionare meglio. Un organismo è fatto di sistemi e tessuti ben organizzati che rispondono a un imperativo: la sua stessa sopravvivenza. I tessuti di un organismo funzionale, tranne nel caso di un cancro, non sono in competizione tra loro. Possiamo dire che funzioni così nelle città di oggi? Se le diverse comunità, quartieri, edifici, istituzioni e aziende sono le cellule di una stessa creatura, la loro attività è davvero corale e organizzata? Definirle come tali non è sufficiente affinché una collaborazione volta alla sopravvivenza collettiva abbia effettivamente luogo.
E le altre città? Finora abbiamo sorvolato sulla questione, ma si tratta di una domanda fondamentale. Se le città sono organismi, vuol dire che esiste anche un loro ecosistema: come vivono i membri di questo ecosistema? Come unità di una sola colonia globale, oppure in aspra competizione tra loro per le risorse? Esiste una catena alimentare con città produttrici e città consumatrici?
Ridisegnare una città come Milano, in modo che sia più sostenibile, più vivibile, meno inquinata è di sicuro un vantaggio per gli abitanti di Milano ‒ ma per tutti gli altri? Non è ancora del tutto chiaro se l’efficienza metabolica di una singola città si traduca in un miglioramento delle condizioni anche per le città limitrofe o distanti. Da dove ha preso l’energia, dove finiscono i suoi rifiuti? In un paradigma gestionale ed economico di tipo estrattivo, chi paga davvero la bolletta dei lavori di rinnovo che rendono una metropoli più green? Il rischio è che un approccio incompleto all’urbanistica organica si trasformi in una ennesima rivisitazione del greenwashing, con una città che si dichiara sostenibile perché riuscita a raggiungere la tanto agognata neutralità metabolica al suo interno, a scapito dell’esterno. Un po’ come nel caso dell’Europa, che ha “ridotto le sue emissioni” negli ultimi anni, perché ne ha esternalizzato gli effetti sul Sud globale tramite il meccanismo del mercato della CO2.
Il rischio è che un approccio incompleto all’urbanistica organica si trasformi in un’operazione di greenwashing, con una città che si dichiara sostenibile perché ha raggiunto una neutralità metabolica esternalizzandone i costi.
Per limiti tecnici, assenza di informazioni, e per evitare di confrontarsi con una complessità di diversi ordini di grandezza maggiore, finora il metabolismo urbano si è limitato a considerare la città come sistema chiuso, affrontando questioni energetiche e ambientali a livello locale. Ma una città chiusa non può essere davvero considerata un organismo, perché gli organismi non vivono in isolamento.
Se si riuscirà a comprendere appieno la complessità ecosistemica delle città ‒ ed è una faccenda di una complessità enorme ‒ si potrà forse riuscire a sviluppare un piano metabolico urbano su scala nazionale, se non addirittura globale. Con relative misure di urbanistica da applicare sulla singola città a seconda delle circostanze locali, tenendo in considerazione le aspettative di impatto su quella città e su tutte le altre. Un’impresa titanica che richiede una quantità spropositata di dati, modelli accurati, e soprattutto una decisa volontà politica. Che sia fatta in maniera centralizzata o distribuita, l’urbanistica organica richiede una pianificazione volta alla cooperazione, ed entrambe queste parole sono lo spauracchio di più di una fazione politica.
Finora il metabolismo urbano si è limitato a considerare la città come sistema chiuso. Ma una città chiusa non può essere davvero considerata un organismo, perché gli organismi non vivono in isolamento.
Sempre nelle Città invisibili, Calvino descrive Leonia, un’altra città ossessionata dal rinnovare di continuo sé stessa, e che in questa impresa finisce per accumulare attorno a sé tonnellate di spazzatura, un confine di rifiuti che la circonda come una instabile catena montuosa che rischia di franare da un momento all’altro. E peggio di una Leonia c’è solo un mondo fatto da tante città come questa, in competizione tra loro.
Forse il mondo intero […] è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.