C ome possiamo avere una relazione con gli altri animali? Questa domanda ci riguarda tutti, e fa da sfondo alla ricerca di chi oggi si interroga sulla mente animale, tra filosofia ed etologia. Molti studiosi hanno ragionato in questi anni su pregi e limiti dell’antropomorfismo, di mente animale e diritti animali, e di come queste riflessioni possono condizionare i nostri incontri e il nostro rapporto con cani, polpi, maiali, falchi, gorilla, esseri in cui ritroviamo un familiare altro da noi, talvolta consolante, talvolta inquietante, che ci meraviglia e ci coinvolge.
Ho esplorato questi temi nel podcast L’altro animale, prodotto dal Festivaletteratura Mantova 2022, in compagnia di diversi esperti: la primatologa Veronica Vecellio del Diane Fossey Gorilla Fund, Simone Pollo, professore di Filosofia Morale all’Università La Sapienza di Roma, Vinciane Despret, filosofa e psicologa dell’università di Liegi. Il primo incontro del podcast è stato con Dale Jamieson, professore di Environmental Studies e direttore del “Center for Environmental and Animal Protection” della New York University, con cui ho parlato dell’amore che possiamo provare per gli altri animali, e il nesso tra questo sentimento e l’impegno a comprendere la loro mente e il loro punto di vista sul mondo. Quello che segue è un estratto della nostra conversazione.
Paolo Pecere: Cosa pensano gli animali? È una domanda antica, associata all’esigenza di definire che cosa siamo noi umani. La conoscenza e l’immaginazione del pensiero animale, infatti, ha sempre implicato, per contrasto, una definizione di noi stessi in quanto esseri umani. I filosofi greci chiamavano gli animali non umani aloga, “privi di logos”, cioè di linguaggio e ragione. Per Aristotele questa mancanza di ragione era determinante per definire la differenza dagli uomini, in quanto animali razionali. Ma non tutti la pensavano così. Per Platone anche gli aloga, pur non essendo capaci di contemplare le idee nella loro universalità, di avere concetti, sono capaci di credenza (doxa) e di immaginazione, insomma hanno una certa razionalità: infatti, per giudicare che un certo oggetto ha certe proprietà, anche gli animali senza linguaggio ragionano, fanno un discorso interiore.
Dopo Darwin, è impossibile giustificare l’idea di una cesura netta tra diverse specie: “siamo tutti legati in una rete”, scriveva Darwin. Tuttavia, nella nostra cultura, dominano due opposte cancellazioni della differenza animale. Da una parte c’è una reificazione degli animali, considerati come mezzi, o merce, che è tipica dell’allevamento intensivo. Nei filmati che mostrano il massacro di massa nei mattatoi e allevamenti di pollame, ciò che sconvolge non è soltanto il dolore dell’animale impotente, ma la massificazione e serializzazione industriale, per cui la morte avviene in una filiera meccanizzata, è momento della lavorazione di un materiale. Quel dolore, quelle sensazioni, sono negati.
L’amore comporta anche la comprensione, perché la comprensione, l’intimità e l’empatia sono legate tra loro.
Anche nella scienza il pensiero animale, il fatto stesso che gli animali pensino, è stato spesso messo in dubbio. Gli scienziati tendono a porre una domanda preliminare a quella sulla possibilità di conoscere il pensiero animale: gli animali pensano? E quali animali pensano? La mente non va identificata con la mente umana dotata di una certa forma di razionalità, e oggi prevale un riconoscimento delle capacità mentali degli altri animali, di cui però bisogna distinguere con cura le diverse forme. Al polo opposto di questo atteggiamento di negazione o messa in dubbio, c’è un’altra più sottile rimozione della differenza delle menti animali, che stavolta si nasconde sotto l’intenzione dell’amore, ma pone il rischio di un simile svuotamento di senso. La cura dell’altro s’intreccia in questo caso a una smisurata proiezione di sé: l’importanza dell’animale che amiamo corrisponde al suo prendere saldamente posto in noi. Il rischio è di cancellarne la specificità, facendone un piccolo essere umano. Questo accade nell’immaginario dei cartoon Disney, in cui gli animali parlano e pensano come umani, e in certe forme di prossimità forzata, come il circo, le mostre zoologiche, e alcuni casi di domesticazione forzata di animali selvatici.
