

S correndo le pagine di Storia di un amore infinito di Morris Kline, ripubblicato da Meltemi a quasi cinquant’anni dalla prima edizione italiana del 1976, il desiderio dell’autore di rendere digeribili i concetti più astratti della matematica si concretizza in una prosa dalla chiarezza ancora attuale e vertiginosa. Non è tanto la raffinatezza della divulgazione a rendere il testo speciale, quanto alcuni aspetti coscientemente celati che spingono a interrogarci su quanto si possa ancora considerare “occidentale” il pensiero matematico – termine che aleggia nel titolo originale Mathematics in Western Culture così come nel sottotitolo dell’edizione italiana. Secondo Kline, il linguaggio della matematica plasma e viene plasmato dalle mode intellettuali, dai meccanismi che, indipendentemente dalla loro complessità e dalla loro distanza da ciò che gli scienziati stabiliscono essere i “fondamenti”, percolano negli angoli meno battuti dell’indagine scientifica, diventando essenziali anche quando non pienamente elaborati e compresi dallo spirito scientifico del tempo.
Docente alla New York University e divulgatore della matematica tra i più attivi del Novecento, Kline ha sempre cercato di mostrare la forza propulsiva conferita dalla matematica all’evoluzione del pensiero. Le tappe scandagliate dalla narrazione danno così la sensazione che il discorso formale della matematica acquisti importanza anche in virtù delle sue potenzialità reazionarie, consentendo la strenua sopravvivenza di idee che andrebbero altrimenti a logorarsi. Già Platone, cercando di interpretare il moto dei pianeti, erratici vagabondi osservati dalla superficie terrestre, auspicava un modello della meccanica celeste che potesse “salvare i fenomeni” e non semplicemente adagiarvici. La tendenza, e qui si riconosce la spiccata velleità metafisica del pensiero greco, non era quella di spiegare ma di giustificare, di dare dignità al fenomeno che riesce a rivelare la bellezza del modello matematico. Il disordine non poteva che apparire come approssimazione di un’armonia geometrica meravigliosa.
Nel corso dei secoli, racconta Kline, altre interpretazioni teologiche e credenze metafisiche hanno agito come filtri e canoni interpretativi della matematica. Come già nel modello di Eudosso, l’Antico Testamento e la teologia medioevale ancorano al centro del cosmo una Terra piatta, attorno alla quale è la volontà divina a muovere i pianeti lungo sfere concentriche. L’analisi del movimento delle sfere costituisce un chiaro esempio di come un modello formale possa ristabilire una continuità fra i principi delle Scritture e la regolarità dei movimenti celesti, conferendo validità a loro entrambi. La matematica si dimostra linguaggio che disarticola le soluzioni di continuità, ripulito dalle ambiguità proprie del linguaggio naturale. Il linguaggio matematico non può quindi contenere verità intrinseche: è il tessuto connettivo che si interpone fra un sistema conoscitivo e il fenomeno che ci sta innanzi.
Kline ha sempre cercato di mostrare la forza propulsiva conferita dalla matematica all’evoluzione del pensiero.
Quando si tratta di divulgare il ruolo della matematica nella fisica contemporanea, sono due le tendenze. Da un lato la descrizione del fisico alle prese con i confini della conoscenza, prospettiva dalla quale appare come detentore di un sapere matematico fondamentalmente, precluso al lettore. Dall’altro lato, il discorso sulla matematica come un universo ludico, composto da paradossi che sfidano il senso comune, grammatiche enigmistiche e trucchi di magia. Entrambe pericolose semplificazioni, sintomi di patologie che affliggono i nostri dipartimenti più che lo stato di salute dell’editoria.
Ci troviamo spesso di fronte a una letteratura scientifica che immerge il lettore in vaghe quanto affascinanti analogie, dove le spettroscopie stellari possono ancora camuffarsi da esplorazioni delle profondità del cosmo e i tentativi esasperati di quantizzare la gravità riescono a farsi acclamare come importanti conquiste dell’intelletto. Tuttavia, ci rendiamo conto che troppo spesso la cornice concettuale in questi testi si diluisce nel discorso formale, solvendo ogni contiguità con modelli di pensiero più vicini al senso comune, colpevoli di essere troppo distanti da una “realtà che non è come appare”. Lo scopo del buon racconto della scienza non dovrebbe essere quello di spiegare equazioni ma, al contrario, di liberare il pensiero scientifico dalla necessità del formalismo e sondare le profondità che possono essere raggiunte da un linguaggio più ecumenico.
Sebbene il racconto della storia della matematica di Kline non faccia sconti al romanticismo, lo fa esaltando il ruolo del ricercatore anziché decantare l’irraggiungibile supremazia del calcolo. Il libro si distingue come uno dei pochi casi che cercano di disincagliarsi dalle narrazioni più dannose della matematica, evitando di introdurci nel “magico mondo dei numeri” per cercare invece di comprendere più a fondo il significato del pensiero formale, e descrivendo perciò una matematica cangiante e poliedrica che attraversa varie fasi della storia del pensiero. La matematica non è un enigma impenetrabile ma un argine concreto e a volte insufficiente dello sviluppo intellettuale della nostra civiltà. Nulla di magico, piuttosto un aderenza al reale, il desiderio di comprendere le maglie e gli interstizi che si creano naturalmente in qualsiasi sistema conoscitivo.
