L ord Byron e Anne Isabella Milbanke si sposano il 2 gennaio 1815. Lui chiama lei, nobile e matematica, “mia Principessa dei Parallelogrammi”; le scrive che se potesse dimostrare che 2 + 2 = 5 ne ricaverebbe molto piacere, forse inaugurando un tropo che viaggerà da Hugo a Dostoevskij, da Göring a Orwell – un insieme di aforismi in base 2.
Qualche mese dopo, la primavera inglese inizia a sciogliere il loro matrimonio. Anne supera una gravidanza cercando di ignorare le minacce di morte del marito e le sue notti adultere in compagnia di Augusta, la sorellastra. Il 10 dicembre, Anne partorisce Ada: il 15 gennaio si separa da Londra e dal marito. Ada viene a sapere chi è suo padre quando lui muore nel 1824: ha otto anni, e una immaginazione già lontana dall’ordinario. È dotata di una curiosità spropositata ed è incoraggiata dai suoi tutori: dimostra un talento puro per il disegno e la musica, un’inclinazione per la matematica, una passione per le macchine. A dodici anni disegna un ipotetico aereo a vapore, rapportando correttamente la dimensione delle ali a quelle della fusoliera e anticipando di quindici anni William Henson e John Stringfellow.
Diciassettenne, debutta a corte nella primavera del 1833, dove incontra i regnanti Giacomo IV e la consorte Adelaide (che oggi è una metropoli australiana); il 5 giugno dello stesso anno, ancora minorenne, conosce Charles Babbage. Matematico, visionario, Babbage ha inventato una scienza destinata a rimanere dormiente per un secolo: l’informatica. Ada Lovelace incontra Charles Babbage perché incuriosita da un pezzo della Macchina Differenziale esposta nel salotto del matematico: Babbage stava allestendo un calcolatore automatico più avanzato della tecnologia necessaria a farlo funzionare. Mancano pochi anni all’avvento della Macchina Analitica. I due si piacciono da subito e inaugurano una corrispondenza ventennale.
È il momento di contestualizzare. All’epoca in cui Lovelace cercava di approfondire le sue conoscenze matematiche alle donne non era permesso iscriversi all’università e (se proprio erano interessate alle scienze) potevano iscriversi a una società botanica e occuparsi di fiori. Nell’Inghilterra del tempo, però, alle donne non veniva negata la possibilità di diventare istitutrici: possibilità che Lovelace non si fa scappare. Intanto, diventa contessa prima dei vent’anni sposando William King, conte di Lovelace; i due hanno tre figli prima che William compia quarant’anni, Ada trenta. Il tempo scorre tra l’amministrazione delle tenute, serate mondane, tanta arpa e poca salute. Il tempo si trasforma quando i suoi studi incontrano la logica, la matematica, il pensiero astratto; lo studio dà significato alla sua vita, il pensiero pensante è al centro della sua corrispondenza.
All’epoca in cui Lovelace cercava di approfondire le sue conoscenze matematiche alle donne non era permesso iscriversi all’università. Al massimo potevano iscriversi a una società botanica e occuparsi di fiori.
Nel saggio L’informazione, James Gleick insiste nel precisare di come la visione matematica fosse solo una parte della capacità immaginativa di Lovelace: un dono che potrebbe avere ricevuto, come lei stessa allude, dai geni del padre. L’autore del saggio cita uno scritto in cui Ada parla della sua immaginazione, capace di penetrare “il reale che non vediamo, che esiste ma non per i nostri sensi”. Sì perché chiunque si ritrovi ad approfondire questo profilo si imbatte in una persona 1) di un’intelligenza intimidatoria 2) tremendamente, infaticabilmente prona all’autoanalisi e 3) molto, molto, molto sicura di sé: “posso concentrare i raggi da ogni angolo dell’universo in un grande punto focale”.