Chi studia gli animali ha il compito di comprendere le differenze per cui essi sono altri rispetto a noi. Un primo tema che mi interessa affrontare riguarda il contrasto tra il senso comune e la scienza. Un’importante messa in dubbio della capacità di pensare degli animali si trova infatti agli albori della nostra scienza della natura, in Cartesio. La concezione meccanicistica della natura, secondo cui i corpi sarebbero composti di parti di materia estesa e inanimata, che è stata fondamentale per stabilire la fisica moderna, portava Cartesio a sostenere che gli animali fossero macchine, automi molto complessi, progettati da Dio, privi di mente. Subito scienziati e filosofi ripresero la questione, tornando a demarcare la differenza umana in vari modi, per esempio in base al linguaggio, alla coscienza, alla conformazione corporea. Con queste discussioni si è radicato un atteggiamento secondo cui l’esistenza di una mente animale dev’essere giustificata. Mentre il comportamento è osservabile, la mente sarebbe qualcosa che va ipotizzata, inferita, non è immediatamente evidente, e dunque la sua stessa esistenza andrebbe lasciata in sospeso sul piano della ricerca scientifica.
La filosofia della mente e l’etologia, nel Ventesimo secolo, hanno conservato simili riserve. Tu, Dale, sei tra gli studiosi che hanno criticato più duramente questa messa in dubbio della mente animale nella scienza, proponendo di tornare a un’evidenza che in fondo si trova ordinariamente nel nostro rapporto con gli animali. Fin dagli anni Ottanta, ti sei interrogato sulla singolare contrapposizione di senso comune e etologia. Di solito non dubitiamo che gli animali abbiano stati mentali, ma c’è stata a lungo una prospettiva nota come comportamentismo, secondo cui l’unico dato oggettivo e indubitabile sono i comportamenti degli animali, mentre non sappiamo se e cosa pensino.
Un esempio interessante che hai ricordato in uno dei tuoi articoli sull’argomento è proprio Cartesio, che aveva un cane, Monsieur Grat. Tu hai scritto che Cartesio, nell’interazione quotidiana col suo animale, difficilmente si faceva condizionare dalla sua concezione filosofica, per cui a rigore quell’animale sarebbe stato una macchina. Probabilmente lo trattava invece come un essere pensante, cercava di leggere le sue intenzioni e di comunicare con lui. Ecco, tu proponi di ritornare in qualche modo al nostro comportamento ordinario: quando il cane gratta la porta o un gatto miagola e noi siamo senz’altro portati ad attribuire all’animale un pensiero. Ripartendo da qui, dobbiamo cercare di ricavarne una concezione filosofica e scientifica.
Dale Jamieson: Cercare di capire il rapporto tra il mondo della scienza e il mondo della vita quotidiana è un problema generale, non solo relativo alla questione della mente animale e del nostro rapporto con gli animali. Da un lato, la scienza mi dice che il tavolo che ho davanti in realtà è una massa turbinante di atomi ed elettroni e così via, quindi priva di vera solidità e in costante movimento; dall’altro, io appoggerò un bicchiere d’acqua sul ripiano e sono convinto che non cadrà a terra. Quindi, anche quando si tratta di qualcosa di tanto semplice come la natura di oggetti fisici, si pone la questione di come conciliare le conoscenze scientifiche che abbiamo con il mondo della vita quotidiana e il modo in cui viviamo. A volte la scienza modifica e permea le pratiche della vita quotidiana ma in altri casi saremmo folli se tentassimo di vivere in accordo con le conoscenze attuali della teoria della relatività o della meccanica quantistica. Per esempio, Paolo, metti che io e te ci diamo appuntamento alle nove sotto l’orologio nella piazza della città, ma, dato che lo spazio e il tempo sono un continuum che dipende dal punto di vista di ciascuno… ecco, questo è un caso in cui saremmo folli a tenere conto dei dettagli scientifici.
