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Giacomo Giossi
17.10.2025

I nostri estranei di Lydia Davis

Giacomo Giossi collabora con giornali e riviste.
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L a forma breve detta altrimenti racconto è per Lydia Davis in realtà una strategia per arrivare a una scrittura automatica, un flusso unico, compatto e continuo in grado di celebrare ogni singolo momento dell’esistenza, facendo rilucere la quotidianità, anche quella considerata a torto spesso banale o ovvia. La scrittura come un momento capace di dare corpo a una scia luminosa, essenziale, rapida e mistica, ma soprattutto esistenzialmente fondamentale per comprendere i chiaroscuri della vita e le sue inevitabili incertezze. Associata alla scuola del minimalismo, Lydia Davis è ancora poco nota in Italia nonostante gli sforzi di Rizzoli, Minimum Fax e ora di Mondadori che manda in libreria in questi giorni ‒ dopo Osservazione sulle faccende domestiche (2022) ‒, I nostri estranei, una raccolta uscita originariamente negli Stati Uniti nel 2023 e qui tradotta splendidamente (come sempre) da Gioia Guerzoni.

Lydia Davis sconta la diffidenza e spesso più facilmente l’indifferenza dei lettori che da sempre ‒ regola aura dell’editoria ‒ appaiono più attirati dalla forma romanzo che dalla forma racconto. Un dato che in parte vive in contraddizione con i tempi attuali che dettano in continuazione velocità e rapidità e che in generale vedrebbero così favorita la forma breve alla forma lunga. Ma probabilmente l’insicurezza unita all’ambizione a cogliere e immergersi nella grande opera predispongono chi legge a imbarcarsi più favorevolmente per un lungo viaggio che per una breve gita come sono spesso le storie e le storielle (in senso tutt’altro che dispregiativo) che condiscono e illuminano i libri di Davis. Racconti che spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori. Basta molto poco a Lydia Davis per far accadere una storia su una pagina, ma oltre il racconto che di volta in volta si pone davanti agli occhi è l’opera che appare di una straordinaria compattezza. Sostanzialmente un unico lunghissimo racconto, un oggetto letterario monumentale che ha la forma ultima e critica dell’autobiografia di una scrittrice al lavoro, anzi nel mentre del suo lavoro.

I racconti di Davis spesso sono fatti di poche righe, impressioni dettate sulla pagina che nascono da un momento rapido, da uno sguardo abbagliato e incantato che fa resistere l’attimo e il suo accadere espandendolo così nel fondo della memoria dei suoi lettori.

Vista in tutta la sua interezza ‒ e forse varrebbe proprio di pensare un unico volume fisico per tutti i suoi racconti ‒ l’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di Spoon River. Davis infatti riesce a giocare brillantemente e coraggiosamente ‒ come pochissimi ‒ tra attualità e contemporaneità mischiando abilmente i piani e restituendo al lettore una sensazione di leggerezza là dove il discorso può facilmente assumere i toni e la forma di un dramma, magari solo accennato, ma ben visibile nella possibilità di un imminente accadimento. L’attesa è un elemento fondamentale della narrazione di Lydia Davis: tutto potrebbe avvenire oltre l’ultima pagina data, una forma di suspence non strategica, ma che vive dell’essenza delle cose, del loro naturale accadere e agire. E da questo punto di vista l’influenza di Samuel Beckett è percepibile in più di un racconto come una presenza di fondo che definisce le tonalità narrative dei suoi scritti: “L’uomo acconsente, lo sconosciuto fa una chiamata. L’uomo chiede allo sconosciuto se può venire in sinagoga. Serve un altro uomo per raggiungere il minia. Lo sconosciuto accetta e rimane per quasi tutta la funzione”. Così come fanno capolino situazioni metaletterarie: “A Detroit, mentre aspettavo in coda, ho conosciuto una donna che si è rivelata essere la figlia dell’editore di Samuel Beckett, Barney Rosset”.
L’opera di Lydia Davis appare come un infinito flusso in continua evoluzione dentro cui zampilla e saltella un allegro e musicale movimento d’onde che dà corpo a una ultracontemporanea e al tempo stesso attualissima Antologia di Spoon River.

In particolare I nostri estranei offe un’irremovibile convinzione nella forma letteraria pura capace proprio per questo di sfondare le pareti ‒ speso sterili ‒ della narrativa per invadere la strada, per tornare là dove gli eventi accadono in continuazione, ma sempre senza il bisogno e la necessità di riferirli se non in forma di telegrafica ovvietà. Il movimento proposto da Lydia Davis è quello di un’attesa che possa illustrare non i fatti, ma la forma mobile dello sguardo e della voce narrante, al punto che i suoi racconti alternano la narrazione al punto di vista dell’autrice che risulta così uscire improvvisamente dal ruolo di narratrice per divenire direttamente protagonista di una vicenda, magari minima, ma che definisce un’interpunzione utile ad accelerare o a rallentare quella che a tutti gli effetti appare come una proiezione continua.

Il movimento che l’autrice impone ai suoi lettori è quasi cinematografico, una sorta di piano sequenza warholiano in cui tutto quello che può accadere sta già accadendo in quell’unico e dunque preciso istante. Un mentre che si posizione perfettamente davanti agli occhi dello spettatore/lettore, senza però che vi sia mai la necessità di mettere l’evento in evidenza, sottolineandolo o delineandolo all’interno di una narrazione di particolare straordinarietà. Tutto per Davis vive al medesimo stadio d’importanza: “quella nota sarebbe rimasta completamente isolata nello spazio, al centro dell’attenzione di tutti coloro che ascoltavano, isolata come qualsiasi altro suono che avresti emesso, e avrebbe riecheggiato nella vastità della chiesa con tuo grande imbarazzo”.

I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica dall’armonia totalmente jazzistica.

Una forma che vive tranquillamente quale elemento sconosciuto la cui visibilità e presenza è data solo dalla pretesa e voluta solitudine, come un’ombra cinese la cui profondità non è data dalla temperatura del colore, ma dallo scambio tra luce e buio. Un icastico imbarazzo attraversa i protagonisti dei racconti di Lydia Davis che fanno così (sorprendentemente) capolino nelle singole memorie esistenziali di ogni lettore. Là dove la letteratura diventa sì indagine, ma anche memoria, un vero sistema organizzato capace ‒ sempre senza citare mai esplicitamente ‒ di rimembrare come una percezione intima un passato privato che diviene in questo modo autobiografia comune.

I nostri estranei alterna narrazioni lunghe, a forme più diradate, quasi degli haiku. Intervengono nel mentre ballate e incisive poesie narrative che espandono il loro senso fino a offrirlo al successivo racconto, come in una ritmica dall’armonia totalmente jazzistica. Minute che riportano alla letteratura di Robert Walser, da sempre un riferimento per Davis, dentro cui a guidare è la lingua prima della trama. È nell’essere ferma, istantanea che si definisce infatti la cifra della scrittrice americana, in particolare in questa ultima raccolta in parte criticata proprio perché sembra non andare oltre l’abituale e confortevole giardino che da sempre Davis offre ai suoi lettori. Ma forse la direzione da ricercare non è nel movimento, ma in quel non movimento che offre una fotografia diretta della vita come della morte e del guaio che è riuscire a far tornare ‒ da bambini come da vecchi ‒ tutti i conti.

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