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uello della divulgazione scientifica è un mestiere assai complicato. Riuscire a solleticare l’interesse su temi spesso difficili, percepiti come troppo distanti dalla vita comune e poco appetibili per il mondo dell’informazione, richiede capacità, metodo, dedizione, creatività e savoir-faire. Come ha scritto Piero Angela nel saggio Le vie della divulgazione scientifica, occorre anzitutto saper “tradurre”: non da una lingua all’altra, ma da un linguaggio – quello tecnico, specialistico, accademico – a un altro, non più arcano e potenzialmente accessibile a chiunque. “Non basta essere chiari”, metteva però in guardia il decano della divulgazione scientifica italiana, “bisogna riuscire a coinvolgere l’emotività”.
Farlo oggi, in una società nella quale il rumore di fondo ha raggiunto un livello sconcertante e la soglia dell’attenzione è sempre più bassa, è una sfida che in pochi riescono a vincere. C’è chi però ce la fa eccome, anche in campi fino a poco tempo fa considerati di scarso interesse come la botanica, la zoologia, la micologia o le scienze del suolo. Alcuni casi letterari internazionali di nature writing, ma anche programmi televisivi, canali YouTube, podcast e pagine social, hanno dimostrato che la divulgazione scientifica, specialmente nell’ambito ecologico-naturale, è quanto mai viva e vegeta, gode di un ampio pubblico e può essere praticata con grandi margini di successo. Eppure, non sono rari i casi di forti critiche mosse da parte del mondo tecnico-scientifico stesso nei confronti di divulgatori e divulgatrici che sono riusciti a “bucare la bolla” dei circoli specialistici arrivando a un pubblico invidiabilmente vasto.
Nelle scuole di comunicazione della scienza si insegna come, per “coinvolgere l’emotività”, occorra andare dritti al punto, utilizzare storie e metafore, aneddoti anche personali e narrazioni ricche di fascino, attraverso uno stile non sempre in linea con il freddo rigore, contenutistico e terminologico, tipico dell’accademia. Al tempo stesso è però rischioso, per non dire deontologicamente scorretto, su temi scientifici di grande peso per la vita delle persone e degli ecosistemi naturali, spingersi troppo in là e non saperlo riconoscere, come per altro ricorda lo stesso Angela nel suo saggio invitando i ricercatori-divulgatori a “farsi in quattro per dimostrare dove forse si è sbagliato”, poiché “ciò fa parte dell’agire scientifico” così come del suo racconto.
Al crescere della sua notorietà, Mancuso è stato più volte al centro di dibattiti nella comunità scientifica proprio per aver, secondo molti, ‘superato il limite’.
Dove si colloca allora il confine tra un racconto onesto della scienza e uno strumentale? Fino a che punto è possibile spingersi, con la narrazione e lo storytelling, nel racconto di ricerche, progetti e importanti questioni tecnico-scientifiche? Può essere utile analizzare il caso di uno scienziato e divulgatore tra i più popolari nel nostro Paese: Stefano Mancuso, docente di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Firenze, nonché saggista di tale successo che per lui è stato coniato il neologismo “botanicstar”. Al crescere della sua notorietà, Mancuso è stato più volte al centro di dibattiti nella comunità scientifica proprio per aver, secondo molti, “superato il limite”. I sodali di Mancuso hanno a loro volta replicato alle critiche mosse da ricercatori e botanici, bollandole come “fuoco amico” scagliato erroneamente contro chi “gioca nella stessa squadra” con finalità, in fondo, condivisibili. Il fine insomma, almeno secondo alcuni, giustificherebbe abbondantemente i mezzi.
Diciamolo subito per evitare equivoci: con la sua serrata attività divulgativa, Mancuso è riuscito senza dubbio a coinvolgere molti lettori nella riscoperta del mondo vegetale e dell’intelligenza delle piante, avvicinandoli al tema della crisi climatica, e questo è sicuramente un aspetto positivo e degno di encomio. Per farlo, però, ha forse dovuto pagare un prezzo, superando alcuni di quei limiti che, a detta della maggior parte della comunità scientifica, sarebbe preferibile non oltrepassare.
