

L’ Organizzazione mondiale della sanità definisce il concetto di salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplicemente assenza di malattia o infermità”. Una definizione che inizia a risultare problematica, in un mondo in cui i concetti di benessere e salute sono sempre meno sovrapponibili. Se nell’immaginario collettivo, infatti, per “salute” si indica l’assenza di una malattia con terminologia e nosografia specifici, il termine “benessere” si configura invece come una condizione dai contorni meno definibili, che apre alla prospettiva di un miglioramento illimitato e suggerisce l’idea, come ha scritto Marcia Angell nel saggio The truth about the drug companies (2005), che esistano “due soli tipi di persone: quelle che soffrono di patologie che richiedono una cura farmacologica e quelle che ancora non sono consapevoli di soffrirne”.
Tutto ciò sta comportando un allargamento del ventaglio dei possibili fastidi da riclassificare come malattie e, dunque, anche dei corrispettivi rimedi. A cornice di una società sempre più medicalizzata, che mette a disposizione di un crescente numero di persone farmaci per ogni esigenza, più che una promessa di cura, questi rimedi finiscono per tradursi nel disincanto di un miglioramento a tempo per malesseri sempre nuovi e che richiedono nuove cure. Come scrivono Aldo Bonomi ed Eugenio Borgna in Elogio della depressione (2015), “è difficile non sentirsi cronicamente in stato di malattia a bassa intensità e spinti alla continua ricerca di dispositivi per la riduzione dell’incertezza dal rischio di inadeguatezza del proprio stato di salute”.
Il rischio più immediato, come vedremo, è quello di cadere in un eccesso di prescrizione, con alcune fasce di popolazione più esposte di altre. Non è un caso che l’aumento di prescrizioni di medicinali negli ultimi anni riguardi soprattutto patologie psicosociali, spesso cadenzate da tappe fisiologiche dell’esistenza umana. Si tratta del cosiddetto disease mongering (traducibile in italiano come “mercificazione della malattia”), ossia la tendenza a trattare ciò che non è nosograficamente riconosciuto come patologico (calvizie, menopausa, adolescenza, gravidanza ecc.) come se in realtà lo fosse.
L’aumento di prescrizioni di medicinali negli ultimi anni riguarda soprattutto patologie psicosociali, con una chiara tendenza a trattare ciò che non è riconosciuto come patologico come se in realtà lo fosse
Psicofarmaci per il male di vivere
Si definiscono “psicofarmaci” quei medicinali che agiscono sulla regolazione dei neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale, ovvero sulla modulazione dei segnali chimici con cui i neuroni comunicano tra di loro, inducendo cambiamenti a livello di umore, pensiero e comportamento. Le benzodiazepine, gli antidepressivi e gli antipsicotici risultano tra i più prescritti, questo nonostante dal 2008 a oggi la prevalenza di sintomi depressivi in Italia si sia in realtà ridotta. Un discorso diverso vale però per le donne e i giovani di età compresa fra i 18 e i 34 anni, in questo caso il trend negli ultimi anni è addirittura in aumento.
In Italia 1 giovane su 5 conferma di aver fatto uso di psicofarmaci. Tra le femmine l’incidenza è doppia, e se si osservano i consumi di benzodiazepine e anoressizzanti, diventa addirittura tripla.
“Sono, queste ultime, le depressioni che oggi dilagano sulla scia di molteplici cause psicologiche e sociali, e che si costituiscono come forme di sofferenza psichica che fanno parte della normalità, e, quando ne escono, non se ne allontanano nella loro fenomenologia”, scrivono Bonomi e Borgna: “La depressione-malattia è qualitativamente diversa dalle depressioni esistenziali e motivate, e nondimeno in queste e in quella riemergono comuni sorgenti di sensibilità e di fragilità, di dignità umana e di gentilezza, che è necessario riconoscere e rispettare nei loro bagliori, e che meno facilmente si osservano nella nostra vita quotidiana: nella vita normale”. Il fatto che le depressioni reattive ed esistenziali vengano sempre più spesso trattate come depressioni patologiche non è imputabile unicamente a errori di valutazione professionali o a un trend sociale figlio dei tempi, c’è anche in gioco una strategia commerciale a lungo termine.