Ada, o ardore
1840. Stufo di non essere considerato in Inghilterra, Charles Babbage muove verso il continente. La corona non intende finanziare il suo nuovo progetto, la Macchina Analitica, alla luce dei circa due milioni di sterline bruciati nella Macchina Differenziale pochi anni prima — secondo Oliver Wendell Holmes per esempio, uno dei migliori scrittori del secolo per i suoi coevi, l’invenzione di Babbage è un “mostro di Frankenstein, una cosa senza cervello e senza cuore, troppo stupido per fare un’idiozia”. Babbage non si arrende e decide di accelerare la realizzazione di una macchina che presenti gli elementi fondamentali del computer con cui sto scrivendo questo articolo. Passa quindi per Lione, dove finalmente può vedere il telaio Jacquard — a cui si è ispirato per le schede perforate — e arriva a Torino, in occasione di un convegno di matematici e ingegneri. Saranno gli unici esseri umani ad assistere alla presentazione della Macchina Analitica. A rimanerne colpito, oltre il Re, è Luigi Menabrea, un matematico di trent’anni che non conosce ancora il suo futuro di primo ministro del Regno d’Italia (per i completisti, ecco un articolo che racconta che la frase “l’aritmetica non è un’opinione” fu pronunciata proprio dal Ministro delle Finanze del governo Menabrea, nel 1879, per giustificare una tassa sul macinato). Menabrea redige Notions sur la machine analytique, una relazione scientifica redatta in francese con l’obiettivo di diffondere il verbo informatico su scala europea.
Una copia del documento di Menabrea giunge anche a Lovelace che, conoscendo meglio la macchina, inizia a tradurlo in inglese correggendone gli errori e chiosandolo di note a piè di pagina. La Macchina Analitica diventa l’ossessione di Ada: “il mio cervello è qualcosa di più che semplicemente mortale; come il tempo dimostrerà; […] nessuno sa quale orribile energia e forza stia ancora non sviluppata in quel mio piccolo sistema filiforme”. Tre anni dopo, il lavoro è concluso: le sue note sono lunghe il triplo del testo originale, e includono la stesura del primo programma informatico della storia. Attraverso Note G, Ada si avventura nel calcolo dei numeri di Bernoulli: è la prima persona a istruire un dispositivo in vista di un risultato che non è stato pre-calcolato. Ada ha concepito un processo ritmato da una trama di regole, una sequenza di operazioni che potrebbe essere definita, “un procedimento di calcolo esplicito e descrivibile con un numero finito di regole che conduce al risultato dopo un numero finito di operazioni”, o più in breve, algoritmo. Ecco che 1843 e 2016, il tempo di un ping, si toccano.
Ada è in anticipo di un secolo: “la scienza del calcolo diviene sempre più necessaria a ogni passo del nostro progresso, e in ultima istanza deve governare tutte le applicazioni della scienza alle arti della vita.”
Ma Ada non si ferma qui. Visto dal divano del futuro, il salto logico immediato: se la macchina è capace di lavorare con i numeri, potrà lavorare anche con dei simboli. Potrà manipolare il linguaggio. La logica simbolica, all’epoca, sta solo muovendo i primi passi, ma bastano a Lovelace per scrivere che “la Macchina Analitica non occupa lo stesso ambito di un mero calcolatore. Vive di vita propria; […] viene stabilito un collegamento tra le operazioni materiali e i processi mentali astratti del ramo più astratto della scienza matematica”. Se poesia significa anche nominare qualcosa che non ha ancora nome, Lovelace ci va molto vicina quando specifica che “per operazioni intendiamo qualunque processo che altera la relazione reciproca di due o più oggetti. […] È la definizione più generale, e include tutti gli oggetti dell’universo”.
Ada è in anticipo di un secolo: “la scienza del calcolo diviene sempre più necessaria a ogni passo del nostro progresso, e in ultima istanza deve governare tutte le applicazioni della scienza alle arti della vita.”
È noto che nel centro di decrittazione di Bletchley Park, durante la seconda guerra mondiale, Alan Turing, impegnato a decifrare Enigma, lesse il saggio di Menabrea e, soprattutto, le note di Lovelace. Nel saggio Computing Machinery and Intelligence, uno dei testi sacri di chi si immerge ogni giorno nelle torbide acque dell’AI, Turing inserisce Lovelace tra le fila di chi si oppone all’idea che sia possibile una Intelligenza Artificiale “creativa”. La Domanda intorno a cui turbina il saggio è: le macchine possono pensare? Secondo Ada, la Macchina Analitica non può sorprenderci: “può fare quello che gli ordiniamo di fare”. Secondo Turing, Ada sottovaluta la tendenza dei mezzi tecnologici ad adeguarsi al progresso umano; ragione che lo porta a giustificarla e assolverla.
Verità e sogno
Il 27 novembre del 1852 Ada Lovelace muore di cancro.