Piante migranti
La più recente presa di posizione della comunità scientifica rispetto a un’iniziativa di Mancuso risale a giugno di quest’anno, quando tre società scientifiche (Società Botanica Italiana, Società Italiana di Biogeografia e Società Italiana Scienza della Vegetazione), hanno fortemente criticato il progetto di un parco urbano realizzato a Prato: “Il Bosco delle Neofite”. Per “neofite” si intendono piante di altri ambienti introdotte accidentalmente o deliberatamente in Europa e in Italia dopo la scoperta delle Americhe e oggi in grado di riprodursi e persistere in natura senza l’aiuto degli esseri umani.
Talvolta le neofite sono considerate anche “aliene invasive”, in grado cioè di colonizzare rapidamente ambienti a loro estranei e formare popolazioni estese a danno della flora locale e della biodiversità. L’insieme di queste piante nel parco di Prato, secondo Mancuso che ne è stato l’ideatore, dovrebbe rappresentare un forte messaggio al tempo stesso ambientale e sociale: un invito all’accoglienza, all’apertura incondizionata al nuovo e al diverso. Come ha spiegato Mancuso stesso nel giorno dell’inaugurazione:
Prato è una città multietnica, e il parco vuole rappresentare proprio questo. Ci sono piante non autoctone ma che lo diventeranno nel tempo, così come i migranti di oggi saranno i cittadini italiani e pratesi di domani. Questo parco si chiama Bosco delle Neofite perché, contravvenendo alle norme che in genere impongono di riforestare usando solo specie locali, è costituito da piante che non sono originarie di questi luoghi ma che lo stanno diventando. La verità è che il concetto di autoctono di per sé è privo di senso, dal momento che il mondo, come lo conosciamo oggi, è frutto di continui cambiamenti, innesti e migrazioni.
Più che il progetto in sé, è stata l’esaltazione acritica delle specie aliene e soprattutto il parallelismo tra alberi ed esseri umani – sempre molto presente nella narrazione di Mancuso – a sollevare le proteste degli scienziati. “Le argomentazioni con cui è stato presentato il progetto lasciano molto perplessi, perché semplificano e banalizzano problemi importanti e tra loro ben distinti”, si legge nel comunicato congiunto delle tre società scientifiche. “Esistono specifiche politiche nazionali ed europee di gestione e contrasto a tali specie, qualora diventino invasive, per i danni che potrebbero arrecare alla biodiversità originaria”, hanno sottolineato i botanici, stigmatizzando in particolare il paragone con i migranti: “diventa pericoloso proporre analogie tra i migranti della nostra specie e le specie aliene. Questioni complesse come l’immigrazione e questioni scientifiche come la gestione delle specie aliene devono essere trattate con il dovuto rispetto degli ambiti che le caratterizzano”.
Secondo Mancuso, l’insieme di queste piante nel Bosco delle neofite di Prato dovrebbe rappresentare un forte messaggio al tempo stesso ambientale e sociale.
