

S torie di un secolo ulteriore di Andrea Inglese (2024) è una raccolta di scenari fulminanti, paradossali, di biografie espressioniste e irrisolte; ha il sapore del reading e della performance, e una vocazione teatrale e partecipativa che obbliga chi legge a continue inferenze per dare un senso, o anche solo un ordine, agli eventi. Eppure queste storie senza trama, senza dialoghi e a volte persino senza personaggi non risultano mai veramente incomprensibili, in un modo che ci lascia attoniti: com’è possibile che nel teatro dell’assurdo messo in scena da Inglese emerga non solo una logica, ma addirittura in alcuni casi un’ovvietà? Come fanno le sue storie, lontanissime da una forma narrativa classica, volutamente così prive di linearità, a risultarci così evidenti?
L’effetto, costante e quasi nauseante, di appaesamento – il contrario di straniamento, come l’ha giustamente definito Ezio Partesana – è dovuto in gran parte alla tecnica ormai molto raffinata della prosa di Inglese di ricorrere all’utilizzo di frasi fatte ed espressioni quotidiane in contesti inconsueti. Alle frasi fatte è persino dedicata una storia intera – la “Storia delle frasi fatte” – in cui il canonico problema degli “otto miliardi di bocche” da sfamare consiste nel riempirle non di cibo, bensì di parole.
Se in Stralunati (2022) Inglese prendeva di mira l’alienazione prodotta soprattutto dal mondo del lavoro, proseguendo il filone inaugurato con La vita adulta (2021), qui la critica si fa ancora più profonda, esistenziale. Nella “Storia del giro”, che apre la raccolta, va in scena una sorta di gara senza scopo – una corsa forsennata a “entrare nel giro”, appunto, nella piena ambivalenza di giro come “circuito” e come “comunità ristretta di persone” – che però in qualche modo è “l’unica possibile”, in cui bisogna “accelerare” per non perdere terreno malgrado la meta non sia nota né in vista. Un’urgenza che fa il paio con quella della “Storia con cadaveri”, dove persino morire è “solo un modo come un altro di portarsi avanti”.
Com’è possibile che nel teatro dell’assurdo messo in scena da Inglese emerga non solo una logica, ma addirittura in alcuni casi un’ovvietà?
In un mondo ormai privo di punti di riferimento, dove il risultato di un lavoro alienante e di relazioni altrettanto alienanti è l’alienazione definitiva da sé stessi, l’unico appiglio che resta – sembra dirci Inglese – è la broda calda e rassicurante dei luoghi comuni, baluardo finale contro il Nulla che avanza. Di fronte alla prospettiva della perdita di qualunque significato, le parole, anche le più trite e banali, diventano allora bene primario da custodire gelosamente, necessarie per sopravvivere, soprattutto per quelli che “non sanno bene cosa dire” – ovvero gli apocalittici, i ribelli, i sognatori lucidi delle lande oniriche – e rischiano di rimanere esclusi persino dalle ultime, astruse forme di comunione con l’altro.
È per questo che, proprio nelle descrizioni dei personaggi più improbabili e nelle situazioni dove il filo che lega l’uno all’altro gli eventi narrati è più esile e vago, vediamo fare capolino il fraseggiare incolore dei nostri scambi formali, dal sapore giornalistico e rassicurante – come se la stranezza del contesto non facesse altro che rendere ancora più imperativa la necessità di conforto. Ma l’appaesamento della prosa di Inglese non è mai davvero consolatorio. Anzi, al contrario, costituisce in realtà un feroce atto d’accusa ai propri lettori: quanto spesso la nostra ricerca di senso e verità è disposta a bearsi arenata nell’alveo placido del già noto?
La “Storia di Luigi Rinaldo” è a suo modo emblematica di questa dinamica. Luigi Rinaldo, il protagonista, viene trattato dagli altri con rispetto, se non proprio deferenza, nonostante “capita che sporchi molto in giro” – “ma non sempre questo accade”, puntualizza Inglese, “non c’è una regola chiara in proposito”. Rinaldo, come molti protagonisti delle Storie, è un enigma vivente: non agisce secondo pattern riconoscibili, e non sembra avere alcuna aspirazione all’intelligibilità. Proprio per questo viene lasciato stare dalle persone che lo circondano, disposte a sopportare qualsiasi stranezza pur di non mettere in discussione i propri, di pattern. Rinaldo ricorda da vicino il Bartleby di Melville: una figura che con il suo “I would prefer not to” incarna la normalità impossibile nel moderno, represso e civilizzato mondo, e che più di ogni altra può aiutarci a capire la realtà potenziata, “ulteriore”, di Inglese. Come nel racconto di Melville, è Luigi Rinaldo “che deve essere spiegato”, ed è la sua stessa esistenza, o meglio, la possibilità stessa di un’esistenza come la sua, a dover trovare una giustificazione in una società che non accetta più che si voglia uscire dalla frenesia dei suoi giri.