Kline evita di introdurci nel ‘magico mondo dei numeri’ per cercare invece di comprendere più a fondo il significato del pensiero formale.
Storia di un amore infinito è tutt’oggi considerato un caposaldo della divulgazione scientifica nei paesi anglosassoni, per cui non sorprende la decisione di Meltemi, specializzata nella pubblicazione di testi di antropologia, di riproporre in catalogo il lavoro di Kline. A prima vista ci si potrebbe stupire di ritrovarlo insieme a testi fondamentali della saggistica antropologica, di esplicitamente antropologico nel libro c’è ben poco, e la mancanza di note editoriali o prefazioni all’edizione attuale non aiuta a superare lo stupore iniziale. Tuttavia, una lettura più attenta rivela che non c’è nulla di stonato. Anzi, la scelta di ripubblicare il libro di Kline mette in risalto uno degli aspetti più problematici e controversi della saggistica scientifica: che cosa significa tracciare una storia del pensiero matematico?
Le vicende degli esseri umani appartengono al progressivo dispiegarsi di avvenimenti e cause, un dispiegarsi che non lascia il tempo di carpirne le strutture, se non retrospettivamente, quando le giunture macroscopiche della storia si trovano sufficientemente distanti dalla nostra visione contingente. Nel libro si ha la sensazione di trovarsi di fronte un’immensa matassa, un sistema organico che si dipana dalla geometria egizia alla teoria della relatività di Einstein passando per Tolomeo, Copernico, Galileo, Newton e Leibniz. Proprio il carattere interstiziale della matematica, capace di raggiungere profondità abissali in spazi minimi, sembra rendere improbabile ogni spiegazione che si richiami al progresso nella sua accezione abituale.
Le tappe dello sviluppo della matematica non sono infatti parallele all’espansione delle altre conoscenze. A differenza di altri campi, caratterizzati dalla permanenza di pilastri fondamentali che servono a definire le fondamenta, la matematica espande i suoi petali in uno spazio misterioso e indefinito. Il ruolo dello storico e del divulgatore è perciò quello di scegliere una cornice che trasformi questo movimento disordinato in un disegno coerente. Appare in questo senso evidente la scelta interpretativa di Kline: c’è un aspetto particolare che sembra aver accompagnato da sempre la scienza nell’immaginario occidentale, ossia l’ipotesi che una Natura si preservi sempre intatta dall’intrinseca arbitrarietà dell’osservazione.
A differenza di altri campi, la matematica espande i suoi petali in uno spazio misterioso e indefinito.
Ma che cos’è, in fondo, questa ipotesi unificante l’intera storia della scienza e della matematica? Un’ipotesi meno ingombrante del credere in forze sovrannaturali, ma troppo insidiosa per essere messa in discussione dagli scienziati. Si tratta del credere in una natura governata da leggi indipendenti dalla struttura della mente e della società umana, una natura che circonda lo sguardo dell’uomo più che esserne circondata. Superando il pregiudizio del senso comune si può immaginare come una tale credenza si basi su quella che è stata, fino ad ora, una ragionevole verità empirica: la possibilità di riunire tutte le prospettive del fenomeno in un’unica entità, in un meccanismo dal quale vengono emanate in modo consistente. Principio plausibile, ma che si rivela essere una coincidenza in seguito agli sviluppi più recenti della fisica quantistica.
La geometria unifica e ridefinisce le manifestazioni del sensibile, non solamente in ambito scientifico. Fino al Medioevo la rappresentazione pittorica non rifletteva sul significato dell’osservatore, dando poca importanza alla mimesi dell’evento rappresentato. La scienza della pittura rinascimentale rivela la sua natura formale nel monumentale De pictura, edito nel 1435 da Leon Battista Alberti, e si comprende che lo studio della prospettiva non è dettato dalla ricerca di realismo (fedele a cosa, a quante delle molte sfaccettature del racconto?), ma si configura come una rivoluzione dell’idea stessa di pittura. La tela viene interpretata come una proiezione, un accesso parziale a una totalità armonica che si interpone fra gli occhi di un osservatore e il soggetto, entrambi predefiniti dalla volontà dell’artista.
L’emergere della nozione di prospettiva nell’arte è analogo allo sviluppo della moderna concezione di spaziotempo. Anche nella relatività si intravedono due movimenti, quello soggettivizzante, laddove lo studio algebrico di Lorentz classifica l’arbitrarietà nella descrizione dei fenomeni fisici insita nella scelta di un sistema di riferimento, e quello aggregante, che si conclude nella ricostruzione di un’unità geometrica che giustifica la nozione stessa di sistema di riferimento. Il primo movimento, quello influenzato dal pensiero positivista di Ernst Mach, sfocia nel carattere speciale della relatività, mentre il secondo darà sfogo all’ontologia dell’universo “a blocco” che abbraccia la relatività generale. Sono movimenti opposti, entrambi possibili e conciliabili grazie al polimorfismo del linguaggio geometrico.