Mancuso non è certo nuovo nel celebrare le specie neofite, anche quando aliene invasive. L’ha fatto ad esempio nel libro L’incredibile viaggio delle piante (2018), dove si legge: “mi piacerebbe che questo concetto fosse chiaro: le specie che oggi consideriamo invasive sono le native di domani. Avere sempre presente questa regola impedirebbe tante delle stupidaggini intese a limitarne l’espansione”. A muovere una critica interessante a questo punto di vista è stato Tommaso La Mantia, docente di ecologia forestale all’Università di Palermo, nel saggio Uomini, altri animali, piante, razze e invasioni aliene: per un nuovo modello di sviluppo (2020). La Mantia giudica negativamente l’entusiasmo e la leggerezza con cui Mancuso parla di specie aliene nei suoi libri e nei suoi interventi pubblici, citando in particolare il caso del penniseto allungato (Pennisetum setaceum, una graminacea) e dell’ailanto (una specie arborea)
Entrambe le specie, spiega La Mantia, stanno provocando grandi problemi ai nostri habitat originari, mentre Mancuso ne tesse allegramente le lodi, addirittura irridendo chi cerca di limitarne la diffusione: “una specie siciliana – Senecio squalidus – conquista la Gran Bretagna, una specie eritrea – Pennisetum setaceum – conquista la Sicilia. Vera globalizzazione”. O ancora, nel libro Botanica. Viaggio nell’universo vegetale (2017): “a me l’ailanto piace. Ne ammiro l’abilità, la sua sovrana indifferenza verso tutti gli invasati che cercano di sterminarlo”. La Mantia riconosce la presenza storica delle specie d’importazione negli ecosistemi locali e la loro importanza, ma è di tutt’altro avviso, proponendo una visione più ampia e complessa: “l’uomo ha favorito gli scambi degli uomini e degli altri organismi. Non è giusto pensare a una Sicilia senza agrumi (derivanti dal sud est asiatico), senza galline (dalle giungle asiatiche), senza pomodoro (dall’America), senza nespolo del Giappone (dalla Cina) eccetera, ma è giusto pensare a una Sicilia che difende la sua biodiversità selvatica, frutto di migliaia di anni di isolamento e selezione, da specie che la azzererebbero, come sta succedendo con il Pennisetum”.
Mancuso non è certo nuovo nel celebrare le specie neofite, anche quando aliene invasive.
La riflessione critica di La Mantia evidenzia un punto chiave che può aiutarci nell’individuare una prima coordinata di confine per una divulgazione scientifica onesta e condivisibile: la necessità di proporre e argomentare un pensiero complesso. Lo fa con un esempio calzante, che evidenzia un chiaro limite nella narrazione di Mancuso: “insegno ai miei studenti che l’albero migliore per produrre legno in Sicilia è l’eucalipto (una specie aliena, ndA), di cui conosco la fantastica storia ma anche, in certi contesti, la pericolosa invasività. Sono un coacervo di contraddizioni? No, non sono contraddizioni. Ho solo un modo articolato di pensare e agire di fronte a una realtà complessa”.
Un modo di pensare e di agire che, al contrario, nella vicenda del “Bosco delle Neofite” è stato semplificato all’estremo. Non cogliendo l’occasione per mettere in guardia sui potenziali rischi di alcune specie aliene, è stato superato un primo confine, quello della mancata complessità, arrivando a banalizzare una questione enormemente articolata e ricca di sfaccettature. Ma paragonando le neofite ai migranti ne è stato superato un secondo: quello dell’umanizzazione forzata della natura, in cui si possono nascondere potenti suggestioni, al pari però di evidenti rischi. Per evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni sarebbe stato più utile parlare di alberi in generale: della loro storia di spostamenti mediati da noi umani che talvolta ha rappresentato una straordinaria opportunità, altre volte un grave problema.
Mille miliardi di alberi
Un altro tema caro a Mancuso, che ha scatenato numerose proteste nella comunità scientifica, è la proposta di piantare urgentemente “mille miliardi di alberi” come una delle soluzioni chiave per far fronte alla crisi climatica attraverso la cattura e lo stoccaggio della CO2. “I modelli ci dicono che se noi piantassimo mille miliardi di alberi risolveremmo il problema dell’anidride carbonica, vedremmo finalmente scendere la curva”, ha spiegato Mancuso in varie uscite pubbliche degli scorsi anni, per poi correggere leggermente il messaggio più di recente: “quello che otterremmo non è la risoluzione completa del problema, ma 60-70 anni di margine per occuparcene”. La proposta non nasce dalle ricerche condotte da Mancuso in persona, ma da un noto studio del 2019, intitolato “The global tree restoration potential”, che è stato molto criticato dalla comunità scientifica e poi ridimensionato, con un significativo mea culpa da parte degli stessi autori. Nonostante questo, Mancuso ha dedicato e dedica tuttora tante energie divulgative a questa proposta.