Quindi si inserisce nella stessa questione anche il tentativo di capire sia la mente umana che quella di altri animali. La psicologia scientifica non applica, nello studio degli esseri umani, gli stessi concetti che valgono nelle interazioni della vita quotidiana. C’è tantissimo, nella nostra percezione di tutti i giorni del desiderio, del dolore, del piacere, che non corrisponde a quello che sostiene la scienza, ma questo non significa che non siano concetti utili nella nostra vita quotidiana e nei nostri rapporti interpersonali. Quello che sostengo, dunque, è che la stessa cosa vale anche per gli animali, e volendo riassumere il concetto potremmo dire che non dovremmo applicare uno standard diverso ad animali non umani, con cui abbiamo un’alta affinità biologica, rispetto a quello applicato a noi stessi. Per esempio, Cartesio può dire che Monsieur Grat vuole uscire tanto quanto lo può dire di un suo amico umano. Ora, può essere che nell’anno 3000 avremo dei modi diversi di capire noi stessi e i nostri stati mentali e questo forse ci darà anche la possibilità di rivedere il modo in cui capiamo quelli degli animali, ma nel mondo attuale è una sorta di schizofrenia, di dissociazione, di malafede morale, dire che il modo in cui ci relazioniamo a una specie, l’homo sapiens, e il tipo di attributi che diamo alla sua mente, sia radicalmente diverso e distante dal modo in cui dovremmo pensare ad altri animali. Direi che si tratta di un modo artefatto, antico, mitologico, quasi religioso di guardare al mondo.
PP: In diversi articoli hai messo in luce una difficoltà concettuale, che incontriamo dopo avere assunto che ci sia un pensiero animale, al momento in cui cerchiamo di descriverlo. Qui c’è una differenza di fatto con il caso degli umani, ai quali possiamo chiedere di esprimere con il linguaggio ciò che stanno pensando. Tu hai osservato che qui rischiamo di cadere vittime di un’illusione e di commettere un errore: pensare che il pensiero animale abbia una struttura proposizionale, come se, quando il cane sta pensando qualcosa, ci fosse una vignetta, e là dentro immaginassimo una frase che descriverebbe che cosa sta pensando il cane. Sostieni che questo è un modello sbagliato, che risulta fuorviante nel nostro tentativo di comprendere scientificamente i pensieri animali.
DJ: Comincerei spiegando il problema in maniera più dettagliata. Quindi, quando la mia cagnolina, Grete, per esempio, vede un osso e attraversa la stanza per trovarlo e rosicchiarlo, sembra naturale dire che l’ha visto e ha attraversato la stanza per rosicchiarlo, ma volendo ampliare il discorso ci si può chiedere se Grete pensa che l’osso sia una parte di una mucca, se pensa che sia una parte di un erbivoro, se pensa che sia un sottoprodotto di un macello. Prima di tutto siamo proiettati nell’incertezza, in un secondo momento capiamo che non lo sappiamo, perché sono concetti che appartengono al mondo degli umani, quindi siamo perplessi: la cagnolina ha davvero dei pensieri in assoluto? E se non ha pensieri, allora si limita a rosicchiare il suo osso. In realtà lo stesso dilemma ci si può presentare in relazione ad altri esseri umani, in particolare quelli che sono culturalmente lontani da noi. Per esempio, potrei dire così dei miei connazionali che sono convinti che Trump sia il presidente, e a questo punto analizziamo il sistema di convinzioni che hanno – sono convinti che Trump abbia vinto sulla base di un voto popolare, sono convinti che Trump sia stato eletto prevalendo nell’Electoral College? – e abbastanza rapidamente si arriva a un sistema di convinzioni molto distante dal mio. Quindi, in questo caso condividiamo davvero delle convinzioni o stiamo solo usando le stesse frasi per indicare quadri concettuali radicalmente diversi? A dire il vero c’è da chiedersi se hanno opinioni in merito, in assoluto, a questo punto.