L’emergere della nozione di prospettiva nell’arte è analogo allo sviluppo della moderna concezione di spaziotempo.
Le singole prospettive, ovvero le proiezioni emanate dalla singolarità del soggetto, possono essere descritte razionalmente e godono di una loro dignità scientifica. Queste singolarità non devono per forza coincidere con una sintesi che ne salvi il carattere oggettivo. Kline, al contrario, postula l’equivalenza dell’analisi e della sintesi del fenomeno. Anche quando descrive la rivoluzione insita nell’analisi statistica, ovvero gli strumenti che permettono di trascendere l’approccio deduttivo stabilendo una grammatica dell’incompletezza che parte dal fenomeno e che quindi più si adatta alle scienze sociali, Kline non si pone mai la domanda dell’esistenza o meno di una singola prospettiva uniformante: la stocasticità viene sempre interpretata come un’impossibilità pratica dovuta all’ignoranza di certe le variabili che compongono i meccanismi deterministici sottostanti.
Proprio questo principio è quello che vacilla davanti alla rivoluzione quantistica. Il conflitto con la causalità classica, la necessità di ricorrere alle probabilità non come conseguenza del fallimento della previsione esatta, che ne è solamente un corollario, ma come testimonianza di un’insormontabile difficoltà nell’accesso del fenomeno. È questa una parte silenziosa e incompresa di tale rivoluzione, ancora oggetto di dibattito da parte di molti fisici, che cercano di affrontare questa difficoltà ricorrendo a concetti come i multiversi, le proprietà “relazionali” e le varie “onde pilota”.
Kline decide di evitare gatti, paradossi e sovrapposizioni pur scrivendo negli anni Cinquanta, momento storico che ha visto il compimento della moderna teoria dei quanti. Non vi è menzione della fisica quantistica, e un simile silenzio ne rende l’assenza assordante. Scelta singolare che non può essere dettata dall’ignoranza, piuttosto dalla consapevolezza che la meccanica dei quanti va a tradire l’ipotesi unificante che sottintende tutto il racconto di Kline. Pur consentendo di prevedere statisticamente i risultati di un esperimento, la teoria formalizzata da Bohr, Heisenberg e Schrödinger solleva ancora la domanda: quali sono le variabili “nascoste” che giustificano la necessità delle probabilità in una teoria così fondamentale?
La natura non può essere interamente racchiusa nelle varie possibilità dell’osservazione.
La risposta di Bohr è sorprendente: le probabilità sono sintomo dell’impossibilità di sintetizzare diverse prospettive di un fenomeno in una descrizione classica che le contiene e non, come solitamente lo si intende, la ripercussione di variabili nascoste. La natura non può essere interamente racchiusa nelle varie possibilità dell’osservazione, parla un linguaggio esoterico diverso da quello classico che si espone comunemente nelle varie possibilità “complementari” dell’osservazione. La possibilità di unificare queste prospettive si deve comprendere come generalizzazione della causalità stessa e può avvenire attraverso l’astruso linguaggio matematico della teoria dei quanti. L’aspetto stocastico del formalismo è il testimone esplicito, osservabile, di un gigantesco sovvertimento dei paradigmi della scienza.
Non tutti i fisici hanno compreso l’inadeguatezza della prospettiva realista che è stata nella storia occidentale argomento di ogni scienza cosiddetta naturale. Per molti “fare fisica” è ancora imprescindibile da questo credo, dall’aderenza a una forma molto forte di questo “realismo naturale”, forse nella convinzione che gli scettici verranno convertiti da una chimerica teoria del tutto, e che la moderna teoria dei quanti possa essere solamente un incidente di percorso. È davvero paradossale osservare che, all’incirca nello stesso momento storico, Einstein sia riuscito in un’impresa forse ancora più ardita, ossia persuadere la comunità scientifica dell’inadeguatezza dei presupposti stessi della sintesi del fenomeno: le nozioni di spazio e di tempo. Perché mai lo sciogliersi, o meglio, l’amalgamarsi di spazio e tempo in un universo a blocco diventa accettabile, ma non lo è ammettere i limiti della causalità classica esposti da Bohr?
Questo silenzio di Kline sulla meccanica quantistica sembra suggerire una possibile spiegazione: non si tratterebbe solamente di una crisi del paradigma, come spiegato da Kuhn, ma di una ferita più profonda, forse l’inizio della fine di questo “amore infinito” per una scienza in grado di dare una spiegazione compatta della realtà. La nuova fisica dovrebbe disincagliarsi da questa narrazione occidentale e volgersi a Oriente: smettere il lavoro unificante e oggettivizzante e rivelare le nuove possibilità di rapporto con il reale che intravediamo nello studio dell’infinitamente piccolo, o meglio nello studio “dell’altra parte”, di quel mondo fenomenico rappresentabile solamente attraverso le logiche delle meccanica quantistica, invitandoci a rinnovare il nostro legame con il formalismo matematico. Un legame che vede nella matematica non il linguaggio della realtà ma uno strumento che rivela analogie attraversando confini, vivendo negli interstizi del canone, fra una prospettiva e l’altra.