

O gni volta che attraverso una città di grande o piccola estensione, che sia una città d’arte o una metropoli, una domanda mi sorge ricorsivamente: a chi appartiene questo spazio? Di chi è la città? La risposta che mi do, su un piano quantomeno teorico e ideale, è la ripetizione di un mantra che talvolta inizia a suonarmi un po’ frusto, ossia l’adagio del sociologo francese Henri Lefebvre sul cosiddetto diritto alla città. Per Lefebvre il diritto alla città rientra tra le forme superiori di diritto – come quello alla libertà dell’individuo, per intenderci – e si declina sia nella possibilità da parte del cittadino dell’operare all’interno della città (l’attività partecipata), sia in un diritto alla fruizione della città stessa (ben diverso dal diritto di possedere la città). E, se è pur sempre doveroso ricordarsi il mantra di Lefebvre, resta altrettanto vero che quando cammino per il centro storico di una città, invaso da turisti, agenti di sicurezza o militari e dalle etichette commerciali multinazionali uguali in ogni dove, oltre che da immancabili e pacchiani negozi di souvenir, quella formula non basta a snebbiare i dubbi, soprattutto in termini pratici. Sfrondando quasi tutto di ciò che vedo, mi sembra che rimanga solo un grande vuoto, un’assenza.
A chi appartiene, davvero, lo spazio che attraversiamo? E poi, chi vive qui?
Da quando la casa è passata dall’essere un diritto a essere una merce? Risalendo alla nascita del welfare come contromisura alle ricadute sociali del capitalismo industriale, lo sguardo viene puntato in particolare alle politiche di edilizia risalenti al secondo dopoguerra.
Il primo punto che fissa l’autrice è costruire una storicizzazione del fenomeno: da quando la casa è passata dall’essere un diritto a essere una merce? Risalendo alla nascita del welfare come contromisura alle ricadute sociali del capitalismo industriale, lo sguardo viene puntato in particolare sulle politiche di edilizia risalenti al secondo dopoguerra e su come la maggioranza di esse, seppur con l’intento di sanare un forte disagio abitativo, sia stata messa in atto favorendo la proprietà piuttosto che la locazione, sia stata cioè volta alla costruzione di un particolare ceto sociale e non una misura rispondente a bisogni sociali: una strategia a favore del ceto medio di cui la Democrazia cristiana cercava aperto sostegno politico a partire dal primo intervento politico sulla casa del 1951 diretto da Amintore Fanfani, il Piano Ina-Casa. Scrive Gainsforth:
La diffusione dell’accesso alla proprietà, intesa come presidio della libertà della persona e della famiglia, doveva essere al centro di un programma di politiche economiche, fiscali e creditizie mirato ad assicurare la casa in proprietà ad ogni famiglia di operai, impiegati e professionisti. […] L’obiettivo della Dc è riassunto nella nota formula “non tutti proletari ma tutti proprietari”. […] La diffusione di massa della proprietà della casa, considerata come una garanzia di stabilità, è stata uno degli elementi più determinanti della trasformazione dell’Italia repubblicana.
Insistendo politicamente sul ceto medio, gli interventi abitativi e di welfare hanno favorito una classe sociale che potesse trasformarsi – anche grazie al possesso di una casa – in una classe di elettori-consumatori.
Proprio la finanziarizzazione del capitalismo nella svolta neoliberale è un secondo punto fondamentale per comprendere lo sviluppo del tema casa. Gainsforth infatti sottolinea come, delle tre forme di reddito del sistema capitalista – il salario, cioè reddito da lavoro; l’utile, reddito d’impresa; e il reddito derivato dal possesso di beni, chiamato rendita – proprio quest’ultima sia diventata lo strumento prediletto di un’economia di speculazione che mira a estrarre quanto più valore possibile dall’edificazione sul terreno o dalla proprietà immobiliare, sfruttando le politiche di valorizzazione del territorio urbano. L’economia non punta più alla produzione di beni da vendere da cui ricavare, appunto, utili, quanto piuttosto all’estrazione di un valore di rendita sempre più alto e sempre più concentrato nel privilegio della proprietà, con una modalità non dissimile da una sorta di pseudo-feudalesimo.