Lo scetticismo degli esperti verso l’ipotesi di piantare mille miliardi di alberi è molto più semplice da spiegare rispetto al caso delle piante neofite: banalmente, come hanno dichiarato numerosi esperti, la proposta è impossibile da realizzare. “Alcuni ricercatori, come Stefano Mancuso, suggeriscono che piantare mille miliardi di alberi potrebbe permetterci di guadagnare 60 anni nella lotta al riscaldamento globale, una finestra fondamentale per convertire il nostro modo di vivere”, spiega Giorgio Vacchiano, docente di selvicoltura dell’Università di Milano, in un articolo pubblicato su Climalteranti. “Anziché dedicarci alla faticosa attività di rapida e drastica decarbonizzazione del sistema energetico (ricordata dallo stesso Mancuso in altre interviste, purtroppo meno citate dai media), rischiamo di restare affascinati dalla visione salvifica di tantissimi alberi che ci permetterebbero di prendere tempo o addirittura di fare per noi tutto il lavoro necessario. Questa tesi, pur dettata dall’amore per le piante e per la natura, non ha basi nella letteratura scientifica, ed è facilmente confutabile”.
Nello stesso articolo viene spiegato come studi recenti abbiano stimato un potenziale di assorbimento, da parte di un vasto e fattibile programma di rimboschimento globale, tra il 2% e l’8% delle emissioni annue dovute all’uso di combustibili fossili. Lo stesso ordine di grandezza è riportato dalla sintesi dell’ultimo rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change. Si tratta di una percentuale modesta, ma chiaramente molto più esigua rispetto a ciò che la narrazione di Mancuso tende a trasmettere.
Nonostante le critiche di altri esperti, Mancuso ha dedicato e dedica tuttora alla proposta di piantare ‘mille miliardi di alberi’ tante energie divulgative.
Ad entrare nel merito della questione è stato Paolo Mori, direttore della rivista specialistica Sherwood: “per piantare mille miliardi di alberi capaci di fotosintetizzare al meglio delle loro potenzialità, quindi circa 85-90 piante ad ettaro, servirebbe indicativamente una superficie pari al 70% delle terre emerse. Ipotizzando invece di piantare 1.000 piante ad ettaro – di cui gran parte però destinate ad una morte precoce a causa della competizione – servirebbe comunque una superficie libera e fertile pari a quella del Canada”. Una superficie al momento indisponibile nel mondo, anche per i conflitti che un simile uso del suolo potrebbe generare, ad esempio, con la produzione di cibo.
Come ha spiegato lo stesso Mori, occorrerebbe per altro avanzare a un ritmo di piantagione impressionante, pari a circa 305 milioni di alberi al giorno, sette giorni su sette, per vedere l’opera completata entro un decennio. Servirebbero decine di migliaia di vivai oggi inesistenti e una quantità d’acqua enorme, la cui disponibilità sarà sempre più messa in crisi dal cambiamento climatico stesso. Inoltre, gli alberi piantati non rappresenterebbero comunque delle “casseforti di CO2” come sembra promettere la proposta di Mancuso e sodali: essendo gli alberi organismi viventi potrebbero seccarsi, ammalarsi o incendiarsi, restituendo all’atmosfera il carbonio assorbito.
Anche Mori, come La Mantia, ha spesso sottolineato la tendenza alla semplificazione che permea la narrazione di Mancuso: “la realtà è complessa e richiede soluzioni complesse. Le scorciatoie, se non si conosce bene il territorio, spesso non conducono alla meta, ma possono farci perdere la strada”. Ecco allora altre tre coordinate utili a stabilire i confini della divulgazione scientifica: non divulgare falsità pur di trasmettere un messaggio ad effetto (o quantomeno non propagandare come certi dei dati che contengono un ampio margine di errore o che sono fortemente contestati dalla comunità scientifica); non omettere gli ostacoli rilevanti di una proposta, quelli cioè che oggettivamente, nella realtà, hanno un’alta probabilità di influire negativamente su ciò che si sta suggerendo; e poi non rischiare, attraverso messaggi fuorvianti, di far “perdere la strada” ai singoli, ai decisori politici e alla società nel suo complesso. Su quest’ultimo tema è utile ricordare come la proposta di Mancuso sia stata accolta positivamente da politici, partiti e addirittura dai membri del G20, che l’hanno fatta propria, nel 2021, come un impegno ufficiale di cui però si è già persa traccia.