Sono trascorsi quarant’anni da quando Byron si è presentato alla House of Lords per difendere i diritti dei tessitori di Nottingham in rivolta contro la crescente automazione del settore. Qualche anno dopo, il poeta si sarebbe auto-esiliato. Quando Ada aveva un mese appena, infatti, il poeta si era lasciato abbandonare da Annabella, decidendo di allontanarsi per sempre dalla sua patria. Era pieno di debiti ed era considerato nel suo milieu poco più di un bipolare incestuoso. Era il 1816, che passerà alla storia come l’anno senza estate: vulcani australi e tempeste solari riempirono di freddo e pioggia l’estate svizzera del poeta che, chiuso in una villa in compagnia di Percy e Mary Shelley e altri ospiti, ritrovò un deciso slancio creativo. Non era l’unico: nella villa Diodati, dalla penna di una diciannovenne, nasce l’idea di Frankenstein — o il moderno Prometeo, l’uomo contro la macchina, una macchina che non ha chiesto di essere creata, una macchina che qualche anno dopo diventerà l’epitome di “una cosa senza cervello e senza cuore”. In quel paio di mesi svizzeri comunque, Byron scrive anche The Dream, un poema, e il terzo canto del Childe Harold’s Pilgrimage, forse il suo lavoro più noto.
Mentre Byron scrive The Dream, Ada attraversa il suo decimo mese di vita: inizia a comporre le prime sillabe, a programmare il suo linguaggio. Già dal titolo si può capire quanto il contenuto autobiografico della poesia, così sofferto e comunque apologetico, sia edulcorato dall’ispirazione di Byron. Se ci si muove lentamente tra le stanze, però, si riesce a intravedere l’entità del dolore di chi sceglie le parole. La poesia inizia dal sonno, “Our life is twofold: Sleep hath its own world, / A boundary between the things misnamed / Death and existence”: un confine tra le cose che chiamiamo morte ed esistenza, sbagliando. Nella sesta stanza si racconta poi del matrimonio con Anne, “il suo viso gentile”, anche se meno brillante di quello della sua giovane stella adultera. Ada insomma non è la “figlia dell’amore” descritta dal poeta nel Childe Harold, lo stesso Byron che qualche verso più in giù corregge il tiro, descrivendola “nata nell’amarezza, sfamata nella convulsione”.
Poesia e codice sono fenomeni linguistici ed entrambi avvengono nel linguaggio. Entrambi, però, scelgono un altro uso del linguaggio: se la poesia si disinteressa della funzione informativa del linguaggio, il codice è informazione.
Non è sempre gradevole la lettura delle vicende di questo alter ego dell’autore, una specie di Christopher McCandless, il vagabondo raccontato da Krakauer in Nelle terre estreme (Into the Wild), che misura Vita e Morte perdendosi nelle terre selvagge del primo Ottocento, con la differenza che scrive in rima e sopravvive alla fine del libro. Mi chiedo se riuscirò mai a finirlo, il Childe Harold, probabilmente no, anche se alcuni passaggi si sono già impressi con violenza, come “le strane costellazioni che la musa diffonde nell’universo selvaggio”; come le “cose […] che arrivarono come Verità, svanirono come sogni”: un verso che, forse, Ada avrà sottolineato un paio di volte.
Le due cose sono indissolubilmente legate
Poesia e codice sono fenomeni linguistici ed entrambi avvengono nel linguaggio. Entrambi, però, scelgono un altro uso del linguaggio: se la poesia si disinteressa della funzione informativa del linguaggio, il codice è informazione.
Sempre grazie a Gleick possiamo leggere delle note dal diario di Ada, come “non credo che mio padre sia mai stato (o avrebbe mai potuto essere) poeta tanto quanto io sarò un’analista (e metafisica): perché per me le due cose sono indissolubilmente legate”. Analista è colei che analizza; l’etimo di analizzare indica scioglimento; l’oggetto analizzato è quindi qualcosa che viene soluto. Gli algoritmi servono a permettere di ri-solvere i problemi, di ri-solverli rimanendo affidabili a ogni lettura. La cosa più distante dalla poesia, così inaffidabile… così umana.
Nel suo Cibernetica e Fantasmi, Calvino ricorda che “varie teorie estetiche” hanno sempre sostenuto che
la poesia fosse una questione d’ispirazione discesa da non so quali altezze o sgorgante da non so quali profondità, o intuizione pura o momento non meglio identificato della vita dello spirito, o voce dei tempi con la quale lo spirito del mondo decide di parlare attraverso il poeta, […] o una presa diretta della psicologia del profondo che permette di scodellare le immagini dell’inconscio sia individuale sia collettivo, comunque qualcosa d’intuitivo d’immediato d’autentico di globale che chissà come salta fuori.