È questo processo a rendere, in particolar modo in Italia, l’edilizia un settore di investimento che, soprattutto dagli anni Ottanta, si è progressivamente scollato dalle esigenze abitative reali, producendo un numero ingente di immobili vuoti il cui alto tasso (il 18% del totale sul territorio, riporta l’autrice), calato nell’attuale crisi abitativa, è sintomo sia dell’inefficienza del mercato sia dell’illusorietà del sogno capitalistico, il quale, più che assomigliare al mondo delle possibilità e del cambiamento, appare sempre di più come territorio dell’immobilità e della conservazione.
Gainsforth sottolinea come il reddito derivato dal possesso di beni, chiamato rendita, sia diventato lo strumento prediletto di un’economia di speculazione che mira ad estrarre quanto più valore possibile dall’edificazione sul terreno o dalla proprietà immobiliare.
La crescita dell’economia di investimento ha infatti prodotto una serie di conseguenze a livello urbano. La prima, più costante ed evidente, è lo spostamento di obiettivi politici verso chi compra e possiede la città a discapito di chi la abita. In secondo luogo, la retorica del “declino delle città”, del degrado e dell’abbandono urbano sono state narrazioni che hanno funzionato da cavallo di Troia, da un lato per il ritiro di politiche pubbliche coordinate, dall’altro proprio per la capitalizzazione finanziaria delle città. Anche attraverso operazioni pretestuose come il social housing (anch’esso rivolto tendenzialmente a una fascia non debole, in Italia parliamo di ISEE superiori ai 15.000 euro), la colpa di questa deregolamentazione ricade anche e soprattutto sul settore pubblico, macchiatosi di forte connivenza con gli interessi privati in un “intreccio opaco fra chi dovrebbe amministrare per il bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della rendita”.
La retorica del “declino delle città”, del degrado e dell’abbandono urbano ha generato narrazioni che hanno funzionato da cavallo di Troia, da un lato per il ritiro di politiche pubbliche coordinate, dall’altro proprio per la capitalizzazione finanziaria delle città.
Insomma, resta in città chi se lo può permettere e chi non si può permettere una fuga, in uno scenario selettivo dove le città si stanno riducendo a privilegio per pochi e a spazio di capitalizzazione di risorse quali il turismo.
Insomma, resta in città chi se lo può permettere e chi non si può permettere una fuga, in uno scenario selettivo dove anche le città, proprio in relazione al peso della rendita immobiliare, vedono bloccata la propria crescita economica, riducendosi a privilegio per pochi e a spazio di capitalizzazione di risorse quali il turismo, paradosso ultimo di un processo di impoverimento, fondato sulla nostalgia per un mondo che esso stesso contribuisce a distruggere. Ma è possibile invertire la tendenza? Sì, risponde Gainsforth con un piglio che, lungo l’intero arco del testo, risulta sempre propositivo, dando vita a una solida e inoppugnabile pars costruens del saggio.
Dotandosi di esempi, leggi, dinamiche economiche ed esperimenti politici attuali o storici ‒ come le politiche di regolazione del turismo messe in atto dal comune di Barcellona, oppure il tentativo della legge Sullo del 1962 di introdurre la distinzione tra diritto di superficie e diritto di proprietà e affidare quest’ultimo al pubblico, mentre il primo ai costruttori –; ricordando anche l’articolo 42 della Costituzione, che disciplina la proprietà privata in modo da “assicurarne una funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” e che, in mancanza di tali casi, prevede l’esproprio da parte dello Stato, l’autrice fornisce una gamma ampissima di formule e vie di fuga per contrastare l’attuale crisi. Formule che alla base hanno per l’Italia – rimasta indietro sul problema – la ricostruzione di un ruolo e di un’azione netta, distinta e solida del pubblico sul privato:
Il cuore della questione abitativa in Italia non è la carenza di case, ma la carenza di case da destinare ad affitto sociale, il quale consentirebbe di mobilitare il patrimonio immobiliare esistente, spesso vuoto o sottoutilizzato, senza consumare altro suolo. […] È una questione di volontà politica. […] L’interruzione dell’alienazione del patrimonio e del suolo pubblico, meno proprietà, più affitto sociale. Si tratta di alcuni e semplici principi per smettere di estrarre valore dalla terra e tornare ad abitare le case.
Forse, così, sapremo anche chi abita le città.