Dunque la questione si pone sia con gli umani, sia con i non umani, e secondo me il nucleo del problema è che il linguaggio condiziona il contenuto dei nostri pensieri. Quello che ci confonde è che, quando diciamo che qualcuno pensa questo o quello, o che desidera qualcosa, siamo in qualche modo convinti di avere accesso a un cervello e di poterne leggere il contenuto, cosa che non è detto sia vera nemmeno nel nostro caso, quando in realtà quello che facciamo è interpretare il comportamento, le espressioni dell’altro, dando loro il contenuto richiesto dalle circostanze. Lo facciamo anche nei nostri confronti, e secondo me questo emerge chiaramente dal fatto che, in qualche occasione, i nostri amici e vicini capiscono certe cose meglio di noi. Voglio dire, per esempio uno dei motivi per cui la psicoterapia può rivelarsi utile è che può farmi scoprire che sto soffrendo e lo scopro grazie all’intervento del terapeuta, anche se si tratta di qualcosa che riguarda me. Oppure posso sapere che soffro e anche essere convinto di capire la causa di questa sofferenza, ma in realtà i miei amici magari la comprendono molto meglio. Quindi cosa succede in questi casi? Che interpreto continuamente me stesso come interpreto continuamente altri, ma per qualche motivo tendiamo a pensare che ci sia una simmetria: io conosco il contenuto dei miei pensieri, che ora sto codificando attraverso il linguaggio, e quindi in un certo senso se altri hanno dei pensieri devono essere entità ugualmente determinate che loro codificano attraverso il linguaggio. Ma in realtà secondo me non funziona così, in nessuno dei due casi.
PP: Hai già introdotto una questione molto interessante su cui vorrei chiederti di aggiungere qualcosa: l’indagine sulla mente animale ci insegna qualcosa anche su noi stessi. Siamo abituati a pensare di avere accesso introspettivo ai nostri pensieri, e delle volte diamo per scontato di avere una capacità di empatizzare con gli altri, di “leggere” i pensieri degli altri esseri umani. In realtà, il caso degli altri animali ci fa capire che c’è un bisogno di interpretazione, che vale per gli animali non umani, ma anche per gli altri umani (come diventa evidente nell’antropologia culturale), e perfino per noi stessi. Come concludi in tuo articolo, siamo “creature che possono sbagliare, che si auto-interpretano. A volte conosciamo la mente degli altri meglio della nostra, e a volte siamo conosciuti meglio dagli altri che da noi stessi”.
Se guardiamo ad animali non umani, penso che saremmo folli a pensare che non ci sia una consapevolezza del mondo persino negli insetti.
DJ: Penso che il richiamo che fai all’antropologia sia molto importante. La sfida fondamentale dell’antropologia, soprattutto agli albori, cioè entrare in una cultura altra rispetto a quella di partenza e cercare di capire un modo di vivere, di cui fa parte anche il linguaggio, è la sfida che affrontiamo tutti, la sfida che affronta il neonato quando entra a far parte del mondo, la sfida che affronto io quando vado in un’università a diciotto anni e devo capire il modo di vivere dell’ambiente in cui mi inserisco. Questo sforzo interpretativo fa parte secondo me dello stare al mondo, e noi lo abbiamo perso di vista. Se qui volessimo raccontare qualcosa della storia della filosofia vedremmo che la filosofia del linguaggio degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, e poi gli anni Settanta, che hanno segnato una svolta, era molto più permeata da questo approccio antropologico, per poi virare verso la semantica formale, verso il modello del computer, verso il modello dell’intelligenza artificiale e l’idea che ci siano strutture formali che governano il pensiero e il linguaggio e che quindi compito di quella filosofia sia scoprire queste strutture formali. Io penso che sia un modo molto fuorviante di guardare alle cose.
PP: Abbiamo parlato di accesso diretto ai pensieri altrui, di empatia. Un problema analogo che vorrei introdurre ora è quello del sentire. Nella filosofia della mente e nell’etologia è molto importante e molto indagata, di recente, la questione di quando possiamo attribuire la capacità di sentire alle altre specie. Questa non è solo una domanda di carattere teorico, ma ha un risvolto etico, perché secondo alcuni filosofi e scienziati la capacità di sentire degli altri animali è una condizione per attribuire loro dei diritti. Per esempio, il fatto che un animale possa provare dolore deve condizionarci nel riflettere sulla attribuzione di diritti agli animali, che regolino il nostro modo di trattarli. Tu hai affrontato questo tema sottolineando che il sentire può essere un criterio problematico.
DJ: Ritengo che la capacità di sentire possa essere un criterio importante, ma forse non così cruciale come pensano alcuni. Per me due qualità che sono fondamentali, per umani e non umani, nella costruzione del nostro universo morale, sono qualcosa di simile all’idea della “sentience” e anche dell’”agency”, cioè la capacità di sentire e quella di agire in maniera indipendente, ma dovremmo capire che questi due concetti sono filosofici e non corrispondono a quanto sperimentiamo nella vita di ogni giorno.