L’appaesamento di Inglese non è mai consolatorio, anzi costituisce un feroce atto d’accusa: quanto spesso la nostra ricerca di senso e verità è disposta a arenarsi nell’alveo placido del già noto?
I personaggi di Inglese lo dicono spesso, “I would prefer not to”: si ammazzano “con atteggiamento, diciamo, costruttivo”, e smettono di vivere perché “bisogna pur passare a qualcosa d’altro”. La resistenza per sottrazione è per molti dei protagonisti – uomini, donne, e in un caso bambini – l’unica strada possibile. Lungi dall’essere semplice rinuncia, la sua potenza è tale da far detonare la realtà stessa, infrangendo la patina di sensatezza preservata dai suoi luoghi comuni e portandosi dietro le reti di relazioni e gerarchie sociali che la compongono.
Ma si tratta pur sempre di una resistenza stanca, frustrata, in cui pesa “tutta la fatica di un terrorismo portato avanti con generosità dilettantesca”. Le idee che la animano, le nostre idee, sono interessanti, ma “non sono di grande utilità”: condannati a un’attesa perenne – di un segnale, di un cambiamento, di una fine, anche, se necessario – intanto “corriamo qua e là, come spinti da convincimento, diamo fondo a tutte le motivazioni che abbiamo, facciamo la nostra parte”, “spinti dalle piccole, medie e grandi cose”. Interpelliamo gli esperti, che però ci dissuadono dalla possibilità di un intervento efficace – capace di scongiurare o fermare una guerra, ad esempio – e ci invitano, nel nome della complessità (“più le cose sono spiacevoli più è probabile che siano complicate”), ad arrotolare i nostri manifesti, ad avvolgere i nostri striscioni, e ad andare a casa.
Ci sono molti divieti, nelle Storie, d’ispirazione per lo più kafkiana, e ci sono mostri, ammesso che esistano davvero e non siano “delle semplici rappresentazioni morali di noi stessi, quando facciamo il male” in qualità di poveri disgraziati, persone “male in arnese”, o letteralmente richiedenti asilo. Gli scenari includono di frequente folle confusionarie, che premono e irrompono all’interno di scenografie metafisiche. Gli incontri lasciano una sensazione di sfasamento, di incomprensione, se non proprio di incomunicabilità.
La freddezza, la distanza, e in sintesi la perdita di umanità emergono a ogni pagina come tema dominante, fulcro di tutta la raccolta.
Sono storie di isolamento, come la “Storia con il pesce siluro”, dove ciascuno ha un motivo di preoccupazione preponderante slegato dagli altri, o come la “Storia di Nirsina”, ossessionata da “la musica originale, la musica vera, quella corretta” di un video di TikTok visto per caso, specchio del nostro tentativo di cercare, in questo o quel dettaglio del mondo che ci circonda, la chiave di volta della realtà. Ma la verità è che “non è chiaro quali siano le cose da appurare”, quale sia il focus su cui vale la pena fermare la nostra attenzione; non resta che “rimandare bilanci e conclusioni”, e “dormirci sopra la notte”. In generale, ogni elemento delle Storie – ambienti e persone – si muove freddo come un oggetto meccanico condannato a un moto perpetuo. La freddezza, la distanza, e in sintesi la perdita di umanità emergono a ogni pagina come tema dominante, fulcro di tutta la raccolta.
Nella “Storia della perduta umanità” il perturbante accennato negli altri quadri si erge con chiarezza al centro della scena, rivelando infine la natura del disagio provocato dall’appaesamento: “Non siamo più umani da un bel pezzo, e non c’è niente di cui vergognarsi”. Non fraintendiamoci, “siamo rimasti tipi attivi, soprattutto da giovani. Siamo capaci di combinare una gran varietà di cose” e “raramente stiamo con le mani in mano”; ma non siamo più esseri umani, almeno non “per un sufficiente lasso di tempo”. E in questo “secolo ulteriore”, post-umano, in cui “avidità e amore non sono per forza spinte opposte e inconciliabili” e il senso della vita è ridotto a un “groppo inespresso […] denso, scuro e leggermente rumoroso”, l’ultimo e inevitabile destino comune è quello di scomparire, malgrado la semplicità e la bellezza del “progetto originale”: “stare assieme il più tempo possibile”.