Si potrebbe sempre stare meglio
Il sociologo polacco Zygmunt Bauman nel suo libro Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (2012; ed. or. 2010) ricorda quanto dichiarato dal direttore di produzione Barry Brand a proposito della paroxetina: “il sogno di ogni operatore di marketing è quello di trovare un mercato non ancora identificato o conosciuto, e di svilupparlo. Con il disturbo da ansia sociale siamo riusciti a fare esattamente questo”. La società odierna sta osservando una crescente precarizzazione della vita privata e pubblica, in particolare delle fasce di popolazione più vulnerabili come anziani, donne e giovani: affrontare questa condizione richiederebbe un’attenzione e una formazione socio-psico-culturale più articolata e strategie di intervento più complesse della semplice prescrizione di un farmaco.
Il fatto che le depressioni reattive ed esistenziali vengano sempre più spesso trattate come depressioni patologiche non è imputabile unicamente a errori di valutazione professionali, c’è anche in gioco una strategia commerciale.
Tra i consumatori che versano in condizioni di discreta salute ma sono comunque sospinti verso un’amplificazione del benessere, infatti, gli psicofarmaci che fanno registrare fenomeni di abuso più significativi sono le benzodiazepine. Ma c’è una tipologia di consumatori che risulta particolarmente esposta, a prescindere dall’età, ed è quella femminile. Basti pensare che in Italia, stando agli ultimi dati OsMed, il 67% delle donne ha ricevuto almeno una prescrizione contro il 58% degli uomini.
Il target femminile
La storia della pubblicità ci mostra che è almeno dagli anni Quaranta che le donne sono considerate target market e testimonial d’elezione per medicinali soggetti a prescrizione e psicofarmaci.
I dati mostrano che alle donne vengono diagnosticati più spesso disturbi e prescritti più facilmente farmaci, il che è indice lampante di una eccessiva medicalizzazione della salute mentale femminile.
I dati odierni ci dicono che alle donne, in Italia come altrove, vengono diagnosticati più spesso disturbi e prescritti più facilmente farmaci, e diversi studi dimostrano che questo scarto è un chiaro indice di una eccessiva medicalizzazione della salute mentale femminile. Rimane però il fatto che ancora si investe poco in strategie gender oriented, e rimane scarsa l’offerta di cura in alternativa allo psicofarmaco per contrastare disagi strettamente legati alla specifica fisiologia ed emotività femminile. Il benessere può essere mercificato molto più facilmente della salute, non stupisce dunque che questa venga messa in secondo piano; nelle donne, come nei giovani.
I giovani sono bersagli facili
Abbiamo visto come in Italia il mercato dei farmaci per la cura della depressione e per la stabilizzazione dell’umore sia in crescita soprattutto nelle fasce più giovani (25-34 anni). Non è un caso, probabilmente, che si tratti anche della fascia demografica che trascorre più tempo on-line. Nel processo di trasformazione del concetto di salute in un benessere perfezionabile all’infinito, l’accesso alla rete ha un ruolo sempre più determinante e, per contro, sempre meno riconoscibile. Secondo alcuni studi, la gestione di un sito, la sponsorizzazione, il finanziamento di attività, i forum di discussione, l’impatto del messaggio di un influencer sono solo alcune modalità utilizzate a sostegno della medicalizzazione e dell’e-pharmacy, che in alcuni casi comporta anche pericolose forme di normalizzazione (è il caso di anoressia e bulimia).
Per Bauman, questo processo di medicalizzazione non aiuta realisticamente a contenere ansia, irrequietezza e depressione. Cerchiamo di compensare la paura dell’insignificanza sociale, della fragilità delle relazioni, di non farcela di fronte alle prove della vita, di essere considerati vite di scarto, con la quantità delle connessioni che la rete ci consente di tracciare. Paradossalmente, per il sociologo polacco, condividiamo una condizione di vulnerabilità reciprocamente assicurata.
Nel processo di trasformazione del concetto di salute in un benessere perfezionabile all’infinito, l’accesso alla rete ha un ruolo sempre più determinante.
Non c’è il tempo per l’ascolto del dolore. Che sia fisico o esistenziale, va estirpato e alla svelta. Poco importa quale sia realmente la sua origine e quanto continuerà ad agire nella vita della persona non essendo mai stato realmente visto, interpretato, razionalizzato, rielaborato. Ci penserà un farmaco a farlo tacere. Sul medio e lungo termine, però, lo scarto tra benessere e salute non potrà che manifestarsi, con conseguenze potenzialmente drammatiche. Come suggerisce Elsa Morante in La Storia: “i conforti chimici si comportano come certe lampadine elettriche in uso negli alberghi: le quali sono regolate per durare accese giusto il tempo di salire la scala dal pianterreno al piano di sopra. Ma succede a volte che si spengono a metà scala, e uno si trova là come un balordo, che annaspa allo scuro”.