U
no tra i libri di René Daumal più curiosi tra quelli tradotti in italiano è Il lavoro su di sé. Lettere a Geneviève e Louis Lief, nato da vicende che potrebbero benissimo essere trasposte in un romanzo. Nel mezzo della Seconda guerra mondiale, nella Francia per metà occupata dai nazisti e per l’altra metà guidata da un governo collaborazionista, il poeta e scrittore francese René Daumal in cerca di un luogo vicino alle Alpi adatto per la tubercolosi che lo affliggeva già da diversi anni, trova rifugio da una coppia conosciuta a Marsiglia che abita nell’Alta Savoia, a Plateau d’Assy. Geneviève e Louis Lief, lui farmacista, affetto come Daumal da tubercolosi, lei come la compagna di Daumal Véra Malinova costretta a provvedere alle cose quotidiane. Fin qui nulla di eccezionale, ma l’incontro tra le due coppie nasconde in realtà qualcosa di straordinario perché Daumal, che già era un illuminato studioso di sanscrito e della filosofia indù, traduttore di testi della tradizione vedica (aspetti di cui offre una precisa testimonianza la raccolta di scritti di Adelphi Lanciato dal pensiero), diventa per i due un maestro, che si prefigge il compito di condurre la coppia alla “conoscenza di sé” attraverso un percorso di profonda trasformazione spirituale.
Daumal è ispirato in questa sua opera dagli insegnamenti del maestro Georges I. Gurdjieff e della sua scuola, in particolare da un suo importante allievo Alexandre de Salzamann, che conoscerà personalmente a differenza di Gurdjieff e che morirà di tubercolosi come accadrà a Daumal: questo piccolo libro raccoglie le lettere che Daumal inviò alla coppia dopo essere tornato a Parigi, dove morirà nel 1944 a 36 anni. “La presa di coscienza è un atto istantaneo e l’acquisizione della coscienza è un lavoro lungo e difficile”, scrive Daumal ai due, per poi aggiungere: “L’uomo è una macchina; la coscienza una luce che l’illumina. La nostra odierna coscienza è in realtà sonno, oscurità quasi totale”, e ancora:
la macchina funziona pressappoco bene nell’oscurità. Rispetto alla macchina, il risveglio della coscienza è come un fascio di luce. Quando si produce, rispetto al nostro stato di sonno è qualcosa d’istantaneo, che si sviluppa in un’altra dimensione.
Tutta l’opera di Daumal, che trova in queste lettere una perfetta introduzione oltre che una prodigiosa esposizione dei problemi principali, è tesa nella direzione di una vera e profonda acquisizione della coscienza, un invito, come ha scritto Claudio Rugafiori, appassionato e puntuale curatore di tutte le opere di Daumal pubblicate da Adelphi, ma anche di quelle in lingua francese, “al viaggio in se stessi per non scoprirsi automi”.
In queste lettere le immagini scelte da Daumal rimandano spesso alla mente l’idea di una complessa ascesa verso l’alto, che muove da elementi concreti di cui pian piano liberarsi, prima di salire in uno spazio etereo e senza gravità attraverso quello che in una lettera chiama lo “sforzo massimo”. A una scalata, concreta e metafisica insieme, è dedicato il libro più famoso di Daumal, Il monte analogo, appena ripubblicato da Adelphi in una nuova versione rivista e aggiornata e sempre da Rugafiori.
Daumal ha definito Il monte analogo un “racconto piuttosto lungo”, una storia che ha per protagonisti un gruppo di alpinisti che, una volta compreso di trascorrere l’esistenza in prigione e di avere il “dovere, prima di tutti, di rinunciare a questa prigione”, partono da Parigi alla ricerca di “un’umanità superiore” sulla vetta più alta di qualsiasi altra vetta. Dopo una navigazione per mare non “euclidea”, Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche recita il suggestivo sottotitolo del romanzo, il gruppo giunge nell’isola dove si trova il Monte Analogo, sempre secondo le parole di Daumal, “la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra; via che deve materialmente, umanamente esistere, perché se no, la nostra situazione sarebbe senza speranza”. Giunti sull’isola, i membri di questa spedizione si trovano davanti un’umanità eccezionale dagli usi e costumi non propriamente ortodossi che vive nello stesso desiderio che oramai si è completamente impadronito degli alpinisti, scalare la vetta.