Gli alberi piantati non rappresenterebbero comunque delle ‘casseforti di CO2’, come invece sembra promettere la proposta di Mancuso e sodali.
I due casi citati – il Bosco delle Neofite e la proposta di piantare mille miliardi di alberi – mostrano quanto possa essere sfumato e labile il confine tra una divulgazione scientifica onesta e un’altra che, al contrario, finisce per essere tendenziosa. Sono molti i modi in cui gli scienziati rischiano di sconfinare dall’una all’altra, a cominciare dall’umanizzazione forzata della natura, evidentemente efficace ma al tempo stesso rischiosa. Ma anche l’occultamento della complessità dei fenomeni per rendere un messaggio più semplice e accattivante, la divulgazione di dati non corretti e la promozione di soluzioni non realizzabili pur di far colpo sull’opinione pubblica, l’omissione degli ostacoli oggettivi di una proposta per renderla più credibile, la diffusione di messaggi fuorvianti, potenzialmente in grado di confondere il pubblico e portare quindi a scelte e investimenti – personali e collettivi – non adeguati o addirittura peggiorativi.
Se uno o più di questi confini viene superato, il fine della divulgazione – per quanto condivisibile – non può giustificare i mezzi, perché i danni culturali e materiali potrebbero rivelarsi ben maggiori dei benefici. “Una nobile emotività può essere suscitata rivolgendosi a una qualità che tutti gli esseri umani posseggono, sia pure in misura diversa: la curiosità, il desiderio di conoscere, il piacere di scoprire”, scriveva Piero Angela nel suo saggio. Per fare questo non serve per forza banalizzare, umanizzare, edulcorare, ingannare o confondere. Al contrario, nel racconto della scienza si tratta proprio di riuscire a far emergere tutto il fascino della complessità. È proprio in questo spazio che dovrebbe collocarsi il confine della divulgazione scientifica: tradurre con emozionalità temi fondamentali per le nostre vite, stimolare la curiosità e il piacere della scoperta, ma senza eludere la complessità, elemento fondamentale per comprendere appieno ogni fenomeno, affinché si possa essere tutti più consapevoli delle proprie azioni e di quelle collettive.
“Nel mondo moderno, dove l’attenzione verso l’ambiente e la sostenibilità è diventata una priorità, la narrativa ambientale ha spesso assunto il ruolo di un catalizzatore per la sensibilizzazione e l’azione”, spiega Francesco Ferrini in un articolo pubblicato dall’Accademia dei Georgofili dedicato proprio alla proposta di piantare alberi per amore del pianeta. Ferrini, come Mancuso, è ordinario di Arboricoltura e Coltivazioni Arboree all’Università di Firenze ed è anch’egli impegnato nella divulgazione scientifica, anche se in modo decisamente più cauto e attento a non superare i confini individuati in questo articolo. “La narrativa attorno a questo tema è ricca di entusiasmo e speranza”, sottolinea Ferrini, “ma la realtà pratica spesso svela una serie di sfide e ostacoli che possono rendere difficile tradurre gli ideali in azioni concrete. […] Mentre i profeti della piantagione continuano a incantare le masse con la loro visione romantica di foreste urbane rigogliose, noi dobbiamo guardare la realtà in faccia. […] Dobbiamo concentrarci su soluzioni realistiche e sostenibili, che affrontino la crisi ambientale nella sua complessità e tenendo conto delle limitazioni reali che ci impone il mondo in cui viviamo”.