L’elefante, però, rimaneva nella stanza: cosa concorre davvero alla creazione di una pagina scritta? Secondo il genio di Ti con zero, “quello che la terminologia romantica chiamava genio o talento o ispirazione o intuizione non è altro che il trovar la strada empiricamente, a naso, tagliando per scorciatoie”, un gioco combinatorio di cui una macchina non necessita, grazie a una mappa che di tutti i percorsi possibili ha già indicato il più rapido. (Osservazioni simili, anche se più vaghe, erano già state mosse anche da La filosofia della composizione di Poe, 1846). Calvino chiede insomma di smetterla con questo byronismo, con questo virus dell’ispirazione inconsapevole: largo all’uomo “più cosciente, che saprà che l’autore è una macchina e saprà come questa macchina funziona.”
Fino alle idi di ottobre 2016 A.D., cado ancora nella tentazione di definire illusoria l’ossessione di equiparare pensiero e calcolo. Certo, dal legno dei telai, dalle febbri di Ada Lovelace, si è arrivati alla discussione intorno alle macchine-che-cogitano. In un passaggio del suo La parola e il fantasma, Agamben insiste proprio sul significato medievale di cogitatio, ovvero “fantasia, discorso fantasmatico; […] solo col tramonto della concezione greca e medioevale dell’intelletto separato, cogitatio comincia a designare l’attività intellettuale”. Il volo fantastico diventa insomma rigore intellettuale, “Lord Byron” diventa “Ada Lovelace”: il loro passato diventa il nostro presente. Betsy Morais riporta un appunto di Ada in cui la matematica si chiede “What is Imagination?”, rispondendosi che è due cose, ovvero 1) la facoltà combinatoria, la capacità di connettere oggetti apparentemente sconnessi e 2) la facoltà inventrice, la facoltà preminente, la capacità di captare i mondi invisibili che ci circondano, “i mondi della Scienza”. Secondo più di un biografo, la madre di Ada temeva che la bambina avesse ereditato la follia del padre, e che la passione per la poesia sarebbe stato un sintomo più che sufficiente a certificare il sospetto. Il rischio viene già sventato prima dell’adolescenza, e suggellato — per i posteri — da una lettera al conte di Lovelace in cui Ada racconta che lo studio della matematica è il migliore recinto per la sua immaginazione, un perimetro che evita di farla vagare “nel senso di vuoto che avanza nella [sua] mente.”
Una seconda generazione stufa di giocare, quindi: Byron e la sua arte combinatoria incapsulano un’epoca in cui regnava la spensieratezza pre-informatica: come se programmando — stricto sensu — l’uomo avesse compromesso la sua ingenuità. La storia di Ada Lovelace, informazione genetica tramandata con successo da Lord Byron e Anne Milbanke, è più grande di noi. È uno degli infiniti capitoli, per quanto particolarmente esotico, della Storia dell’Informazione: come nella Colonia Penale di Kafka, è una storia è scritta dagli e sugli uomini. Parafrasando un poeta argentino, l’informazione è un fuoco che ci divora, ma noi siamo il fuoco.
Nei suoi ultimi scritti, Baudrillard discute della “ossessione di tutti i discorsi”, la Realtà, chiedendosi se non siamo forse più affascinati dalla sua — ecco che torna — dissoluzione. Il filosofo, vicino agli ottant’anni, certifica il passaggio da analogico a digitale come l’ingresso in una realtà “in cui il mondo fa zapping su se stesso da un’immagine all’altra”, così come il soggetto si dissolve “nella diaspora mentale delle reti”: forse eccessi di un gigante smarrito in una giungla precipitata in uno stato di mutazione perpetua, comunque utili a riflettere sulla minaccia definitiva: lo spettro. È una questione di spettri, dai “wandering ghosts” del Childe Harold alle macchine evanescenti di Babbage al fantasma della prima programmatrice di sempre, Madonna di un regno in cui tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, protettrice della scrittura automatica del mondo.
Con le stelle
e il vivo spirito dell’universo
conversava e apprese
i loro magici misteri;
il libro della Notte per [lei] venne schiuso,
e voci dal profondo abisso le rivelarono
presagi e segreti — e così sia.
Lord Byron, The Dream.