Prendiamo per esempio la capacità di sentire: si tende a vedere questa capacità come tutto o niente; qualcosa o qualcuno prova sensazioni, qui e ora, oppure è una materia inerte, qualcosa che subisce e basta, al cui interno non succede proprio niente. Questa distinzione netta, innanzitutto, non corrisponde al vero, nemmeno nella nostra stessa esperienza del mondo. Io ho tutta una gamma di diversi livelli di consapevolezza, forme di consapevolezza, modi di sentire le cose, che a volte sono sotto il livello dell’attenzione e a volte alla periferia dell’attenzione. Mettiamo che io vada dal dentista: lui mi trapana un dente e io urlo per il dolore, e poi mettiamo che io tenga in mano una matita: è un altro genere di sentire, un’altra qualità della percezione; il tocco della matita è ben diverso dalla fitta scatenata dal dolore. Se guardiamo ad animali non umani, penso che saremmo folli a pensare che non ci sia una consapevolezza del mondo persino negli insetti e anche una sorta di equilibrio nella direzionalità: c’è una ragione per cui un insetto va in una direzione invece che in un’altra, lontano da qualcosa che viene percepito come nocivo o tossico, ma una parte del problema è il fatto che l’idea della capacità di sentire prende tutta questa roba e la infila in una singola scatola e dice che qualcosa ha quella proprietà oppure non ha quella proprietà, mentre io penso che qualcosa che somiglia alla capacità di sentire sia distribuita molto più ampiamente in natura, ma in modo più frammentario e configurata in maniera diversa da com’è configurata in noi.
PP: A proposito di sentimenti, un altro tema importante della tua ricerca è quello dell’amore per gli altri animali. Abbiamo parlato di cani, che sono spesso animali con cui condividiamo la vita e che amiamo. Tu hai dedicato a questo tema diversi articoli, ma anche un bellissimo libro, Amore e Antropocene (2015), che hai scritto a quattro mani con Bonnie Nadzam. Si tratta in effetti di un libro di racconti, con un’introduzione teorica in cui affrontate questo tema e sollevate un problema. Scrivete che, quando diciamo di amare, noi “ci specchiamo negli altri, ma troppo spesso vediamo solo noi stessi”. Lo facciamo con le montagne, i deserti, la natura stessa, e lo stesso vale per “le persone e gli animali con cui condividiamo la Terra”. La vostra conclusione è: “conoscerli significa amarli”. La conoscenza, quindi, è parte integrante dell’amore vero e proprio per gli animali. Un’idea simile è sostenuta da altri filosofi e scrittori, per esempio da Helen Macdonald, con cui abbiamo conversato al Festival di Mantova in occasione della presentazione del podcast. Ma tu sostieni in proposito che c’è un ostacolo alla costruzione di una relazione affettiva autentica, anche con gli altri animali, cioè il “caro sé”, come lo chiami con un’espressione del filosofo Immanuel Kant. Dobbiamo cercare allora di non proiettare troppo di noi stessi, “togliere di mezzo il caro sé quel tanto che basta per riuscire a vedere veramente le cose e arrivare a conoscere – nella vita relazionale – il mondo delle altre persone, delle piante, degli animali, dei mari e dei fiumi che ci circondano”.
DJ: Il problema è che secondo me l’amore racchiude in sé un paradosso. La filosofa Iris Murdoch diceva, diversi decenni fa, che l’essenza dell’amore è, in ultima analisi, il riconoscimento dell’irriducibile realtà dell’altro da sé. Quell’idea di amore si avvicina a quella di rispetto, e in effetti si potrebbe anche pensare che il rispetto sia il genere di cui l’amore è un caso particolare. Io non credo sia proprio così, ma c’è qualcosa nell’amore che è affine al rispetto nel senso che consiste nel riconoscere la realtà e l’indipendenza dell’altro, e che l’altro non è un riflesso speculare, quindi il modello che ci si crea dell’altro è una sorta di proiezione che può essere più o meno istruttiva e utile ma che non è il pieno riconoscimento dell’altro.