Il romanzo di Daumal uscirà postumo nel 1952 e, soprattutto, incompleto a causa della morte dello scrittore: la narrazione si interrompe purtroppo quando il gruppo di alpinisti inizia a intravedere il campo base, nel momento iniziale del vero viaggio e così non possiamo assaporare la descrizione che Daumal avrebbe tratteggiato di questo posto straordinario dove terra e cielo si incontrano. Possiamo però facilmente intuire il carattere allegorico della vicenda che, come un moderno Paradiso dantesco, mette in scena il percorso di liberazione dell’uomo e la ricerca di una pace che nasce, appunto, dalla “conoscenza di sé”. Ma come nel poema di Dante, anche nell’opera incompiuta di Daumal lo scrittore veste i panni del personaggio, non in maniera evidente come nella Divina Commedia certo; ma nel lungo e faticoso percorso di questi uomini verso la cima del Monte Analogo è lecito vedere lo stesso percorso spirituale dello scrittore, una trasfigurazione del lavoro intenso portato avanti dall’autore verso un luogo che oltrepassa qualsiasi contraddizione umana per aprirsi verso un nuovo centro.
In una lettera del 1940, parlando del Monte Analogo, Daumal scrive che in questo libro si è impegnato a parlare “dell’esistenza di un altro mondo, più reale, più coerente, dove esiste del bene, del bello, del vero — nella misura in cui i contatti che ho potuto avere con tale mondo mi dànno il diritto e il dovere di parlarne”. L’esistenza di un altro mondo di cui Daumal sente il dovere di parlare, perché, continua, “alcuni compagni e io abbiamo realmente trovato la porta”.
Il monte analogo si lega alle lettere di cui sopra perché Daumal veste i panni del maestro che include e che sa di dover includere, che apre la sua conoscenza a chiunque abbia la voglia, e il coraggio, di avvicinarsi a questa soglia, intesa, come fa Walter Benjamin nei Passages, come uno spazio liminare in cui soggiornare e trasformarsi, uno spazio materiale e abitabile che “racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento”. Decidere di seguire Daumal in questo percorso, lucido e che nasce davanti alla consapevolezza dello scrittore di una morte prematura a causa della sua malattia, ci porta verso una situazione in cui ciò che è oltre la soglia è celato, ma nello stesso tempo intuibile e desiderabile, le porte di un mistero che, come scrive Agamben riguardo agli spazi di confine incerti in Autoritratto nello studio, lasciano entrare, ma non lasciano uscire:
Viene il momento in cui sappiamo di aver traversato quella soglia e a poco a poco ci rendiamo conto che non potremo più uscirne. Non che il mistero si infittisca, al contrario – semplicemente sappiamo che non ne verremo più fuori.
Nella sua introduzione alla recente raccolta di poesie e prose di Daumal Controcielo, pubblicata dalle edizioni Tlon con la traduzione di Damiano Abeni e testo a fronte, Andrea Cafarella insiste parlando del Monte Analogo proprio su come Daumal indossi i panni di un maestro che prende su di sé il compito di “mostrare davvero la via, di mostrare a tutti che ne esiste una”, a maggior ragione nel momento in cui la morte si avvicina a grandi passi e il tempo è poco per un compito così grande (“Disimparare a sognare a occhi aperti, imparare a pensare, disimparare a filosofeggiare, imparare a dire: non si può fare da un giorno all’altro. E tuttavia non abbiamo che pochi giorni per poterlo fare” ha scritto Daumal). La morte infatti è ciò che aleggia in tutte queste poesie e prose, ma questa non è però intesa solo come fine biologica della vita, quanto invece come un prezioso momento di passaggio che invita a pensare a un mondo fuori da questo, inimmaginabile, come le cime del Monte Analogo che Daumal non è mai riuscito a descrivere, il controcielo appunto, il “mondo alla rovescia in cui vanno i morti e i sognatori, secondo le credenze primitive, lo stampo cavo di questo mondo”.
Provare a definire la natura del percorso di Daumal e immaginare dove lo scrittore potrebbe essere arrivato rientra nel campo inesauribile delle possibilità: non resta allora al lettore che abbandonarsi tra le pieghe e le evoluzioni di un itinerario complesso e forse lontano dal nostro modo di pensare per la sua astrattezza e la sottrazione continua di elementi tangibili. La cosa migliore è certamente lasciare ancora una volta la parola al maestro Daumal che in una lettera indirizzata a Vèra sembra riassumere i pensieri di un’intera esistenza votata alla conoscenza e suggerire come l’essenziale si conquisti spesso sbagliando, in quanto la vita non è probabilmente altro che un continuo riprovare:
Sono morto perché non ho il desiderio,
non ho desiderio perché credo di possedere,
credo di possedere perché non cerco di dare.
Cercando di dare, si vede che non si ha niente,
vedendo che non si ha niente, si cerca di dare se stessi,
cercando di dare se stessi, si vede che non si è niente,
vedendo che non si è niente, si desidera divenire,
desiderando divenire, si vive.