Nello stesso tempo, l’amore comporta anche la comprensione, perché la comprensione, l’intimità e l’empatia sono anch’esse legate tra loro. Non possiamo provare empatia con qualcosa che non conosciamo e non possiamo conoscere qualcosa che consideriamo radicalmente altro da noi, quindi questo genere di simpatia, di affetto, di amore affettivo, si basa su quel rapporto che alcuni definiscono la fusione tra chi ama e chi è amato. Quindi il paradosso dell’amore, che è poi quello che lo rende un sistema di relazioni ed emozioni tanto profondo, ha a che fare con la navigazione tra il radicalmente altro e il radicalmente connesso, ed è per questo che i rapporti amorosi non sono mai immobili, perché sono sempre coinvolti in questi negoziati tra i due estremi. Lo vediamo nei rapporti con i genitori, tra partner, ma anche in quelli di chi ama i cani e gli animali domestici. Voglio dire, vogliamo che l’animale con cui viviamo sia sé stesso, che vada dove vuole, annusi dove vuole eccetera, però vogliamo anche che ci faccia le coccole, che sappia eseguire i nostri ordini, perché riconosciamo dei comportamenti umani nei nostri amici. E qui arriviamo al messaggio fondamentale che voglio trasmettere: noi tendiamo a pensare che ci sia un divario molto ampio tra il nostro modo di pensare e di relazionarci agli altri umani e quello che invece è il mondo degli animali, quando in realtà vale lo stesso per tutti, valgono le stesse sfide nel capire e amare altri esseri umani e nel capire e amare gli animali.
PP: L’amore per gli animali non è una questione solo teorica. Vogliamo che queste ricerche, che includono gli Animal Studies di cui tu sei un esponente col tuo lavoro, abbiano un impatto sulla scienza e sulla società. Vorrei chiederti di dirci qualcosa dello stato della disciplina, se ha avuto o sta avendo un impatto sulla scienza, se può averlo anche sulla società.
DJ: Secondo me gli studi animali sono un campo che ha un grande potenziale e che ha già avuto una sua influenza. In un certo senso possiamo tornare indietro al lavoro di Jane Goodall. Quando Jane Goodall cominciò i suoi studi sugli scimpanzé a Gombe, i suoi primi saggi furono respinti perché dava dei nomi agli animali, e le riviste scientifiche in pratica dicevano “non è così che si fa ricerca scientifica”. La scienza doveva partire da un punto di vista neutrale, e dare un nome agli animali comportava una distorsione del lavoro scientifico. Oggi, invece, gran parte dell’etologia, se non proprio tutta, accetta l’idea che studiare gli animali comporti anche il fatto di entrare in relazione con loro, e che quindi il modo in cui si pensa a loro permei in qualche modo i risultati che si ottengono.
Questo discorso ci porta anche all’etica, argomento che non abbiamo affrontato. Sono rimasto colpito da un lavoro recente, che ha richiamato grande attenzione, su maiali morti dei quali sono state riportate in vita alcune cellule, e questi risultati sono considerati molto importanti per la possibilità di trapianti, perché potrebbe essere che alcuni organi di persone morte possano essere riportati in vita e trapiantati. Ed è molto interessante che una parte consistente di questo breve studio fosse dedicato a spiegare che, nella realizzazione di questa ricerca, erano stati presi provvedimenti affinché i maiali non soffrissero quando queste cellule venivano riportate in vita. Questo sarebbe stato impensabile una generazione fa. Non sarebbe stato considerato importante tenere conto di questo aspetto nel portare avanti una ricerca scientifica. Quindi gli studi animali hanno portato a un quadro più ampio nella comprensione degli animali, in cui la ricerca scientifica tradizionale può essere vista come una parte della stessa scena e della stessa corrente ma deve essere contestualizzata all’interno di questo quadro più ampio. Quindi sono piuttosto ottimista riguardo ai contributi di scienziati sociali, filosofi e scienziati, che ci hanno davvero aiutato a venire a patti con questo mondo incredibile e straordinario di cui noi rappresentiamo solo una piccola parte.
Estratto dalla prima puntata di L’altro animale, un podcast a cura di Paolo Pecere prodotto dal Festivaletteratura Mantova 2022, disponibile sul sito del festival e sulle principali piattaforme di podcast.